IL
COLORE DEI SOGNI
By
Pier Angelo Piccolo
Published
in AICW Anthology 2019
Sbirciando attraverso la
finestra dalle tendine color sabbia, Leonardo ammirava la bellezza
del panorama sottostante. Niente di eccezionale, certo, si trattava,
solamente, di una semplice piazzetta, una delle tante del nostro bel
paese, contornata da ville e palazzi, nemmeno tanto antichi, in una
splendida giornata di sole. Poteva vedere i tavolini in ferro di due
o tre piccoli bar, poi quelli, spaziosi, di un ristorante; un negozio
di tabacchi ed una profumeria: tanta gente che camminava piano e
qualche bambino che giocava nel far rimbalzare una pallina, subito
rincorsa da un bastardino color petrolio, con pochi peli e la coda
che sbatteva gioiosamente di qua e di là .
Eppure
il tutto - sia resa gloria a Dio! - gli appariva, in quell’istante,
come un qualcosa di favoloso.
Soffriva
molto, poiché doveva starsene chiuso lì dentro, in una squallida
anticamera posta al primo piano di quell’assurdo palazzone ad
aspettare, ed aspettava già da molto, troppo tempo. Quanto gli
sarebbe piaciuto potersi sedere comodamente, come gli altri al di
fuori, nella luce del giorno, magari a giocare con i bambini col loro
bizzarro cagnetto. Invece, era costretto ad attendere, senza potersi
muovere, qualcosa che nemmeno riusciva ad immaginare; la sua ansia,
il suo affanno, andavano crescendo ad ogni minuto.
Era
stato convocato con urgenza, in quel triste luogo, tramite lettera di
precetto: una di quelle agghiaccianti cartelle color ocra, che tutti
temevano, le quali non contengono mai alcuna indicazione del mittente
(tanto si sa chi è), né qualche dichiarazione esplicativa, che ti
consenta di capire, almeno, perché diamine ti avessero chiamato. Se
la ricevi, devi correre.
E
il tempo, mentre stava lì a pensare, continuava a scandirsi con
lentezza esasperante. Anche l’atmosfera diveniva sempre più
greve. Aveva smesso, a quel punto, di guardare fuori: adesso
desiderava solo che qualcuno aprisse, finalmente, quella porta
maledetta, invitandolo ad entrare. Se non altro avrebbe saputo,
almeno, qual’era la sorte che lo attendeva.
Il
cielo iniziava, inesorabilmente, a farsi buio.
Con
un tuffo al cuore, s’accorse che stava giungendo , da dietro la
porta, qualcuno dai passi pesanti e decisi. Eh sì, si stava proprio
avvicinando a lui, tra un po’ avrebbe aperto l’uscio e si sarebbe
rivelato. Dal rumore che faceva camminando, Leonardo intuì che
quella persona poteva essere, senza dubbio, un gigante spaventoso. E
comprese anche, dato il tempo che lo sconosciuto stava impiegando,
che la stanza dietro quel portone doveva essere senz’altro di una
grandezza immensa.
I
passi orribili, si fermarono proprio dietro la soglia, ne sentì
provenire un respiro affannoso, proprio come il suo. Con uno scatto
pauroso, come ferraglia che stride, si spalancò la porta. Apparve un
uomo completamente calvo, alto più di un giocatore di basket e
grosso come un bufalo: l’espressione mimica del suo volto era
inesistente, i suoi occhi avevano il colore del ghiacciaio Perito
Moreno, quello che si incontra andando all’estremo sud del mondo.
Era proprio il luogo in cui, lo sventurato ragazzo, avrebbe
desiderato trovarsi in quel momento. Con un cenno nervoso della mano,
il bestione invitò Leonardo ad accomodarsi dentro, senza pronunciare
alcuna parola. Egli vi entrò di corsa, non volendo nemmeno
immaginare cosa sarebbe potuto accadere se si fosse, imprudentemente,
rifiutato di obbedire all’ordine impartitogli. L’aula che gli
apparve davanti agli occhi era veramente sconfinata. Non si riusciva
a intravedere il soffitto, troppo alto che, si intuiva, era
affrescato da immagini rinascimentali, colorate a forti tinte e che
riprendevano temi apocalittici e demoniaci.
