giovedì 27 giugno 2019

I fratelli Puddu




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I FRATELLI PUDDU
(PUDDU BROTHERS)
di Pier Angelo Piccolo
Dobbiamo imparare a
vivere insieme
come fratelli o periremo
insieme come stolti.”
Martin Luther King




Nel mio giro attorno al Mondo, alla ricerca degli italiani piu’ strani e particolari, ero arrivato al confine tra U.S.A. e Canada e proprio nel luogo in cui un ponte unisce i due grandi paesi: e’ detto “dell’Arcobaleno” o “Rainbow Bridge”, scavalca con un salto il grande fiume dalle acque tonanti, come lo chiamavano gli antichi abitanti, indiani americani di una tribu’ particolarmente fiera e combattiva.
La campata unica sorge proprio sopra le cascate del Niagara e, da li’, e’ concessa la vista di quel semicerchio di luce naturale dai mille colori, che sovrasta le immense cateratte e puo’ togliere il respiro ai piu’ sensibili. E’ una visione unica e soffocante.
La sensazione che provai, allora, fu troppo piacevole, allora decisi di fermarmi due giorni in un paesino piccolo, chiamato Chippawa, prima di riprendere la strada, il mio cammino, verso Toronto e verso il Nord.
Si trattava di uno strano villaggio, affascinante, sulle sponde del Welland River, tra case graziose e fiorite, ognuna col suo pontiletto privato in cui ormeggiare la propria imbarcazione o scendere le scalette per fare un bagno.
Fui ospite del Reverendo Garland, un ometto piccolo ed elegante - con occhiali dorati e un foulard al collo - nel suo abito religioso; di mezza eta’, gentile e dal viso simpatico, mi mise a disposizione un comodo locale dove non mancava nulla, vicino alla chiesetta.
Nel pomeriggio, mi chiamo’ a conversare, assieme ad alcune vecchie e dolci signore fedeli, nel suo studio, situato in una stanzetta piena di libri dietro all’altare. Prendemmo il te’ insieme, mentre tutti mi ponevano domande sui miei viaggi e sui miei numerosi incontri di italiani all’estero. Parlai moltissimo, poi andai, con il Reverendo, a passeggiare lungo le sponde del Welland River, da dove si intavedeva il pennacchio formato, non troppo lontano, dalle cascate.
La sera fui invitato, sempre su insistenza del simpatico Reverendo , ad un grande gala’, che si teneva al “Club Italia”: il raffinato ed elegante luogo di incontro e Cultura per tutti i paesani che vivono e lavorano in queste terre. Terre di uva, pesche e altri meravigliosi frutti della natura.
Quella volta ci fu un pranzo luculliano, preparato da mani, sapienza culinaria, buon gusto e menti italiane.
Fui invitato a sedere al posto d’onore, comodamente “co le gambe soto ea tola”, come si dice dalle parti nostre, proprio vicino al Sindaco, anch’Egli di antiche ed esibite origini italiane.
Era da tempo infinito che non cenavo cosi’ piacevolmente, forse da quando mancavo dal mio paese, essendoci parito da molto, forse anche di piu’.
Un peperoncino abruzzese, fortissimo, offerto per antipasto, mi apri’ lo stomaco prima della cena, e una bottiglia di vino bianco frizzante, freschissimo, etichetta “Prosecco di Treviso”, decisamente migliore dello Champagne, anche per la valutazione di intenditori e sommelier internazionali, bagno’ le pietanze.
Alla fine della grande abbuffata, una enorme e saporita porchetta troneggiava su un tavolo sontuoso, imbandito e coperto da una tovaglia bianca, come si usa a casa nostra, appoggiata su un vassoio d’argento. C’erano coltelli e c’erano piattini e altri bicchieri alla bisogna. Chi voleva aprofittare e servirsi, era accontetato.
Ma io ero gia’ troppo sazio. Mi accontentai del” tiramisu’”, un buon dolce fatto in casa dallo chef gustandoci, assieme, un bicchierino di limoncello. Sperando in Dio, se possibile, di poter digerire il tutto prima di dormire.
Tra i tantissimi invitati, quella sera, trovai, inaspettatamente, un mio vecchio amico, l’ultima persona che mi sarei aspettato di rivedere. Si dimostro’ subito felice di avermi incontrato, mi abbraccio’ e si commosse. Mi prese per un braccio e mi porto’ dall’altra parte del grande salone delle feste del Club Italia, ci sedemmo su due comode poltroncine all’angolo del caminetto acceso. Un cameriere ci porto’ un drink e iniziammo a parlare di noi. Andammo avanti tutta la sera, ma lui non mi rivelo’ assolutamente nulla di quel che io avrei voluto sapere.
Si trattava di Puddu, un tipo un po’ strano, un sardo che, tanti e tanti anni fa, aveva prestato il servizio militare assieme a me, nella citta’ di Firenze. Avevamo trascorso un anno insieme, nella caserma di san Gallo, un posto situato in un antichissimo monastero che, poi, divenne un ospedale militare.
A quel tempo antico, questa pratica di prestare un anno della propria vita all’esercito italiano, era ancora obbligatoria, poi venne abolita.
Mi ricordo bene che il mio amico aveva un fratello. I Puddu erano due gemelli, ma gemelli come mai ne avevo visti: praticamente identici. Non gli chiesi come stava e dov’era l’altro, per delicatezza, perche’ la loro storia era molto complicata e preferii non parlarne. Non sapevo come sarebbe stata la reazione dell’uomo e non volevo scoperchiare misteri ormai vecchi di decenni e celati da una fitta nebbia.
