giovedì 30 aprile 2020

" Venezia in catene" Capitolo sesto


CAPITOLO Vi



LUCI NELLA NOTTE


21 novembre 1813,

L a notizia si propagò in breve tempo tra le calli coi panni stesi e le fondamenta. Scese nei rii e nei sotoporteghi. Attraversò il canalazzo e fu udita da tutta la città.
"Venezia xè bloccada. Stavolta xemo proprio finii" andava gridando un bimbo che ripeteva ciò che aveva sentito urlare: avrà avuto - si e no - sette anni.
"Madona Benedeta" balbettarono due donne sedute su sedie di paglia in strada, quelle che cucivano gli scialli.
"Come? Cossa? Dove?" rilanciò una vecchia con una stranissima parrucca, ma queste domande se le faceva da anni e le andava ripetendo fin dai tempi remoti in cui il mondo era ancora intero e la repubblica era retta da un Doge.
Era successo, quel giorno, che gli unici due passaggi rimasti ancora aperti per consentire il passaggio di merci, ossia di roba da mangiare, Fusina alla foce del Brenta e Brondolo vicino a Chioggia, erano caduti in mano ai crucchi, i militari austriaci i quali avevano affermato che, da quel momento, non avrebbero permesso più a nulla e a nessuno di entrare in laguna, né di uscirne.
E così fu.
Qualcuno commentò sul giornale,: “da oggi la città è perfettamente bloccata.” Ed il termine era il più appropriato.
Del resto, ogni canale che potesse condurre alla città era già stato chiuso qualche giorno prima e veniva controllato dalle forze austriache al comando del generale Nugent; dal mare, nel contempo, la flotta inglese teneva sotto stretta sorveglianza ogni uscita alle bocche di porto già da diverso tempo, dal momento in cui avevano sistemato, da una parte all’altra delle imboccature, quelle strane e grosse catene.
Il Giornale del dipartimento, qualche tempo dopo, riporterà i dati relativi alle persone bloccate in laguna: sono le cifre di un assedio che mai, in tutta la storia dell’umanità, avrà paragoni:
Nella sola città di Venezia si trovarono prigionieri centoquindicimila abitanti, mentre a Chioggia ventiduemila persone non poterono più uscire per mesi e mesi; a Pellestrina e a Malamocco vivevano, allora, ben novemila persone, quattromila abitavano Murano e altri novemila le floreali case di Burano, mentre a Treporti, alle Vignole e nelle altre isolette si contavano più di ottomila abitanti: donne, vecchi, bambini, cani e gatti isolati e senza possibilità di ricevere alimenti, all’interno di una laguna che, giunti quasi a dicembre, andava verso il gelo.
Se a questi numeri si aggiungono gli undicimila e settanta soldati dell'esercito napoleonico di presidio, si arriva all’altissimo numero di cento e ottanta mila anime rinchiuse senza speranza: né altra epoca né altre civiltà conosciute, negli ultimi millenni, avevano assistito a una cosa del genere.
Davanti alla piazzetta ed alle zattere sostavano le navi con l'artiglieria pronta all'estrema ed improbabile difesa della laguna.
E, intanto, la gente moriva.

"Papà..., stavolta ea xè proprio finia",
commentò Pompeo, mentre teneva la testa tra le mani.
"Ma no, ma no. Ti no ti conossi i venexiani",
rispose, quasi con allegria, Gregorio.
"I veneziani i xa resister a tuto, i xè boni de ridere. I lo ga fato per mille anni e più."
Il vecchio sapeva quel che diceva: anche se ogni persona ragionevole si sarebbe aspettata - dopo aver compreso ciò che stava succedendo - una reazione disperata, estrema del popolo veneziano, successe esattamente il contrario.
E neppure questo estroso, stravagante e bizzarro modo di comportarsi, durante tanti mesi di assedio atroce, ha paragoni col resto della storia dell’ uomo.
Perciò Pompeo non avrebbe mai, ma proprio mai, sospettato di vedere, la sera stessa l’ inizio del blocco, quello che poi vide.
E ciò che accadde, allora, fu davvero un fatto curioso, che merita di essere menzionato.

