giovedì 28 maggio 2020

La teoria dei girasoli

Io ho una teoria.
La mia teoria riguarda i girasoli.
Seguitemi bene,perché è una teoria tutta mia.
I girasoli sono dei fiori particolari:
nascono, vivono e muoiono per il sole.
Così come alcune persone, che io chiamo "girasoli",
vivono per  l'amore in tutte le sue forme.
Sono perfino un po' attratte dalla sofferenza,
come il fiore che vive di tristezza,
quando il sole va via!
Le persone girasole sono persone particolari,
le noti subito perché hanno una strana luce
dentro gli occhi, e sono belle da morire!

E lucenti come un fuoco che arde.
E' difficile spegnere certe persone:
a volte si spengono da sole, mai per altri,
e hanno questa capacità di illuminare
ogni cosa che hanno attorno.
Fateci caso.
A volte ci sono delle persone che incontrate e vi sentite migliori,
perché loro fanno questo
vi fanno sentire qualcos'altro:
qualcosa di buono,
qualcosa che brilla.
I girasoli illuminano ogni posto in cui mettono piede.
Sono fatte così loro:
non puoi non amarle, non puoi spegnerle,
non puoi non brillare accanto a loro.
      Sono fiori
             profumano di cielo.



mercoledì 27 maggio 2020

" Venezia in catene" Capitolo XI




ULTIMO CARNEVALE



Il ventidue del mese di febbraio era de “marti grasso”, ultimo giorno di carnevale.
Un vento fortissimo sferzava le calli e urlava lungo le rive mentre, sopra l'acqua, le onde increspate si muovevano adagio, con lentezza sempre maggiore, come se una forza terribile e sconosciuta imponesse loro di fermarsi e di rimanere lì, come surreali e inquietanti sculture di ghiaccio. Il termometro segnava ormai cinque gradi sotto lo zero e la laguna, agli occhi di chi si azzardava ad osservarla da vicino, andava trasformandosi, pian piano, in una lastra verde, quasi trasparente.
Sembrava di vivere in una città strana – e già per sé Venezia era strana – che d’un tratto s’era venuta a trovare non più nell’Adriatico, ma immersa nel mare polare, come se un’ incantesimo l’ avesse trasportata al Nord per punire ancor più i suoi abitanti.
Secondo le ultime notizie, il cappellano militare della fregata "La Piave" ed un agente contabile, “sono stati arrestati per aver tenuto discorsi "contrari alla pubblica tranquillità”.
Evidentemente spie e orecchi indiscreti abbondavano in città, tra osterie e case da gioco.
Al famosissimo ballo della "Cavalchina", che avrebbe dovuto chiudere i festeggiamenti del carnevale c'erano -qualcuno lamentava – “solamente” trecento persone. Pompeo annotò nel suo diario che alle cinque del pomeriggio già le porte del locale erano chiuse.
Tutti se n'erano già tornati a casa: e pensare che di solito, negli anni passati quel ballo tanto atteso durava l'intera notte e anche di più.
Ma di motivi per divertirsi ce n'erano sempre meno: i bisati, cioè le anguille, spesso l'unica fonte di sostentamento per i più poveri, erano diventati introvabili. I canali erano ormai ghiacciati, perciò impossibile diventava il rifornirsi direttamente, come i cittadini avevano sempre fatto. Diminuivano anche le razioni fornite ai militari, il vino iniziava a mancare sensibilmente.
Fu così che il buon Stefano Monsignori, patriarca di Venezia in queste ore tragiche, concesse magnanimamente l'indulto:
la popolazione della laguna – disse - potrà astenersi dal digiuno di Quaresima, date le terribili condizioni in cui sta versando.” Dio perdonerà loro se non osserveranno il digiuno perché lo vogliono, ma perché non possono fare altrimenti.



