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I
FRATELLI PUDDU
(PUDDU
BROTHERS)
di
Pier Angelo Piccolo
“Dobbiamo
imparare a
vivere
insieme
come
fratelli o periremo
insieme
come stolti.”
Martin
Luther King
Nel
mio giro attorno al Mondo, alla ricerca degli italiani piu’ strani
e particolari, ero arrivato al confine tra U.S.A. e Canada e proprio
nel luogo in cui un ponte unisce i due grandi paesi: e’ detto
“dell’Arcobaleno” o “Rainbow Bridge”, scavalca con un
salto il grande fiume dalle acque tonanti, come lo chiamavano gli
antichi abitanti, indiani americani di una tribu’ particolarmente
fiera e combattiva.
La
campata unica sorge proprio sopra le cascate del Niagara e, da li’,
e’ concessa la vista di quel semicerchio di luce naturale dai
mille colori, che sovrasta le immense cateratte e puo’ togliere il
respiro ai piu’ sensibili. E’ una visione unica e soffocante.
La
sensazione che provai, allora, fu troppo piacevole, allora decisi di
fermarmi due giorni in un paesino piccolo, chiamato Chippawa, prima
di riprendere la strada, il mio cammino, verso Toronto e verso il
Nord.
Si
trattava di uno strano villaggio, affascinante, sulle sponde del
Welland River, tra case graziose e fiorite, ognuna col suo pontiletto
privato in cui ormeggiare la propria imbarcazione o scendere le
scalette per fare un bagno.
Fui
ospite del Reverendo Garland, un ometto piccolo ed elegante - con
occhiali dorati e un foulard al collo - nel suo abito religioso; di
mezza eta’, gentile e dal viso simpatico, mi mise a disposizione un
comodo locale dove non mancava nulla, vicino alla chiesetta.
Nel
pomeriggio, mi chiamo’ a conversare, assieme ad alcune vecchie e
dolci signore fedeli, nel suo studio, situato in una stanzetta piena
di libri dietro all’altare. Prendemmo il te’ insieme, mentre
tutti mi ponevano domande sui miei viaggi e sui miei numerosi
incontri di italiani all’estero. Parlai moltissimo, poi andai, con
il Reverendo, a passeggiare lungo le sponde del Welland River, da
dove si intavedeva il pennacchio formato, non troppo lontano, dalle
cascate.
La
sera fui invitato, sempre su insistenza del simpatico Reverendo , ad
un grande gala’, che si teneva al “Club Italia”: il raffinato
ed elegante luogo di incontro e Cultura per tutti i paesani che
vivono e lavorano in queste terre. Terre di uva, pesche e altri
meravigliosi frutti della natura.
Quella
volta ci fu un pranzo luculliano, preparato da mani, sapienza
culinaria, buon gusto e menti italiane.
Fui
invitato a sedere al posto d’onore, comodamente “co le gambe soto
ea tola”, come si dice dalle parti nostre, proprio vicino al
Sindaco, anch’Egli di antiche ed esibite origini italiane.
Era
da tempo infinito che non cenavo cosi’ piacevolmente, forse da
quando mancavo dal mio paese, essendoci parito da molto, forse anche
di piu’.
Un
peperoncino abruzzese, fortissimo, offerto per antipasto, mi apri’
lo stomaco prima della cena, e una bottiglia di vino bianco
frizzante, freschissimo, etichetta “Prosecco di Treviso”,
decisamente migliore dello Champagne, anche per la valutazione di
intenditori e sommelier internazionali, bagno’ le pietanze.
Alla
fine della grande abbuffata, una enorme e saporita porchetta
troneggiava su un tavolo sontuoso, imbandito e coperto da una
tovaglia bianca, come si usa a casa nostra, appoggiata su un vassoio
d’argento. C’erano coltelli e c’erano piattini e altri
bicchieri alla bisogna. Chi voleva aprofittare e servirsi, era
accontetato.
Ma
io ero gia’ troppo sazio. Mi accontentai del” tiramisu’”, un
buon dolce fatto in casa dallo chef gustandoci, assieme, un
bicchierino di limoncello. Sperando in Dio, se possibile, di poter
digerire il tutto prima di dormire.
Tra
i tantissimi invitati, quella sera, trovai, inaspettatamente, un mio
vecchio amico, l’ultima persona che mi sarei aspettato di rivedere.
Si dimostro’ subito felice di avermi incontrato, mi abbraccio’ e
si commosse. Mi prese per un braccio e mi porto’ dall’altra parte
del grande salone delle feste del Club Italia, ci sedemmo su due
comode poltroncine all’angolo del caminetto acceso. Un cameriere ci
porto’ un drink e iniziammo a parlare di noi. Andammo avanti tutta
la sera, ma lui non mi rivelo’ assolutamente nulla di quel che io
avrei voluto sapere.
Si
trattava di Puddu, un tipo un po’ strano, un sardo che, tanti e
tanti anni fa, aveva prestato il servizio militare assieme a me,
nella citta’ di Firenze. Avevamo trascorso un anno insieme, nella
caserma di san Gallo, un posto situato in un antichissimo monastero
che, poi, divenne un ospedale militare.
A
quel tempo antico, questa pratica di prestare un anno della propria
vita all’esercito italiano, era ancora obbligatoria, poi venne
abolita.
Mi
ricordo bene che il mio amico aveva un fratello. I Puddu erano due
gemelli, ma gemelli come mai ne avevo visti: praticamente identici.