Era stata emanata dal governatore francese, a causa della particolare situazione in cui ci si veniva a trovare e per paura di attacchi nemici, una ordinanza che imponeva, per quella stessa notte anzi, subito dopo la mezzanotte, il divieto - valido per qualsiasi cittadino che avesse l’urgenza di muoversi da casa - di uscire senza una luce in mano, o un qualsiasi lume per farsi riconoscere.
Fin qui nulla di strano: l’ ordine impartito fu molto chiaro e di indiscutibile utilità.
In effetti, la situazione era diventata complessa, la cosa migliore da farsi era di mantenere la calma e rimanere a casa, perchè sarebbe potuto capitare, da allora e per le notti future, qualsiasi fatto, anche il più terribile.
Probabilmente, qualsiasi altro popolo, bloccato da terra e dal mare, col cibo che iniziava a scarseggiare considerevolmente, con due eserciti stranieri appena fuori della porta ed uno in casa a comandare dittatorialmente, se ne sarebbe stato chiuso a meditare sulle proprie disgrazie e a piangere se non, addirittura, a prendere in considerazione l’estremo gesto.
Ma quello che abitava Venezia, evidentemente, non era un popolo da classificare nella normalità, né in bene né in male.
Pompeo era uscito di casa perché non riusciva a respirare. Appena fuori, gli era parso di avvertire una strana agitazione diffusa in ogni parte, una inquietudine che sembrava riversarsi nelle calli tra la gente.
Tornato indietro, rassettò quel che poté della sua vecchia e malandata stamberga e, dopo aver controllato il vecchio padre che serenamente teneva gli occhi chiusi, cercò di dormire.
Non ci riuscì in alcun modo. La serata era fredda, ma ancora non si sentiva l'aria pungente dell'inverno; tutto sommato una passeggiata – pensò tra sé - non ci sarebbe stata male.
Mentre camminava per le strade s'accorse che l'agitazione, invisibile ma intensa, continuava a pervadere la città.
Mancava poco alla mezzanotte quando arrivò in vista di piazza san Marco. Sparuti capannelli di perditempo, come ogni notte, sostavano sotto alla torre dei mori o vicino ai leoncini o ai piedi della grande statua di Napoleone.
Sembrava, insomma, una normale nottata veneziana quando d'un tratto, da ogni imbocco della piazza, udì avvicinarsi un rumore di massa brulicante e vide fioche luci divenire sempre più vive.
Come scoccò la campana delle dodici (l’ora fatidica in cui scattava l’ordinanza), un nugolo di persone, le più eterogenee, sbucò da ogni angolo. In pochi istanti mille individui o forse duemila e anche più, invasero la piazza e le botteghe da caffé. Arrivarono festanti compagnie e gruppi folcloristici, chi teneva in mano fanaletti di diverse forme, chi di diversi colori posti anche sopra la testa a mo' di cappello sortendo l’effetto comico che ci si aspettava; chi armeggiava lucerne fiorentine chi, addirittura, enormi candelieri.
Tutti ridevano e chiassavano in modo diverso; pareva proprio una nottata di pieno carnevale. Molte erano le signore, a schiamazzare, frammischiate agli uomini e ai ragazzi.
Pompeo se ne stette per più di un'ora a seguire quella baraonda, ma non riusciva a darsene una spiegazione.
"E’ mai possibile che nessuno sia preoccupato?” si chiese, ma poi gli vennero in mente le parole del padre.
Erano quasi le due quando giunsero, con decisione, i militi della polizia. Bastò la loro presenza a placare gli animi.
Quelli che, presi da massima euforia, avevano fatto esplodere petardi furono arrestati e poi rilasciati.
Pompeo rimase di sasso quando vide un francese che accompagnava verso casa Gregorio, il quale teneva, anch’ egli, un lume grandioso trovato chissà dove, sopra la testa, che veniva da chiedersi come faceva mai a sostenerlo senza perdere l'equilibrio.
"Papà, ma... no ti dormivi?"
"Sì, ma ea mamma me gà ciamà."
"Ti ga visto ea mama?"
"Sì, finalmente"
"E dove xela?"

Maria, la mamma di Pompeo che da anni era uscita di senno ed era sempre ubriaca, mancava alla famiglia ormai da diverso tempo e Dio solo sa quanto l’avevano cercata. Quella notte tre militi si erano offerti di condurla, volonterosamente, verso la sua abitazione, anche se lei, nel corso della nottata, aveva continuato a dare indirizzi sbagliati facendosi portare a spasso da quei bei giovani, quasi di peso, per tutta Venezia.

Forse ea xè già rivada a casa”.
"Dai, papà, andemo in leto, che ti xè imbriago anca ti."
Il mattino successivo, il giornale riportava la notizia che l'ordine di girare con il lume, promulgato soltanto il giorno prima, era stato sospeso; chissà, forse si erano accorti che, a Venezia, certe leggi è meglio non emanarle:
"La commissione di polizia ha fatto sapere che entro il circondario di piazza san Marco sino ai ponti, sarà permesso il girare di notte senza lume."

Quella notte, di Gilberto - un vecchio amico di Gregorio che faceva di mestiere il venditore di articoli vari, tra cui anche i fanaletti - si disse che triplicò, in poche ore, il proprio capitale.

mercoledì 29 aprile 2020

Avvolgiti

- Dimmi, cos'è il profumo del bosco di primo mattino?
Cos'è la movenza del grano nell'onda del vento?
Raccontami, cos'è la pioggia quando tocca il colore della rosa?
Spiegami cos'è la luce d'una piccola stella?
Quella energia che si posa, notte dopo notte, cavalcando la marea, che cos'è?
Parlami, su raccontami... -

-Tu, sai cos'è,
ogni Donna lo sa
è l'essenza della femminilità,
Il creato la contiene e la dona
Tu,
sei tutto questo e molto ancora...
Non smarrirti, avvolgiti nella meraviglia che sei! -

Brunetta Sacchet

lunedì 27 aprile 2020

Onda

Amo la poesia che vedo
L'amo quando mi tocca
Oh, quando mi tace
L'amo quando mi attraversa come lama, in freddo dolore
e nel muto suono del cuore risorge
Amo la poesia calda d'estate
mi esorta a guardare tra cento lune,
del tempo di ieri, quando fui preda del mare
Amo l'estasi della poesia,
decora il pensiero in umili versi,
Amo l' illusione che non possiede inganni
Amo l'immensa bellezza spirituale, onda pacata dell'anima.