Tra le poche notizie che giungevano al giornale, non mancava mai quella relativa a furti o ruberie. Il 27 febbraio, Sul giornale veneziano si trovò a pubblicata questa notizia:
"Due ladri, dopo aver rubato olio d'oliva in un negozio, hanno lasciato cadere alcune gocce per la strada da una bottiglia difettosa. E' stato perciò facile, per la polizia, scoprire la loro abitazione, dove sono stati trovati tanti altri effetti rubati. Al momento dell'arresto uno di loro è stato identificato per un personaggio che da anni si spacciava, mentendo, per pazzo, cosicché nessuno avrebbe mai sospettato di lui".
Ma quel numero del Giornale Dipartimentale era uscito con una grave premessa:
"Nella mancanza di notizie sicure non cessiamo d'informare il pubblico di quelle che si possono indirettamente ottenere e che si raccolgono dalle stampe fattesi in città circonvicine".
Riuscire ancora a pubblicare un giornale, in quelle condizioni, era certamente un miracolo. Le notizie che arrivavano dal fronte della guerra erano vecchie; le battaglie di cui si scriveva erano avvenute tra il 10 ed il 18 febbraio. Il cronista parlava di esito incerto ma, a quel tempo, già la situazione per i francesi era precipitata.
Per fortuna c'erano ancora in giro tante teste matte ed allora di qualcosa si poteva parlare.
Pompeo, tra il tragico ed il divertito, il giorno 4 di marzo annotò sul suo diario la vicenda di un nobil’ uomo che ancora non voleva rendersi conto della situazione:

Quattordici persone si erano recate stamane, per vari motivi, da Venezia fino a Trieste, Dio solo sa con quante difficoltà da superare. Tra costoro c'era anche il famosissimo Conte Girardini di Lendinara. Una volta giunti al porto, però, non vengono fatti scendere, perché chi governa Trieste (gli austriaci) ha l'ordine di non fare entrare in città passeggeri provenienti da una città occupata dai nemici francesi.”

Il tragico venne dopo. Al loro ritorno in laguna, infatti, il comandante militare del Lido non concesse loro il permesso di rientrare in città. Perciò, nonostante imperversasse una burrasca ed il freddo fosse insopportabile, i malcapitati viaggiatori se ne dovettero stare dentro la barca, ancorata al largo, coperti solo da alcune stuoie, in attesa del loro destino. Si sa che
Molti loro amici si mobilitarono al più presto per aiutarli",
cercando di salvare la loro vita in pericolo solo per motivi burocratico doganali.
E visto che la gente aveva ancora voglia di ridere, scherzare e divertirsi (e questo preoccupava l'odiato comandante Seras), il governo escogitò un espediente per far diventare tutti seri: una nuova tassa.
Seras, che, come ci tramanda Pompeo, “era un soldataccio senza cuore, senza alcuna pietà per i cittadini sottomessi”, impose un salasso di un milione e mezzo di franchi francesi, da pagarsi entro diciotto giorni dalla pubblicazione del bando. Ottenne un effetto prodigioso: non si ballò più e non si andò più in maschera.
Fu una estorsione vera e propria, ma egli colse due piccioni con una fava: ottenne lo scopo di calmare gli animi e rimpinguò le sue casse: Venezia diventò un deserto, mentre Seras divenne l’ incubo dei veneziani.
"La rigida stagione, poi - commentò nel suo scritto, Pompeo - aiutò il governatore".

venerdì 22 maggio 2020

"Venezia in catene" CAPITOLO X




PAPA'