Non gli chiesi come stava e dov’era l’altro, per delicatezza,
perche’ la loro storia era molto complicata e preferii non
parlarne. Non sapevo come sarebbe stata la reazione dell’uomo e non
volevo scoperchiare misteri ormai vecchi di decenni e celati da una
fitta nebbia.
Io,
quella strana vicenda, la famosa e discussa storia dei Puddu, la
venni a conoscere molti anni dopo quel lungo periodo felice del
servizio militare.
Fu
un giorno di molti anni dopo, all’incirca gli anni ottanta del
secolo scorso, che sentii parlare di loro in tutti i giornali e
telegiornali e vidi apparire i loro volti e le loro foto in
televisione.
Si
diceva che, i due fratelli Puddu, identici in maniera eccezionale,
erano stati portati in questura per accertare quale fosse l’identita’
dell’uno e dell’altro.
Questo
clamore era dovuto ad un solo e terribile motivo, che e’ assai
difficile da credere e comprendere e che cerchero’, con
difficolta’, di spiegare.
Uno
dei due fratelli faceva, di mestiere, la guardia penitenziaria in un
istituto di pena, mentre l’altro, che fino a quel momento si
credeva fosse disoccupato, venne invece arrestato, inaspettatamente,
con l’accusa di essere uno spietato bandito, collegato ad una banda
di criminali che rapiva bambini.
Una
barbara e orribile pratica che, in quegli anni, veniva spesso
utilizzata dai criminali nella nostra povera Italia.
In
realta’, quel Puddu lavorava si’ con la banda di rapitori, ma si
limitava solo a fare il sorvegliante ai rapiti.
Pensare
la stranezza dei gemelli: uno, la guardia carceraria, era stato
ingaggiato solo per badare ai detenuti in carcere, l’altro,
invece, era pagato per badare alla povera (anche se ricca) e
sfortunata gente sequestrata dai criminali.
Eppure,
tutti e due si sentivano un po’ come i pastori che badano
tranquillamente alle pecore e non alle persone, tutto la’, senza
passione e senza morale da rispettare. In effetti, i fratelli
svolgevano entrambi lo stesso mestiere, non provando dispiacere
alcuno e senza per questo considerarsi illegali o in colpa e
continuarono a volersi bene tra loro, evitando di muoversi
vicendevolmente alcun rimprovero. Erano, per la loro coscienza
obnubilata, solo due pastori e cosi’ continuavano a proclamarsi.
Ma
in un bel giorno di Primavera inoltrata, la banda dei sequestratori
anonimi, per una bella azione della Benemerita arma dei Carabinieri,
venne scoperta, arrestata e fu debellata per sempre. Vennero chiusi
in carcere - gli anonimi – tutti e quanti. Compreso persino il
fratello Puddu.
Ma
la storia vera e propria inizia da ora: fin qui era tutto normale,
ordinaria amministrazione per ognuno di noi e in quei tempi bui.
Il
caso venne alla luce delle cronache e divenne un affare nazionale,
quando si scopri’ che i due fratelli gemelli Puddu - una volta che
il rapitore di bambini fu arrestato e condannato a molto tempo di
prigione – avevano preso, con gli anni, a scambiarsi facilmente e
sistematicamete di posto l’uno con l’altro, dentro in gattabuia.
Impensabile,
eppure lo scandalo avvenne in questa nostro bel paese che e’
l’Italia.
Il
gioco che avevano congegnato i due gemelli era facile e lo mettevano
in pratica quando, nei giorni settimanali di permesso, venivano i
parenti dei detenuti a fare visita ai loro poveri galeotti
congiunti. In un attimo di distrazione generale, infatti, i due
fratelli identici, si scambiavano la casacca poi, il poliziotto
prendeva il posto del carcerato e viceversa e cosi’, per molto e
molto tempo, uno si godeva la liberta’andando a casa alla sera,
anche se di giorno veniva a faticare in carcere a fare il guardiano,
mentre l’altro si “riposava” dal lavoro e gli teneva,
pazientemente, il posto in gattabuia. E restavano, oltretutto,
sempre vicini.
Dicono
che fossero cosi’ uguali, che nemmeno la moglie del fratello
guardiano capi’mai chi era colui che arrivava alla sua casa e al
suo letto, di sera.
Nemmeno
mentre faceva l’amore con lui (il cognato), aveva notato la
differenza, o almeno cosi’ faceva credere, ma non era difficile non
darle torto.
Quando,
dopo tanti anni, fu scoperto l’inganno e la questura, i giudici e
il direttore del carcere e i giornalisti tentarono di capire chi
fosse l’uno e chi l’altro, dovettero arrendersi, perche’
nessuno dei due voleva ammettere la sua vera natura e, visto che non
si puo’ condannare, nel nostro paese, un imputato di cui non si ha
la certezza dell’identita’, furono lasciati liberi tutti e due.
Anche
la guardia carceraria pero’, come era naturale e dovuto per
pareggiare il conto, perse il suo posto, visto che la sua identita’
non era certa e non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo
delicato incarico
Parlai
moltissimo e piacevolmente con lui, senza pero’ avvicinare
l’argomento, anzi, stando molto sul vago. Alla fine mi abbraccio’
piangendo, lo abbracciai e non ebbi il coraggio di chiedergli chi, in
realta’ dei due fratelli, lui fosse.
Anche
perche’capii che, quella domanda, sarebbe stata una cavolata
gigantesca.
Unica
cosa che mi disse, prima di lasciarci per sempre, fu una frase
misteriosa: “Caro e vecchio amico, non fidarti mai delle apparenze
e non fermarti alla prima impressione.”
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