Io, quella strana vicenda, la famosa e discussa storia dei Puddu, la venni a conoscere molti anni dopo quel lungo periodo felice del servizio militare.
Fu un giorno di molti anni dopo, all’incirca gli anni ottanta del secolo scorso, che sentii parlare di loro in tutti i giornali e telegiornali e vidi apparire i loro volti e le loro foto in televisione.
Si diceva che, i due fratelli Puddu, identici in maniera eccezionale, erano stati portati in questura per accertare quale fosse l’identita’ dell’uno e dell’altro.
Questo clamore era dovuto ad un solo e terribile motivo, che e’ assai difficile da credere e comprendere e che cerchero’, con difficolta’, di spiegare.
Uno dei due fratelli faceva, di mestiere, la guardia penitenziaria in un istituto di pena, mentre l’altro, che fino a quel momento si credeva fosse disoccupato, venne invece arrestato, inaspettatamente, con l’accusa di essere uno spietato bandito, collegato ad una banda di criminali che rapiva bambini.
Una barbara e orribile pratica che, in quegli anni, veniva spesso utilizzata dai criminali nella nostra povera Italia.
In realta’, quel Puddu lavorava si’ con la banda di rapitori, ma si limitava solo a fare il sorvegliante ai rapiti.
Pensare la stranezza dei gemelli: uno, la guardia carceraria, era stato ingaggiato solo per badare ai detenuti in carcere, l’altro, invece, era pagato per badare alla povera (anche se ricca) e sfortunata gente sequestrata dai criminali.
Eppure, tutti e due si sentivano un po’ come i pastori che badano tranquillamente alle pecore e non alle persone, tutto la’, senza passione e senza morale da rispettare. In effetti, i fratelli svolgevano entrambi lo stesso mestiere, non provando dispiacere alcuno e senza per questo considerarsi illegali o in colpa e continuarono a volersi bene tra loro, evitando di muoversi vicendevolmente alcun rimprovero. Erano, per la loro coscienza obnubilata, solo due pastori e cosi’ continuavano a proclamarsi.
Ma in un bel giorno di Primavera inoltrata, la banda dei sequestratori anonimi, per una bella azione della Benemerita arma dei Carabinieri, venne scoperta, arrestata e fu debellata per sempre. Vennero chiusi in carcere - gli anonimi – tutti e quanti. Compreso persino il fratello Puddu.
Ma la storia vera e propria inizia da ora: fin qui era tutto normale, ordinaria amministrazione per ognuno di noi e in quei tempi bui.
Il caso venne alla luce delle cronache e divenne un affare nazionale, quando si scopri’ che i due fratelli gemelli Puddu - una volta che il rapitore di bambini fu arrestato e condannato a molto tempo di prigione – avevano preso, con gli anni, a scambiarsi facilmente e sistematicamete di posto l’uno con l’altro, dentro in gattabuia.
Impensabile, eppure lo scandalo avvenne in questa nostro bel paese che e’ l’Italia.
Il gioco che avevano congegnato i due gemelli era facile e lo mettevano in pratica quando, nei giorni settimanali di permesso, venivano i parenti dei detenuti a fare visita ai loro poveri galeotti congiunti. In un attimo di distrazione generale, infatti, i due fratelli identici, si scambiavano la casacca poi, il poliziotto prendeva il posto del carcerato e viceversa e cosi’, per molto e molto tempo, uno si godeva la liberta’andando a casa alla sera, anche se di giorno veniva a faticare in carcere a fare il guardiano, mentre l’altro si “riposava” dal lavoro e gli teneva, pazientemente, il posto in gattabuia. E restavano, oltretutto, sempre vicini.
Dicono che fossero cosi’ uguali, che nemmeno la moglie del fratello guardiano capi’mai chi era colui che arrivava alla sua casa e al suo letto, di sera.
Nemmeno mentre faceva l’amore con lui (il cognato), aveva notato la differenza, o almeno cosi’ faceva credere, ma non era difficile non darle torto.
Quando, dopo tanti anni, fu scoperto l’inganno e la questura, i giudici e il direttore del carcere e i giornalisti tentarono di capire chi fosse l’uno e chi l’altro, dovettero arrendersi, perche’ nessuno dei due voleva ammettere la sua vera natura e, visto che non si puo’ condannare, nel nostro paese, un imputato di cui non si ha la certezza dell’identita’, furono lasciati liberi tutti e due.
Anche la guardia carceraria pero’, come era naturale e dovuto per pareggiare il conto, perse il suo posto, visto che la sua identita’ non era certa e non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo delicato incarico
Parlai moltissimo e piacevolmente con lui, senza pero’ avvicinare l’argomento, anzi, stando molto sul vago. Alla fine mi abbraccio’ piangendo, lo abbracciai e non ebbi il coraggio di chiedergli chi, in realta’ dei due fratelli, lui fosse.
Anche perche’capii che, quella domanda, sarebbe stata una cavolata gigantesca.
Unica cosa che mi disse, prima di lasciarci per sempre, fu una frase misteriosa: “Caro e vecchio amico, non fidarti mai delle apparenze e non fermarti alla prima impressione.”



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