Brunetta Sacchet


domenica 26 aprile 2020

"Venezia in Catene" Capitolo quinto


CAPITOLO V°



VOLARE




"E'caduto giù un palazzo, un palazzo intero, cori, cori, 'ndemo a veder"
"Cossa xé nato... dove?"
"In campo santa Maria Formosa, un disastro."
Fuori dalla porta di casa, Pompeo sentì passare gente che correva e vociava con una certa eccitazione, ben al di fuori dell'ordinario.
"Che succede?",
chiese a casaccio.
"Do morti in canal, ‘na casa crollada."
Gli rispose una donna che correva ansimando, col bimbo in braccio.
"De più, de più",
aggiunse un'altra che stava camminando velocemente.
Non c'era molto da stupirsi se tutto stava andando a rotoli; certo, pensò, che se ora iniziano a crollare anche le case...
Corse anch’egli a vedere il disastro; strada facendo notò che molte abitazioni erano fatiscenti e pericolanti: non ci aveva mai fatto caso prima, ma il loro numero era aumentato paurosamente.
Quando arrivò nel grande campo di Santa Maria Formosa, si presentò ai suoi occhi un triste spettacolo: in cae degli orbi, la casa del nonsolo, cioè l'anziano attendente del parroco don Farronato, era crollata tutta, chissà come, nel canale. Il povero vecchietto era morto e non si capiva se per il crollo avvenuto, per un infarto dovuto alla paura o per annegamento quando era finito, assieme ad ogni cosa, nel canale.
Nell'appartamento vicino c'era una bàlia furlana che doveva badare ad un bambino; fortunatamente s'era rotta solo una gamba, anche se a prima vista i soccorritori l'avevano ritenuta già morta.
Il bambino, invece e ciò parve un miracolo, era rimasto attaccato - per gli stracci che lo avvolgevano come una mummia (era d'uso a quei tempi) - ad una trave di legno e stava penzoloni sul canale.
Quelli che lo avevano tratto in salvo, incolume, avevano riconosciuto in questo fatto l'opera misericordiosa della Madonna: allora tutta la gente riunita lì vicino si era inginocchiata, mettendosi a pregare la Vergine Santa.
L'immagine che gli si era presentata davanti, conteneva, per Pompeo, qualcosa di agghiacciante.
L'abitazione crollata aveva parzialmente invaso il canale e distrutto alcune barche: pareva l'effetto di un terremoto.
Molte persone che avevano assistito al disastro, stavano mute a guardare un po' le macerie e un po' quelli che avevano vicini, e pareva che ognuno comunicasse agli altri, silenziosamente, la paura, l'orrore che tali fatti potessero moltiplicarsi, magari domani, forse la notte stessa sarebbe toccato anche alla propria casa, con dentro la propria famiglia e tutto ciò che amavano e che avevano al mondo.
"Venezia muore", gridò dentro di sé.
Ma forse “quella” Venezia era già morta da un po’.
Poi si consolò, pensando che, l'unica cosa bella che non marciva, a Venezia, continuando a splendere d'una luce propria, erano le donne: bellissime, le veneziane, d'un fascino difficile da spiegare a voce, bisognerebbe saper riprodurre con le parole gli odori che si sentono e le emozioni che ti trasmettono.
Proprio in quel mentre vide arrivare Myriam.
"Servo tuo – le disse – posso accompagnarti?"
"Sì...sì...sei è sempre gentile."
"Dove vai, se mi è permesso chiedertelo?"
"Sto andando da mio zio, che è ricoverato in ospedale."
Suo zio era un certo Caliman Jenna, sensale ebreo, che molta beneficenza aveva fatto ai poveri della comunità ebraica, così come l'aveva fatta ai poveri della parrocchia di san Geremia, nonché al parroco stesso. Una degna persona; tali erano tutti i membri della famiglia di Myriam.
Quasi, quasi vengo con te, lo conosco bene anch'io, gradirei salutarlo.”
Sì, magari.”
Passeggiando con Myriam, si accorse che le parole gli uscivano facilmente; era proprio un gran piacere parlare con lei.
Hai sentito che hanno esposto l'immagine della Madonna, fuori dalla basilica?”
Certo, l'ho vista anch'io.”
Ma voi ebrei credete alla Madonna?”
La madre di Cristo? Era una giovane ebrea come lo sono io, chissà perché la pregate tanto, mentre non lasciate neanche che io entri nella vostra chiesa.”
Si mise a ridere, perché gli piaceva molto scherzare sugli affari religiosi, quelli che invece, i bigotti, trattavano con troppa serietà.

E voi avete pregato?” Le chiese.
Sì, l'altra notte abbiamo vegliato nel tempio; abbiamo cantato le orazioni che riserviamo, solitamente, per i momenti più tristi. Abbiamo chiesto a Dio, grande e misericordioso, di proteggere la nostra Venezia.”
Mi fai sentire la tua preghiera?”
Ma dai Pompeo, il canto sacro non è mica uno scherzo.”
Dimmi almeno le parole.”
Myriam abbassò un po' lo sguardo come era solita fare nei momenti di imbarazzo; una cosa che rendeva i sensi di Pompeo ancora più turbati poi iniziò, soavemente, il suo canto che riportava le parole dell’ Antico Testamento e che, tradotte dall’ebraico suonavano così:

Camminerò da sola nella valle buia,
ma non avrò paura, o mio Signore
perché Tu sarai sempre vicino a me”


Il ragazzo si accorse che gli era difficile distaccare lo sguardo dal viso di lei.
"Secondo te libereranno il papa?"
"Non so - rispose la ragazza - quelli non hanno rispetto per nessuno, non credono in nulla, solo nel bottino della guerra."
Il papa Pio VII era stato eletto a Venezia nel 1800 - ché a quel tempo in laguna comandavano gli austriaci - mentre Roma era già stata occupata dai francesi. L'elezione era avvenuta in conclave nel convento benedettino dell'isola di san Giorgio, quello di don Antonio, l'abate che Pompeo conosceva e di cui era diventato amico.
Poi i francesi senza Dio (era quello che pensava Pompeo), l'avevano preso e, pensate, lo avevano arrestato e chiuso in una cella.
Ora il pontefice si trovava ancora sotto sequestro e ciò rappresentava per tutti i cattolici, ma anche per qualche ebreo e qualche turco un affare vergognoso (anche se molti erano contenti).
I due ragazzi passarono davanti alla grande statua di Napoleone in piazza san Marco.
Ormai quotidianamente qualcuno vi depositava un foglio con versetti in onore dei francesi.
Di solito si scriveva in un foglietto l'epigramma e lo si poneva nella mano della statua dell'imperatore, la destra, quella che sembrava chiedesse la carità.
Pompeo fece in tempo a vederlo prima che arrivassero due gendarmi a strapparlo.
"Cosa c'è scritto?"
Chiese la ragazza.
Pompeo lesse:


"Libertè, egalitè,
fraternitè,
i francesi in carrozza
e nu a piè."