Non
sarebbe stato possibile calcolare l’ampiezza di quel salone, né
la distanza tra muro e muro. Ad ogni passo, rimbombava una specie di
cannonata. Col cuore in gola e sospinto dal gorilla, il povero
Leonardo procedeva come un condannato. Fu condotto lungo uno
squallido corridoio che gli ricordava quello delle antiche carceri,
maltenuto, ammuffito, buio e molto freddo. Una morsa di nausea
attanagliò il suo stomaco, la percepiva fino all’altezza del
fegato. Finalmente, arrivò davanti ad una porta chiusa:
probabilmente era quella la sua destinazione. Il gigante bussò con
cortesia, da dentro una voce stridula, in risposta, urlò: “avanti”.
Il
poveretto si trovò al cospetto di uno strano individuo di mezza età ,
con pochi capelli e molto unti, dalla faccia dura, come quella dei
protagonisti dei film americani di gangster, o quelli dei terribili
soldati nazisti, spaventosi e dall’aspetto profondamente
ripugnante. Egli fece un cenno allo scimmione, che si allontanò.
Adagiato
sulla sua grande scrivania, il burocrate continuò, imperterrito, a
leggere e consultare delle carte. L’imputato notò che il tempo
scorreva più lentamente e pesantemente di prima, mentre il suo
aguzzino non accennava ad alzare gli occhi. Poi, però, alzò le
spalle e si mise in moto.
“Bene,
bene, signor Leonardo, noi siamo qui per soddisfare la sua
richiesta”, pronunciò, con tale accento che definire fastidioso
sarebbe stato un eufemismo attenuante.
Leonardo
non ne capì nulla. Era da tante ore che, chiuso in quel palazzo da
cui sognava di evadere, si chiedeva perché l’avessero convocato.
Pensò a tutte le sue azioni, a cosa potesse aver combinato senza
essersene accorto. Cercò di ricordare se avesse avuto degli
scheletri dentro l’armadio, se si fosse macchiato di qualcosa di
orribile, come aver fatto del male a qualcuno o a qualcuna, ma la sua
ricerca interna risultò sempre negativa.
“Benissimo, occhèi –
proseguì in un improbabile idioma anglofono l’orrendo funzionario
– adesso, come vuole lei, la soddisferemo.”
Tirò
fuori dal cassetto un foglio ed iniziò a leggerlo, declamando con
forza:
“Il
giorno 20 di marzo dell’anno millenovecentonovantasei, il signor
Bertoldini Leonardo, fu Mario ed Eufemia, si trovò ad esclamare, ad
alta voce - verso le ore undici e trenta di quel mattino - questa
frase:
“mi
piacerebbe proprio morire.”
Allora,
Le risulta di aver detto questo?”
Leonardo
non riuscì nemmeno a reagire, non si mosse. Pensò: ” ma mi hanno
convocato per questo? che c’entra? e cosa vogliono? Che c’azzecca
tutto ciò?”
Accovacciato in quella
seggiolina di paglia, si sentiva piccolissimo, mentre percepiva
l’alta figura del burocrate sopra di lui che, oltre a far paura,
sembrava possedere dimensioni sovrumane. Si considerava una nullità ,
impotente, un povero nano insignificante al confronto di un
rappresentante del potere, come Davide con Golia. L’impiegato
continuò:
“Bene
signor Leonardo. Noi siamo qui per appagare la sua richiesta. Lo sa
che Noi non lasciamo nulla di intentato, il nostro motto è:
“chiedete e vi
sarà dato”,
aggiunse con un ghigno satanico.
“Che
significa? - Rispose il tapino con un filo di voce – l’ ho detta
tanto per dire, quella frase, in quel momento ero disperato, dopo di
allora, la mia vita è cambiata.”
“A
Noi poco importa, la Direzione ha acconsentito di esaudire la sua
richiesta. La decisione è presa.” E mentre pronunciava queste
parole, impresse un timbro, con violenza, sul foglio che aveva appena
letto. Poi lo lanciò sopra una pila di altri fogli. Stava già per
congedare il malcapitato, chiamando l’orango, quando Leonardo lo
bloccò: “Un momento aspetti, può essere anche vero che io abbia
pronunciato tali parole, in quel momento di sconforto, di tanti anni
fa, ma poi, un po’ alla volta, il mio destino è cambiato.”