Le condizioni del tempo erano andate via via peggiorando durante tutta la notte. Un freddo pungente tormentava e infastidiva arrivando fin dentro le case, penetrando da ogni più piccola breccia e dai vetri rotti. La neve aveva imbiancato le strade, coprendo le sozzure pudicamente tanto che Venezia pareva, quasi, una città pulita.
Ben poca gente si azzardava a girar per la strada e dentro i letti, seppur gelati, ci si poteva stringere tutti sotto un’ unica coperta. Intere famiglie passavano la giornata così, rannicchiate e rassegnate, senza più la forza di muoversi per andare a cercare qualcosa di cui nutrirsi.
Da Padova, quel mattino, era giunto un burchiello carico di mele, pere castagne. Ma mancavano i cereali, il pesce scarseggiava e solo il forte vento impediva che si gelassero i canali.
L'osteria “Luna”, un punto di ritrovo al solito affollatissimo, aveva chiuso quel giorno, addirittura per mancanza di vino. Anche l'oste si era ritirato in casa per cercare rifugio sotto il caldo di una coltre. Il locale, da quella volta, non avrebbe mai più riaperto.
Pompeo sentiva da la necessità di scrivere, per far conoscere ai posteri la situazione in cui si trovavano i veneziani, però il direttore del suo giornale non aveva il coraggio non solo di pubblicare i suoi scritti, ma nemmeno di leggerli, temendo di compromettersi, a quel gesto, col potere militare.
Fu così che il giovane decise, da allora, di tenere costantemente aggiornato il suo diario, cercando di raccogliere tutte le notizie che la stampa ufficiale si sforzava di nascondere. Capì che avrebbe dovuto scriverlo di nascosto da tutti e di pubblicarlo, semmai, appena se ne fosse presentata l'occasione. Riportò accuratamente la cronaca dettagliata di tutto il periodo in cui la città fu sottoposta al blocco.
Ancora non sapeva che quel diario sarebbe rimasta l'unica fonte storica di quei gravi avvenimenti.
Pompeo annotò, tra le sue pagine:
15 febbraio, i quattordici marinai della fregata "Principessa di Bologna", che si trovava in prossimità di Chioggia, dopo aver accompagnato con uno stratagemma il loro capitano a riva sopra un caiccio, una piccola barchetta, l'hanno abbandonato rubandogli cappello e soprabito e se ne sono tornati alla nave. Dopodiché essi han potuto disertare al nemico con estrema semplicità, poiché il capo dei disertori aveva indossato gli abiti rubati facendosi passare per il vero capitano: la nave aveva così potuto abbandonare il porto di Chioggia saltando i controlli dei francesi e andando incontro agli inglesi assedianti. Il gruppo si è consegnato a loro con tutto l'armamentario.”

22 febbraio, ultimo giorno di carnevale, infuria il vento e il freddo è eccessivo. Il termometro segna 5 gradi sotto zero.”
23 febbraio, tutti i canali sono ghiacciati. I bisati, le anguille, ormai quasi l'unica fonte di sostentamento per i più poveri, sono introvabili date le condizioni atmosferiche.
Le trattorie sono ormai tutte chiuse, vista la mancanza di generi alimentari; tutti i padroni dei negozi che ancora non hanno chiuso si stanno approntando a farlo.
Qualcuno si è lamentato che le puntate al casino del Ridotto sono molto basse, non c'è più il gioco di una volta."


"Pompeo, Pompeo,", gemeva, con angoscia, Gregorio.
In quel letto squallido d'un lurido ospedale, il vecchio cominciò a rendersi conto con lucidità che la sua ultima ora stava giungendo.
Ed il figlio, purtroppo, non aveva assolutamente un'idea di come potergli essere utile.
I medici erano quasi tutti ammalati; gli infermieri non erano veri e propri infermieri, ma semplici e occasionali passanti che i francesi avevano coartato fuori dall'ospedale. Quello che stava alla porta della camera infatti, per quanta buona volontà ci mettesse, non sapeva neppure come muoversi dentro un ospedale. Era uno squerarolo dell'arsenale che non aveva fatto altro, nella sua vita, che lavorare il legno e battere il ferro per le barche.
Possedeva due manacce immense con dita grosse come salami. Tempo addietro, mentre stava passando per caso davanti all'ospedale, un soldato lo aveva tirato dentro per i capelli, promuovendolo all'istante assistente caposala. Da quel giorno, era passato quasi un mese, lo squerarolo non aveva più rivisto sua moglie. Sperava in cuor suo che ancora lo stesse aspettando e che non avesse già incontrato un altro uomo.
"Servirebbe qualcossa par calmarghe i dolori", affermò il buon uomo, pur sapendo che tutti i medicinali erano finiti. Nello stesso tempo, pensava che la cosa migliore da fare fosse quella di accelerare l'arrivo della morte, impedendo pietosamente al vecchio di continuare a soffrire in quella orribile maniera.
La stessa cosa avrebbe voluto anche il figlio che, se ne avesse avuto il coraggio, avrebbe iniettato egli stesso il veleno in quelle vene stanche e sclerotizzate; ma si limitò a guardare l'infermiere e a smuovere la testa con rassegnazione.
Poi il viso del vecchio si illuminò…guardò stupito verso l’alto per pochi istanti e cadde addormentato così come si addormentano i bambini.
Tutti si fecero il segno della croce di Cristo.