"Ti piace leggere il giornale?"
Gli chiese la ragazza.
"Certo, io lavoro al Giornale dipartimentale Adriatico."
"Lo leggo anch'io, perché mio padre è abbonato."
I due si guardarono e scoppiarono a ridere.
La voce della verità!”
Però racconta bene le frottole”
Sì, una peggio dell'altra. Pensa che, sul numero di qualche giorno fa, c'era scritto che l'esercito di Napoleone, vittorioso, si sta apprestando ad occupare l'Austria.”
Ma tu guarda. E allora che ci fanno gli austriaci appena fuori dalla Laguna?”
Ci credi ai presagi?” Gli chiese la giovane donna.
A volte sì...”
Qualcuno mi ha raccontato che era visibile la figura del pianeta Venere, l'altra notte; pensa che lo si poteva vedere anche senza usare il cannocchiale.”
Hai, hai... - fece lui - proprio come l'altr'anno, ti ricordi?”
Sì, proprio come l'altr'anno” disse Myriam, ed un brivido le attraversò la bella schiena per intero.
Qualche tempo addietro infatti, era comparsa, in una notte chiarissima, una meteora ignea e qualcuno lo aveva interpretato come un presagio di sventura.
Anche se molti non ci avevano creduto erano seguite, subito dopo, tremende catastrofi.
Una terribile inondazione aveva invaso il Polesine, distruggendo campi case e persone, gettando nella miseria tantissime famiglie.
Erano scese valanghe di fango nella zona delle montagne vicino a Belluno; si disse che era crollata una montagna intera,
e i corpi dei morti avevano navigato lungo il letto del Piave, venendo a galleggiare nel mare Adriatico.
In tutto il territorio veneto s’erano ripetute catastrofi che avevano diffuso paura ed orrore.
Durante un terremoto erano crollate trenta case nella zona vicino a Padova. Per fortuna, a Venezia, caddero solo due camini e non morì nessuno.

Ti piacerebbe volare?” Gli chiese, d'un tratto, Myriam.
Volare?”
Sì, su quei palloni colorati.”
Mamma mia, altrochè - le rispose con foga Pompeo - vorrei arrivare fino in America."
Volare come angeli nel cielo limpido del paradiso.” aggiunse lei.
Pompeo guardò il suo volto e pensò che, di certo, era proprio quello di un angioletto che aveva incontrato, chissà come, in questo Mondo.
Ti ricordi la storia del signor Zambeccari?” Disse il ragazzo.
No, forse ero troppo piccola”. Allora gliela raccontò.
(Il pallone aerostatico era stato inventato solo pochi anni prima, nel 1786: nemmeno trent’anni addietro e per la prima volta nella Storia, gli uomini avevano volato, realizzando il sogno di Icaro. L’umanità non aveva fatto nemmeno in tempo a rendersene conto.)

Zambeccari, un signore bolognese, era un pioniere del volo a pallone.
Un giorno aveva tentato, assieme a sei uomini d'equipaggio, di volare da Bologna fino a Milano. Migliaia di persone lo stavano aspettando.
All'inizio tutto era andato bene poi, una volta in cielo, un forte vento aveva sospinto il bel pallone colorato dalla parte opposta alla sua mèta, cioè verso l'Adriatico.
Gli uomini volanti erano finiti tutti in mare, grazie a Dio senza infortuni, e li aveva salvati una nave veneziana che li aveva portati in città, dove furono accolti con curiosità e divertimento.
Nel frattempo il pallone, vuoto, aveva attraversato il mare ed era arrivato sulle coste bosniache, dove gli indigeni del luogo, un po’barbari ed un po’ignoranti circa le nuove tecnologie, lo avevano considerato un segno divino ed ancora lo stavano venerando come una reliquia, tra le risa divertite dei marinai veneziani che passavano da quelle parti e che ne conoscevano bene la storia, ma si guardavano bene dall’avvisarli.

Anche mio fratello Giovanni è salito su un pallone, proprio qualche tempo fa.”
Veramente?”
Sì, ti ricordi quando ci fu la fiera, qui a Venezia, e venne esposto il pallone?” La ragazza fece un cenno con il capo.
Fu bandito un concorso tra i ragazzini e lui lo vinse. Il premio consisteva in un giro nella navicella.
Quando l'aerostato salì, con lui a bordo, noi lo seguimmo sulle barche, per gran parte della laguna. Giovanni, di lassù, vide la laguna - ce la descrisse dopo - che pareva un tappeto verde, e giù stavamo tutti noi, piccoli come formiche, sopra le nostre imbarcazioni.
Gli uomini vogavano in silenzio; era una interminabile scia di gondole e gondolini che inseguiva gioiosamente e silenziosamente quello strano e misterioso oggetto volante, simbolo dei giorni che verranno.”
Myriam lo ascoltava con la bocca aperta e lo sguardo rapito; ad un tratto disse:
"Chissà come sarà il futuro."
"Quale futuro?"
"Il futuro nostro, quello dell'umanità. Chissà quante invenzioni nuove, quante belle cose ci porteranno gli anni a venire…che emozioni proveremo?"
Anche Pompeo stava pensando al suo futuro e a tutto ciò che, a partire da quei giorni stranissimi, avrebbe ricavato di nuovo dalla vita.
"Chissà." Disse con un sospiro…le rispose, mentre guardava fissamente e ossessivamente le sue labbra stupende, cariche d'un color rosso vivo inquietante.