Il
funzionario solerte, guardò verso il vecchio orologio che portava
sopra il polsino della camicia, fece una smorfia come per dire che
l’ora era tarda e che doveva andarsene, che aveva altro da fare, ma
Leonardo proseguì: “adesso la mia vita è diventata un’altra
cosa. Vede, signor funzionario, in quell’epoca ero proprio
disperato. Il lavoro andava molto male ed io mi ero trovato pieno di
debiti. Avevo chiesto aiuto a tutti, ma non era bastato. Le banche mi
volevano rovinare e la mia azienda non valeva più nulla.
Mia
moglie che amavo come un angelo, si era ammalata, era andata in
depressione, piangeva sempre ed aveva deciso di andare a vivere in
un’altra parte, lontana, lontana. Poi lei si spense all’improvviso
ed io ne soffrii tantissimo. Non vedevo l’uscita dal tunnel in cui
stavo agonizzando. Fu proprio alle ore undici e ventinove di quel
giorno, che il postino mi recapitò una lettera inviatami dalla
banca. In tale missiva, si sentenziava, freddamente e con parole
scarse, che l’istituto di credito aveva deciso di togliermi tutto,
anche la casa in cui vivevo. Ecco perché, un minuto dopo, pronunciai
quella frase maledetta.”
Il
funzionario si sforzava di ascoltarlo annoiato, ma si vedeva che era
lontano anni luce da quei problemi e da quelle miserie: aziende in
crisi, matrimoni falliti, malattie, banche usuraie, a lui che gliene
fregava, con quel suo bel salario solido e fisso che gli passava la
direzione?
Leonardo insistette nel suo
disperato racconto: “Poi, però, le cose cambiarono. Un caro e
fedele amico mi propose di associarmi con lui, visto che il mio
lavoro lo sapevo fare bene. Questo mio amico era abile ( a differenza
di me) a districarsi con le banche, la contabilità , la maledetta
burocrazia, e aveva lasciato al sottoscritto il compito di creare, di
elaborare e di produrre gli articoli che si sarebbero, poi, dovuti
vendere. In poco tempo gli affari decollarono. Pagai i miei debiti,
ricomprai la casa. Pur pensando, con tristezza, alla mia cara moglie
che mi aveva lasciato, decisi di rifarmi una vita. Incontrai un’altra
donna, giovane, che mi dette due figli, quei figli che prima non
avevo avuto. Ora sto bene. Sto bene di salute, sto bene
economicamente, sono felice con la mia famiglia e i miei piccolini li
amo, Dio lo sa, più dei miei occhi. E’ per questo che voglio
vivere almeno altri cento anni.”
“Però,
lei … ha chiesto espressamente …. ”
“Ma
ho chiesto tante altre cose, Santo Dio. Dopo quella volta che ho
detto, stupidamente di voler morire, ho rivolto al cielo tante e
tante altre invocazioni. Ho domandato anche, gentilmente, di vincere
al superenalotto. E questo desiderio, allora, perché non lo esaudite
con tanta solerzia?”
“Col
tempo, col tempo, Noi, facciamo tutto signor Leonardo. Una cosa alla
volta. Ora, se vuole scusarmi ….”
Era
sceso, in quella stanza, un gelo raccapricciante. Ma Leonardo non
demordeva:
“E
come dovrei morire, se permette?”
Con
noia, il funzionario riprese il foglio, che aveva già timbrato,
dalla pila altissima e lo lesse:
“La
morte avverrà entro dieci giorni, in un incidente stradale. Una
automobile la schiaccerà nella regione lombare, sulla schiena e
sopra la testa, facendone fuoriuscire materia grigia. Penso intendano
il cervello – sentenziò – è soddisfatto?”
L’uomo
di potere andava crescendo di misura: pareva sempre più grande,
potente ed autorevole, Leonardo era sempre più piccolo e chiuso in
sé stesso.
“Beh,
ora devo proprio andare via” – disse l’aguzzino, lanciando uno
sguardo verso il suo stupido e ridicolo orologio, indossato in quella
maniera così goffa e cafona.
Per
l’ennesima volta, il ragazzo lo bloccò:
“Un
attimo ancora, ferma, aspetta. Ai condannati a morte non è dato di
esprimere l’ultimo desiderio?”