Gregorio si presentò alle porte del paradiso che erano quasi le dodici e mezzo. Un orario, ovviamente, valido solo dalle parti di Venezia e dintorni, perché in altre zone del Mondo era diverso. In paradiso, poi, non esistevano proprio gli orari ed il tempo era sempre uguale. Questo, a Gregorio, parve bello.
Fu l’angelo guardiano ad aprigli il portone con distratta benevolenza.
Il vecchio, prima di entrare, mise dentro il naso e gli apparve un luogo dominato da un azzurro verde intenso che inebriava, con una luminosità destinata a durare nel tempo, come in quei giorni d’estate in cui il Sole sembra non voler mai tramontare. L’atmosfera era simile a quella che si respira, da noi, in un giardino alla metà di maggio, quando i fiori fanno a gara a chi sboccia prima ed i colori sembrano esplodere. Questo posto era popolato allegramente da gente che aveva abitato la Terra e, poi, l’aveva lasciata da molto tempo, da qualcuno morto recentemente e da chi doveva ancora nascere. Gregorio si sarebbe aspettato di incontrare all’ entrata, anziché quell’ angelo strano e svogliato, la figura di san Pietro, come gli avevano insegnato fin da bambino. Un signore distinto che lo avvicinò, e non si capiva se era appena morto o se si apprestava a nascere, gli rivelò che il santo guardiano, primo Papa della Storia, detentore delle chiavi eterne, si era stancato di fare il portinaio da tutti quei secoli ed aveva deciso, come era sua facoltà, di tornare sulla terra reincarnandosi in un nuovo papa. Avrebbe preso il nome, quando sarebbe giunto il momento, di Leone XIII.
Gregorio si girò e rivide l’angelo cui toccava di fare il guardiano che si muoveva con insofferenza e distacco dalla sua mansione.
Adesso dove devo andare?” gli chiese.
E dove ca...spita vuoi che ti mandi?” gli rispose piccato. Il vecchio lo guardò sperduto.
Arrivi or ora da una città soffocata nella me...lma, dove regnano fame, freddo, puzza e miseria; eri vecchio e malandato ed ora sei fortissimo (Gregorio non aveva fatto caso a questo particolare), non avrai più fame e non ti ricordi più cosa sia la paura, non ti servon più denari né coltri…e mi chiedi dove devi andare? Ma vai un po’ dove ca…spita vuoi.”
L’angelo sembrava contrariato, ma non si capiva perché. Del resto, egli era obbligato a fare la guardianìa senza che nessuno gli pagasse un salario, anche perché comunque i soldi, in quel luogo, non gli sarebbero serviti a nulla. E nessuno gli avrebbe detto: “bravo” per quello che faceva e, sinceramente, non gli sarebbe neanche tanto interessato che lo facessero.
Il fatto era che, di gente, ne arrivava sempre meno, perché tutti andavano da altre parti e la noia, purtroppo, non era stata debellata neanche in quel posto meraviglioso.
Almeno un piccolo sorriso, Santo Iddio, pensò Gregorio, avrebbe ben potuto farlo.
Poi si guardò attorno e pensò, colmo di gioia, che non si era mai sentito così bene in tutta la sua esistenza.