venerdì 24 aprile 2020

" Venezia in Catene" Capitolo quarto


CAPITOLO iv

LAGUNA INCATENATA



A i primi giorni di Ottobre, l'ospedale dei santi Giovanni e Paolo, il più grande della città, contava all'incirca settecento ammalati.
Ma, da allora, ne erano continuati ad arrivare tanti, sempre di più, e si trattava specialmente militari feriti, squartati, moribondi.
Anche se nessuno lo voleva ammettere, tanto meno i giornali, l'esercito di Napoleone, in giro per l'Europa, era in piena disfatta.
Pompeo lavorava alla tipografia del "Giornale dipartimentale Adriatico", unico foglio permesso dal governo francese, che aveva precedentemente abolito tutti gli altri giornali (tramite il decreto vicereale del 27 novembre 1811), permettendo solo la stampa di un giornale unico per ogni dipartimento (tutta Italia era stata divisa, dai francesi, in dipartimenti), e quello dell' "Adriatico", che dava il nome al giornale, era il dipartimento cui faceva capo Venezia.
Il primo numero di quel giornale era uscito il 17 marzo del 1812 ed era il risultato della fusione coatta di due precedenti fogli, il "Quotidiano veneto" di Antonio Caminer, e "Notizie dal mondo" di Antonio Graziosi; entrambi i giornali contavano cinquecento abbonati.
Precedentemente usciva, anche, il Nuovo postiglione, di proprietà dell'abate Pietro Fracasso, che dovette chiudere definitivamente: contava solo duecentottanta abbonati.
Un abbonamento annuale costava diciotto lire. Dopo tutti questi cambiamenti, però, il numero di lettori non ebbe alcun calo.
Pompeo, che aveva buoni studi e sapeva scrivere, continuava ancora, ogni tanto, a preparare degli articoli che però, per prudenza del direttore nei confronti dell'autorità costituita, non vennero mai pubblicati.
Ultimamente, perciò, abbandonato suo malgrado il mestiere di giornalista, egli lavorava in tipografia, ma le occasioni di avere informazioni di prima mano non gli vennero mai a mancare.
La sua “specialità” erano i dati statistici: ogni giorno calcolava e pubblicava in un angolo del giornale, e lo farà per molto, i numeri dei morti a Venezia e di quelli che nascevano

Il giorno 14 di ottobre, il numero dei ricoverati in ospedale era salito a più di duemila persone.
Il governatore aveva fatto affiggere dei bandi in cui si chiedeva alla popolazione di collaborare e di fornire "sfilacci", cioè bende, pezze per i feriti.
Comandante della città era, a quel tempo, il terribile generale Seras, che molti veneziani avrebbero lietamente voluto veder galleggiare pel canale, assieme alle salme dei topi di fogna.
Mentre alcune barche, piene di militari dell'esercito napoleonico feriti e morenti, continuavano a svuotare il loro triste carico davanti al molo dell'ospedale, Pompeo si fermò vicino ad un gruppo di individui che stava discutendo, animatamente, della situazione:
"Arrivano da tutte le parti del Veneto, hanno squarci nel corpo, ferite mai viste prima"
"Eh sì, le armi che si fabbricano sono sempre più potenti."
"Ogni giorno sperimentano qualche nuova diavoleria."
"E' vero, ora gettano le bombe dall'alto degli aerostati direttamente sopra le case dove la gente sta mangiando o dormendo."
"Hanno inventato un cannone che spara palle grandi come la cupola della basilica."
"EEEHH".
"Tu le spari più grosse ancora."
Sembravano più divertiti che preoccupati, i veneziani.
Pompeo, allora, non poté non intervenire.
"Ormai l'esercito è in disfatta, i campi del Veneto e del Friuli sono pieni di soldati morti. Buoni soltanto per concimare il terreno."
"E per fare il vino buono."
Disse qualcuno, ridendo.
"Ma cossa ridete, cretini. Lì in mezzo ghe xé anche i nostri" affermò.
Ciò zittì i chiacchieroni.
Tutti si fecero più seri.