“Ma
insomma …” bofonchiò l’uomo potente.
“Ho
capito, lei non conta nulla. Lei non ha alcun potere. E’ un
semplicissimo “funzionariello passacarte”, un qualsiasi impiegato
statale di infima categoria, che deve solo fare ciò che gli ordina
la direzione e tacere, non può proporre, né disporre. Ho pena per
lei. Lei sta peggio di me, caro signor capufficio del cavolo”
“Come
si permette di parlare così?”- sbraitò prontamente l’uomo. Poi,
però, divenne un po’ pensoso, si sentì come gli avessero rivelato
di essere impotente. E questa era la sensazione che più odiava
provare.
Il
ragazzo continuò, apparentemente, con più dolcezza:
“Io
confidavo che lei potesse, almeno, esaudire un ultimo desiderio,
l’estrema richiesta di una persona infima come me, ma,
evidentemente non può farci nulla.”
Ma
poi aggiunse a voce alta: “Lei, caro il mio dirigente del piffero,
è solo uno dei tanti servi sciocchi del potere. E questo potere lei
lo lecca con piacere.”
L’energumeno si alzò in
piedi, diventando ancora più gigantesco, urlò: ”Sappia che io
sono impiegato di categoria “AB2”, cioè sono quasi un quadro di
prima classe, almeno in questo palazzo. Io, se voglio, posso anche
prendere iniziative. E questa posso prenderla.”
“Vuol
dire che la esaudirà ?”
Ci
pensò un attimo, poi disse:
“chiaro
che sì, o morituro.”
L’impiegato, sentendosi di
nuovo potente, prese una penna (sì, proprio una penna d’uccello
vera, naturale) e, per dar maggior forza alla sua azione, ne conficcò
la punta aguzza nel suo avambraccio. Col proprio sangue firmò:
“Io,
impiegato di prima classe (quasi) coi poteri conferitimi dalla
Direzione, dispongo che il signor Leonardo Bertoldini, qui presente,
esponga a me il suo misero, ultimo, estremo, desiderio. Sarà in mio
potere esaudirlo.”
Siccome
“l’ inchiostro rosso” stava per terminare, l’uomo dai capelli
unti si conficcò nuovamente la piuma nelle membra, ad intingerla di
altro sangue. E pose in calce, solennemente, pose la sua firma.
Leonardo
rifletté ancora un momento, poi chiese, guardando il suo
interlocutore dritto nelle pupille :
“E’
anche indicato, nel foglio, di che colore sarà la macchina che
spaccherà il mio cervello?”
Il
funzionario, scocciato da tanta insistenza, ri-riprese in mano la
sentenza, ci passò il naso sopra, fece una smorfia: “Qui non c’è
scritto proprio nulla.”
“Mi
spiace di non poterlo sapere.”
“E
che differenza fa?”
“Fa
tanta differenza: visto che devo morire, ed in quel modo orribile,
almeno ditemi di che colore sarà la macchina della mia morte. Non
voglio conoscere quale sarà la marca di quella vettura, la sua
nazionalità , il modello o la cilindrata, ma almeno la tinta sì. Dio
mio, quella voglio proprio conoscerla.”
“A
Noi, alla Direzione, fa lo stesso.”
“Siete
ben strani, però, voi della Direzione: avete programmato tutto per
questa operazione di morte, avete cavillato fin nei minimi
particolari, ma non avete deciso il colore dell’auto. Potrei, per
caso, sceglierlo io stesso? Ebbene, caro signore, sarà questo il mio
ultimo desiderio. Deciso … proprio questo”
Stanco
di perder tempo con quel matto, il burocrate di categoria “AB2”
sentenziò, sbuffando: “Occhèi boiss, scegli tu ‘sto maledetto
colore, poi andiamo via che s’è fatto tardi.”
“Ma
sei sicuro che la Direzione accetterà ?” – chiese con un sorriso
sarcastico.
“Qui
non c’entra la Direzione. Qui, in questo ufficio, comando io. Non
vedi il mio nome scritto in oro fuori dalla porta? Sono un “AB2”,
mica l’ultimo arrivato.”
“Ah,
sì, certo … “ – sorrise Il giovane picchiatello.