domenica 17 maggio 2020

" Venezia in catene " CAPITOLO IX




CHIOGGIOTTI





Le diserzioni in massa, tra i militari di presidio a Venezia, aumentavano in maniera impressionante, tanto che, con l'inizio del nuovo anno, si faticò a tenerne nota.
Pompeo era avvisato costantemente: si aprivano in continuazione nuovi buchi tra chi doveva controllare i confini della città. A volte erano le stesse guardie a fuggire e a darsi al nemico. Ma, nel suo giornale, certe notizie non si potevano di certo pubblicare. Il numero del 3 gennaio, uscito in ritardo, ne parlava appena, anche se la pubblicazione di ordinanze severissime contro i disertori, faceva capire chiaramente che il problema, per il governo francese della città, era enorme.
Dall’altra parte della laguna, verso Sud, nella città gemella di Venezia, Chioggia, stava intanto succedendo un fatto che aveva dell’incredibile.
In quei giorni, infatti, gli abitanti di Chioggia erano soliti venire fino a Venezia per vendere le loro derrate alimentari, perché ne ricavavano assai maggior guadagno che se le avessero vendute nella propria città, perché a Venezia erano sempre stati più ricchi e anche perché a Chioggia erano tutti pescatori e con la storia del blocco navale nessuno poteva più andare al lavoro nel mare, unico sostentamento delle proprie famiglie.
Era una speculazione dannosissima, perché, in poco tempo, avrebbe sì riempito le tasche degli speculatori, ma avrebbe ridotto Chioggia alla fame; brutto destino per quei poveri chioggioti: morir di fame con le tasche piene di soldi.
Fu così che il prefetto di Chioggia, il nobile signor Baldassaroni, tentò in maniera intelligente di fermare questa scemenza con un decreto in cui si vietava di vendere alcunché a Venezia.
Ma tale gesto non piacque al governatore Seras tanto feroce quanto ignorante, che non aveva autorizzato quella misura e che annullò il decreto, affermando che il commercio tra le due città, entrambe bloccate, doveva continuare.
Accadde allora, inevitabilmente, che i clodiensi, o chioggiotti come li chiamavano i veneziani, si trovarono, in brevissimo tempo, senza generi di prima necessità. Questa incresciosa situazione scatenò un tumulto di popolo ( proprio lo stesso popolo che aveva cercato di far soldi speculando a Venezia), in cui non mancarono botte e violenze e che venne bloccato soltanto dalla promessa di Seras, che non sapeva più che pesci pigliare (e non c’erano più neanche pesci), che sarebbe stata portata un pochina di farina da Venezia a Chioggia.
Ciò bastò a calmare gli animi.

Era soltanto il 6 gennaio e già Venezia pensava, nonostante tutto, al carnevale. Il governo fece sapere che era permesso portare le maschere, a meno che, i travestimenti, non fossero stati contrari alla morale e irrispettosi dell'autorità costituita, della religione, dei costumi.
In tipografia il giornale era quasi pronto, Pompeo stava preparando l'articolo riguardante il carnevale. In pratica, egli doveva limitarsi a pubblicare l'ordinanza del governo così come gli veniva passata: erano vietati gli spari e l'uso di rocchette e fuochi artificiali (che tanto, per capodanno, ne erano stati utilizzati a sufficienza), e per chi girava armato, creava tumulti o commetteva atti indecenti in maschera (e gli atti indecenti non mancavano mai, specie se si era in maschera), scattava l'arresto immediato e l'obbligo di smascherarsi davanti al poliziotto (cosa che avrebbe fatto accapponare la pelle ai Dogi della serenissima, nei tempi in cui il diritto di maschera era considerato quasi una cosa sacra, come il diritto di andare a messa).
Se il reo poi, apparteneva ad una delle classi chiamate alla leva, sarebbe incorso nelle pene stabilite per i renitenti.
Tutto qui: il "giornalista" Pompeo non avrebbe dovuto aggiungere altro a queste notizie-ordinanze che giungevano dal governo. E sì che di cose da dire ne avrebbe avute molte.

"Xé sciopà el tifo" annunciò una voce concitata alla porta della tipografia.
"Qua a Venexia?"
"Sì, all'ospedal."
In tutti gli ospedali cittadini, era scoppiato il terribile morbo.
Era successo che alcuni giovani militari di presidio, non abituati alle fatiche della guerra o alle notti di guardia, avevano iniziato ad accusare un marasma alla pancia, che presto degenerò in una malattia più terribile, il tifo, appunto. Gli ospedali che già erano infetti e sozzi, erano carichi di ammalati ed il loro numero aumentava costantemente. Il morbo sorprese anche medici ed infermieri. Venne istituito un ospedale in sacca san Biagio allo scopo di isolare quelli che erano stati infettati dalla malattia.
La tragica lista dei morti, che il Giornale dipartimentale Adriatico pubblicava costantemente, si stava gonfiando in modo spaventoso.
Pompeo guardò fuori dalla finestra e vide che, lentamente, era iniziata a cadere la prima neve.