El gà ragion, caspita” Disse uno di loro.
Un giovane che, fino ad allora, era rimasto zitto ad ascoltare quelle panzane, intervenne:
Mio cugino – disse il giovane - mi ha spedito una lettera dalla Russia, datata novembre 1812. Quasi un anno fa... è arrivata l'altro giorno... un anno di tempo ci è voluto."
"E cossa el diseva?"
"Robe tremende, teribili: parlava di gelo, un oceano di neve, morti congelati e diavoli cosacchi, sui loro cavalli d'inferno, che torturavano i morenti."
"E' tornato?"
"Ancora no."
Gli uomini si guardarono tra di loro poi, comprendendo dagli altri sguardi che tutti pensavano, ormai, che quel ragazzo non sarebbe tornato più, cambiarono discorso.
Anche la Russia pretendeva di conquistare, quel piccolo còrso”, pensò tra sé Pompeo.
Napoleone, credendosi invincibile, era partito nel giugno del 1812 alla conquista di quegli immensi territori che chissà, nella sua mente, cosa avrebbero potuto fruttare.
A giugno, di solito, nelle regioni boreali è ancora caldo, ma per avvicinarsi a Mosca bisogna passare per Minsk, Solensk e poi ci vogliono mesi... luglio, agosto e poi settembre. E lì, nella steppa, faceva già freddo.
Ottobre, poi, non è più bella stagione in territori quasi sub polari. La pioggia aveva infangato le strade. I gloriosi cannoni napoleonici si erano miseramente impantanati nella melma.
Una volta arrivati a Mosca, i conquistatori non avevano trovato nessuno, ma proprio nessuno: solo case abbandonate, compreso il palazzo del governo.
Poi, a causa di mani misteriose, la città era iniziata a bruciare. A Napoleone e ai suoi legionari, avidi, ormai, solo di bottino, non era rimasto in tasca che l'inverno russo.
Fu così che, visto che non restava altro da fare, i francesi si decisero di ritornare, lentamente, verso casa. Ma una coltre di neve aveva ricoperto la strada del ritorno.
E lì, sotto un cielo livido, era iniziata la mattanza.
Nonostante fossero passati molti mesi da quella disfatta, da quel massacro di giovani, tra cui molti italiani e veneziani, i giornali non riportavano, al proposito, quasi niente. Quei fogli favorevoli al regime e osannanti il dittatore non parlavano che di "sconfitte temporanee" e di "inevitabili riscosse", ma i giochi, ormai erano compiuti, lo diceva la presenza dei militari feriti ed il loro quotidiano aumentare.
Nel Giornale per cui lavorava Pompeo pareva che il tempo si fosse fermato all'apogeo di Napoleone, proprio ai tempi del suo massimo splendore.

Ma la realtà era ben diversa:
L’avvocato Soriani, persona stimata in città, ricevette un giorno una lettera terribile: gliel' aveva inviata un suo nipote ventenne, un giovane idealista che aveva seguito Napoleone, come tanti giovani europei, perchè credeva che le idee di libertà e di democrazia si potessero esportare con la rivoluzione in ogni parte del Mondo. Probabilmente egli, a quel punto, era già morto, ma se fosse stato ancora vivo, a quanto pare, avrebbe già cambiato idea: parlava, in questa missiva, del disastro avvenuto al ponte sul fiume Beresina, mentre gli uomini dell'esercito di Napoleone fuggivano, terrorizzati dal gelo e pungolati dai feroci cosacchi, nella terribile ritirata seguita alla “conquista” di Mosca. Di tutti quegli uomini partiti con ardore (erano in seicentomila), ne tornarono a casa cinquemila.
L'avvocato, visibilmente scosso, anche perché, di quelle vicende ben poco si sapeva e chi sapeva taceva, la stava leggendo davanti ad alcuni avventori, al bar dal Todaro, in piazza san Marco, La missiva riportava queste meste parole:

"...sul ponte si erano affollati i soldati, confusi disordinati, gettando gli altri nel fiume quelli che avevano la forza di urtare. Coloro che sopraggiungevano calpestavano i caduti, i carri si rovesciavano sulla folla, mentre una fila immensa di disperati, lunga chilometri e chilometri, spingeva da dietro nella speranza di attraversare il ponte che avrebbe permesso loro di sperare di continuare a vivere. Chi non ci fosse riuscito sarebbe stato preda dei russi che stavano giungendo, provvisti, ben pasciuti, avvezzi al freddo polare e con l'entusiasmo di chi salva la patria. Ed essi giunsero quando solo una parte dell'esercito aveva attraversato la Beresina. Una volta passato l'imperatore Napoleone, però, si decise di dar fuoco al ponte, onde evitare il rischio che questi potesse venir catturato. Tra i poveri disgraziati rimasti al di là del ponte c'era chi bestemmiava e chi gemeva, chi era preso dalle convulsioni, chi si lanciava nel fiume sperando di bilanciarsi tra i massi di ghiaccio, chi si lanciava nelle fiamme del ponte. Ogni cosa sarebbe stata migliore che cadere nelle mani dei russi. I cosacchi erano già pronti colle picche e i ferri che accecavano gli occhi.
Intanto, in una slitta trainata da cavalli velocissimi, Napoleone si era messo in salvo.
Ma ormai sapeva che il destino si stava compiendo..."

La lettura di questa lettera, ascoltata anche da agenti della propaganda napoleonici, costò al padrone del bar "al Todaro", due giorni di chiusura del locale, perché, riportava la sentenza: “in quel bar si mormorava contro la Francia.”
E proprio nei giorni di ottobre del 1813, a Lipsia, nella battaglia delle nazioni, dove tutti i nemici della Francia si erano coalizzati, si stava decidendo l'atto finale.
I veneziani ancora non lo sapevano ma potevano immaginarlo. L'esercito austriaco era già penetrato nel veneto e si avvicinava alla città.
Venezia, ormai era in stato d'assedio.
Pompeo vide scendere, dal campanile di piazza san Marco, Giovanni Rallo, ex gondoliere, ora telegrafista. Il campanile era stato attrezzato con quattro trasmettitori, uno per ogni angolo. Gianni, che era sceso un attimo per andare a salutare la morosa, era la persona più informata di Venezia.
"Novità?" chiese Pompeo.
"Niente, niente - rispose Giovanni, mentre aveva iniziato a baciare con accanimento la sua ragazza, senza perdere un minuto - Forte Marghera è armato ed è iniziata la resistenza, gli austriaci hanno passato l'Isonzo, queste le ultime notizie."
"Ah, e questo sarebbe niente?"
Continuò Pompeo.
"Che altro ti vol che te diga?"
"Ma...non so..."
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non potè insistere a disturbare Giovanni, visto che quello se ne stava già fin troppo indaffarato con la bella morettina.
Proprio mentre rientrava in casa, senza aver trovato niente da mangiare, incontrò Guido, che lavorava al porto e faceva, ogni tanto, il pescatore. Pareva trafelato.
"Dove ti va, de corsa?"
"Le catene, le catene... hanno incatenato il porto, Madonna Santa, semo rovinati."
"Le catene? Chi le ha messe?"
"Il governatore Seras le ha fatte mettere, ormai le navi inglesi sono vicinissime....scusa, devo correre."
I porti del Lido, di Chioggia e di Malamocco erano stati incatenati e, come non sarebbero potute entrare le navi nemiche, così non sarebbero potuti uscire i pescherecci, con buona pace del pescato.
Pompeo capì che, ormai, ben poco cibo e poca mercanzia sarebbero passati per Venezia.
Ritornò verso san Marco e vide che moltissima gente stava dirigendosi verso la basilica.
Il patriarca, Monsignor Stefano Bonsignori, aveva deciso di esporre l'immagine della vergine, affinché il popolo accorresse a pregarla. Ciò avveniva nei periodi di peggior calamità, e di calamità simili se ne erano registrate poche in questi ultimi mille anni.