E
proprio a questo punto, Leonardo Bertoldini, iniziò con enfasi e
allegria, e a voce molto alta, a redigere la sua lista:
“A
me piacerebbe che l’auto fosse di color magenta, ma forse,
ripensandoci, preferirei porpora o il rosato, detto anche ametista
chiarissimo. Eppure, il mio colore preferito è sempre stato il pesca
chiaro, ma non vorrei certo morire sotto un autoveicolo del mio
colore preferito, no di sicuro: preferirei il salmone scuro, un po’
cremisi. E’ assai piacevole il verde acqua o il malachite, tipo il
caraibi, ma un’automobile color ceruleo scuro sarebbe proprio una
favola. Pensi che classe un’automobile blu baltico e pensi anche
che io, signor impiegato di prima categoria, un’auto così l’ho
sempre sognata. I miei sogni sono sempre colorati.”
“Si,
però – bisbigliò l’impiegato con un lieve filo di voce –
dovrebbe sbrigarsi.”
“Perché?
I colori sono tanti, infiniti, il mio ultimo desiderio lo deciderò
con calma. Davanti a noi c’è l’eternità .” E proseguì:
“E
l’indaco, il fucsia, il vinaccia chiaro, il rosa perlato, il ribes
nero, lo zaffiro, il blu carta da zucchero, l’azzurro ghiaccio, il
nebbia marina, il lavanda, il rosa corallo, il fiori di melo, il
rubino scuro …”
Il
funzionario grande, gigantesco, iniziò, poco a poco, una sua strana
metamorfosi. Pensieroso e preoccupato, sembrò farsi sempre più
piccolo: la sua tremenda arroganza e la sua stizzosa noia, si
liquefecero in una smorfia di sconfitta e di impotenza. Il suo volto
cattivo diventò bianco pallido, come la sabbia formata dalla
barriera corallina: sembrava quasi diventato un “umano”, come
ognuno di quelli che, tutti i giorni della sua vita, aveva
costantemente perseguitato, in nome di quel maledetto potere, di
quella infame burocrazia, obbedendo ai voleri di una malaugurata e
disumana direzione.
Leonardo, invece, mentre
snocciolava con calma l’infinita serie delle tinte, diventava un
gigante. Chi era Golia e chi Davide, adesso? Anche la stanza sembrava
farsi più piccola. Perfino il palazzo del potere, a ben vederlo, non
era un granché: poco più di un vecchio casolare grigio topo, ormai
diroccato mentre, in lontananza, sorgevano edifici modernissimi,
bellissimi, coloratissimi, costruiti con immense vetrate, specchi,
terrazze soleggiate, luci vive e giardini pensili.
Fuori,
la nottata era passata.
Il
dirigente, tristemente accovacciato alla veranda del primo piano,
sbirciava attraverso le tendine color sabbia. Il tempo, per lui,
passava pesantemente mentre, là vicino, un bel giovanotto, Leonardo
Bertoldini, continuava a ritmare la sua poesia di colori. Il buio,
nel cielo, aveva fatto posto ad un chiarore molto tinto: si trattava
di una stupenda e chiarissima alba. Un fiammeggiare di violetto,
rosso fuoco, rosso angelico, arancio scuro, vermiglione fino ad un
blu oltremare e, poi, a seguire, verde chiaro e avocado, avevano
aperto la strada ad un bel giallo canarino, proprio quello della luce
del giorno.
Un
po’ alla volta, i bimbi avevano ripreso a giocare con i palloni e
coi loro piccoli animali; le sedie dei tavolini dei bar, pian piano,
si erano nuovamente riempite. Ora erano già straripanti di gente
gioiosa e vociante, che beveva e sorrideva alla vita, mentre l’aria
che si respirava era divenuta assai gradevole e leggera. Riuniti in
una banda variopinta, dei grossi gatti, dalle lunghe vibrisse,
riposavano sulle panchine del comune, colorate in un bellissimo verde
bandiera.
Intanto,
lassù, nel cielo color turchino, un sole, poco più che tiepido,
brillava in tutta la sua splendida armonia.
Mi è piaciuto molto, una scrittura corretta, fluida interessante
RispondiEliminaCara Dani condivido il tuo pensiero. Buona domenica.
RispondiElimina