giovedì 23 aprile 2020

Osare

Nel nulla che non cerchi
trovi ciò non osi cercare
per questo ti verrà a trovare.

 Brunetta Sacchet

domenica 19 aprile 2020

" Venezia in catene" Capitolo tre

I FRANCESI

Era pieno di francesi con la faccia da campagnoli, anche se qualcuno non era francese, ma fingeva di esserlo. Chissà poi cosa si credevano di fare.
Soldati prepotenti, come tutti i soldati del Mondo. Questi, anzi, erano ancor peggiori, perché avevano dietro di loro fior di filosofi e di intellettuali che li istigavano, convincendoli di essere dalla parte della ragione, della giustizia, della verità ad ogni costo.
Ma quando mai, nella storia degli uomini, un soldato ha ammazzato e scannato senza credere di essere dalla parte della verità?
C'era un tempo in cui, addirittura, qualcuno ammazzava i suoi simili in nome di Dio, come se il Padreterno non avesse altro da fare che creare esseri perfetti per farli poi banalmente squartare da altri esseri umani.
E tutto ciò in suo nome, per giunta.
Pompeo pensò che avrebbero dovuto prestare attenzione nel muovere i loro passi in una città millenaria, le cui pietre da calpestare contenevano, ognuna di esse, una storia da raccontare, così come c’era da aver timoroso rispetto per tutto ciò che si vedeva attorno.
Mentre pensava a queste cose, egli si accorse che due di loro, grezzi contadini col cappellaccio portato di traverso e l'uniforme lurida, stavano importunando Myriam, la nipote del rabbino, una ragazza che egli aveva conosciuto durante una festa al ghetto ebraico della città, in cui lui, cattolico, era stato invitato per caso.
"Ciao Myriam, cossa xe che no va?"
le chiese immediatamente.
I soldati lo guardarono male, ma subito se ne andarono per la loro strada.
"Ciao…."
rispose lei con quella voce dolcissima che, molto tempo prima, lo aveva turbato, procurandogli un misto di curiosità, di stupore e di qualcosa d'altro ch'egli non aveva saputo spiegarsi.
"Sempre così, co 'sti francesi, vero?"
"Sì, certo, non si può più camminare, grazie per esser intervenuto.
"Par carità, piasser mio, cara Myriam, servo vostro."
"A rivederse."
"Sì, a presto."
Pompeo sapeva che, a molte ragazze, non dispiaceva di esser fatte oggetto di desiderio da parte dei soldati. Molti di loro, in effetti, erano giovani e carini. Tra di loro, poi, c'erano anche giovani provenienti da altre città della penisola italiana, costretti a far parte dell'esercito di Napoleone, che aveva conquistato le loro terre ed aveva imposto, per la prima volta nella storia dell'umanità, la leva obbligatoria.
E questi figli degli stati italiani, nonostante portassero la stessa divisa, erano di gran lunga più galanti dei francesi.
Mentre guardava la stupenda ragazza ebrea, dai capelli nerissimi, allontanarsi col suo fagotto di roba da lavare, pensò con un certo fastidio se mai lei avesse ceduto alle avance di qualcuno. Poi cercò di non pensarci più.
"Caro Pompeo, come sta andando?"
"Roberto Lulli? Qual buon vento?"
Costui era un amico e collega di Pompeo, che aveva scritto anche un libro. Nativo di Firenze, aveva trascorso gran parte della sua vita e della sua carriera nella città di san Marco. Neppure in momenti difficili come quelli che stavan passando, l'aveva potuta abbandonare.
Spira un vento molto brutto, fratello. Per le nostra pancia e per le nostre idee.”
Egli aveva creduto per un po’, come tanti altri giovani, alle idee di libertà e di democrazia portate avanti dal dittatore còrso. Ora anche lui era in pieno subbuglio.
Cossa ti vol far?” gli chiese pleonasticamente il giovane veneziano.
Niente, niente. Sto pensando a quelli che sono andati a morire in giro per l’Europa e che ora si stanno ritirando in ordine sparso. Anch’io avrei dovuto andare a combattere ma, grazie a Dio, ho questa gamba zoppa.”
Cambierà…tornerà tutto come prima:”
Prima quando? – chiese Lulli, facendo capire quanta confusione regnava nelle menti di chi stava assistendo a cambiamenti repentini quanto mai, nella Storia, erano avvenuti – Prima io credevo in Dio e ci hanno insegnato a non crederci più. Credevo nella rivoluzione e ora non ne esiste più nemmeno il ricordo. Penso a chi ha combattuto dapprima in nome dei suoi ideali, dopo soltanto per il bottino di guerra (che almeno quello gli rimaneva), e adesso si trova, senza né arte né parte, impantanato nella steppa o ferito molto gravemente sul greto di qualche fiume e ha davanti a sé solo la prospettiva della morte: bestemmiando Dio, sé stesso e chi lo ha indottrinato, morendo senza conforto alcuno.”
Pompeo lo salutò fraternamente, mentre pensava alla strana figura responsabile di tutto ciò che stava avvenendo al mondo. L’Imperatore de francesi: ma chi era in realtà costui? Il castigo di Dio? Un demone venuto a inorgoglirci prima e a punirci poi? Chi lo sa, neppure i posteri lo sapranno.
Napoleone quando ancora non era imperatore, ma un generale della rivoluzione e si stava avvicinando alla decadente Venezia, sua preda ambitissima, per poterla sbranare tranquillamente, scrisse in una lettera al "Direttorio", che governava da Parigi tutta la Francia, queste parole:
"Di tutti i popoli d'Italia,
il veneziano è quello che ci odia di più",

e non sbagliava di certo.
Ora che erano passati quasi venti anni da quella volta, l'odio non era diminuito, semmai, dopo gli ultimi avvenimenti, si era moltiplicato. Un odio assai ricambiato da Napoleone per una città considerata, probabilmente a torto, il simbolo dell'antico regime.
In quel tempo - era il 1797 - mentre il generale francese si stava avvicinando alle terre di san Marco che, allora, andavano dalle valli bergamasche alle isole dell'Egeo, Venezia era già alla fine e i suoi nobili non pensavano nemmeno ad una qualche difesa da opporre all'esercito invincibile.
Napoleone, vero genio della guerra, aveva inviato emissari in tutto il territorio allo scopo di promuovere lo "spirito pubblico", cioè per avvicinare il popolo agli ideali della Rivoluzione Francese.
Pompeo non era che un bambino, allora, ma suo padre glielo aveva raccontato molto bene: quegli uomini, perfetti strumenti di guerra psicologica, avevano fomentato, a Venezia e nel Veneto, odii e divisioni. I poveri avevano iniziato ad odiare i patrizi, le fazioni andarono contrapponendosi tra di loro sempre più violentemente. La millenaria unità della serenissima terminò malamente. Si arrivò a dividersi, dopo secoli di orgoglio indipendentistico, tra filoaustriaci e filofrancesi.
Mentre camminava per le callette strettissime, si accorse che era arrivato a odiare il rumore dei tacchi delle truppe occupanti sui masegni, ché pareva lo facessero quasi per dispetto.
Pensò che i veneziani nulla avevano fatto per difendersi, mentre sulle montagne...
...Eh sì, sulle montagne, in quel 1797, i francesi avevano trovato filo da torcere.
Mentre si avviavano speditamente a conquistare la città dei Dogi, i napoleonici non avrebbero immaginato mai, neppur minimamente, di trovarsi davanti un esercito di montanari, valligiani, contadini, disposti a tutto pur di difendersi da una soldataglia arruffona e arrogante.
Fu così che, armati di forconi e di bastoni, i poveri abitanti della valcamonica, della valtrompia, della valsabbia e delle valli e dei contadi vicini, dispersero e umiliarono l'esercito più forte del mondo, quello che si avviava a conquistare l'Europa intera.
E non riuscivano ad andarne fuori, i francesi, con quei diavoli arrabbiatissimi.
Napoleone minacciò il doge friulano, Ludovico Manin, di mettere a ferro e a fuoco la città di san Marco se non avesse dato ordine a quegli ossessi di fermarsi, ché gli stavano distruggendo gli uomini migliori.
Il doge dovette arrendersi e, per evitare altri spargimenti di sangue, ché già ce n'erano stati troppi, intimò a quella gente tanto riconoscente e fedele di fermarsi.
Non poté dimenticare che, in moltissimi casi, furono proprio i popolani più poveri, i villici, i montanari a salvare la Patria: successe anche all'inizio del '500, quando la Repubblica era stata attaccata da una coalizione capeggiata nientepopodimeno che dal papa Giulio II, monarca dispotico e intollerante.
Anche in quei giorni, al grido di "viva san Marco", quel popolo povero e fiero si era difeso con grande accanimento. E quella volta aveva salvato la Repubblica.
Pompeo pensò a loro, ai "campagnoli" tanto diversi dai cittadini veneziani, con compassione e molta pena.
Erano i figli dei contadini poveri e dignitosi, quelli che i ricchi ed i borghesi deridevano e definivano ignoranti e bigotti. Forse era vero, ma i figli dei ricchi borghesi che avevano sposato la causa della rivoluzione, che avevano studiato i libri di Voltaire e avevano preso le armi, ora le stavano usando contro di loro, e non riuscivano ad averne ragione.
Il 12 Maggio del 1797 i francesi entrarono in città e i veneziani non mossero un dito.
Erano passati, in pochi minuti, mille e trecento anni di indipendenza.
Gli schiavoni , soldati che venivano dalle coste dell’ Est e che furono per molto tempo al servizio della Serenissima, presenti in città, difesero Venezia con tenacia.
Ma altri di loro approfittarono del caos per saccheggiare le case e fare bottino.
Qualche cittadino più colto pensò che i francesi avrebbero portato le libertà democratiche, quelle che moltissimi, sinceramente e a ragione, desideravano ardentemente.
Ma Napoleone non era che un dittatore come ce ne furono tanti e come ce ne saranno ancora… e della libertà altrui se ne fregava bellamente.
Aveva già venduto Venezia agli austriaci – buoni quelli - dopo averla "liberata" di qualche tonnellata di opere d'arte.