Attraverso il chiarore nitido che usciva dalla vetrata, gli parve di scorgere movimenti di esseri umani, simili alle migrazioni degli animali, in cerca di cibo e di acqua. Vide milioni di persone, in un futuro non molto lontano, disperate e umiliate, anche se sotto la loro terra nascondevano tesori. Come i chioggiotti anche i popoli di domani dovranno svendere i loro patrimoni e le loro ricchezze senza ricavarne di che vivere, trovandosi a morire di fame per far arricchire i loro Napoleoni e i loro Seras.

Passò di là una donna, la Guerrina, quella che vendeva la frutta a Rialto assieme a sua sorella Lucia, che lo avvisò:
"Va a casa, Pompeo, che tò papà sta tanto e tanto mal."

mercoledì 13 maggio 2020

" Venezia in catene" CAPITOLO VIII



Capodanno da Buratti




Dopo l’uscita dell’ultimo numero, la sede del giornale era stata abbandonata: il direttore aveva chiuso tutto senza salutar nessuno e senza avvisare quando si sarebbe stampato, sempre “se” si sarebbe stampato, il numero successivo.
In quei pochi fogli si potevano leggere le solite notizie palesemente false – lo avrebbe capito anche un bambino - riguardanti vittorie esaltanti quanto inesistenti dell’esercito francese, alcune di addirittura trionfali, di città conquistate con valore e tenacia.
In realtà si trattava di una guerra che Napoleone aveva ormai perduto, lo sapevano già tutti nel resto del Mondo, ma a Venezia ancora non lo sapeva nessuno.
Pompeo non poteva più sopportare che venissero celati i terribili patimenti cui ogni cittadino era costretto in maniera tanto infame.
Mentre vagava per le calli senza una meta precisa, si stupì (ma lo stupore, ormai, gli riusciva sempre difficile), vedendo la gioia con cui i suoi concittadini si preparavano a festeggiare – alla grande, come sempre - l'arrivo del nuovo anno.
Una volta giunto a casa prese in mano il diario, che almeno quello lo avrebbe potuto scrivere in libertà e, senza spogliarsi che tanto era freddo anche lì dentro, scrisse una struggente preghiera al cielo:

"Compie il 1813, anno veramente nefasto.
Nel di lui corso fummo flagellati con guerre, tempeste, inondazioni, terremoti, aggravj insopportabili, fallimenti, coscrizioni, ed in fine col blocco.
Si fanno voti al cielo, perché l'imminente 1814 ci sia più propizio.
Ma pur troppo incomincia anch'egli con lo stesso o poco differente apparato di disgrazie.
Il blocco, che ci opprime già da due mesi, viene riguardato come la più grande di ogni altra - speriamo che la mano dell'Onnipossente affretterà la tanto da noi sospirata pace."


Tutte le case erano pavesate a festa, quella sera. Gregorio aveva trovato da qualche parte alcune ghiottonerie e non si capiva come avesse fatto. Il vecchio, col solito sorriso sulle labbra, stava già rifocillandosi. Con la bocca piene disse, rivolto al figlio:
"Magna, magna che el xé bon."
Nel piatto campeggiava una specie di frittella che non dava ad intendere cosa contenesse all'interno, tre uova basotte e alcuni fagioli conditi con del liquido che, a ben sperare, pareva olio di oliva.

Intanto i notabili della città erano tutti riuniti a casa del poeta Buratti.
Buratti era un poeta satirico che componeva versi abbastanza "spinti", dall’ intenso contenuto erotico, tanto da esser considerato un sozzo da alcuni e da altri paragonato al celebre “Baffo”, poeta non meno audace.
Egli era stato invitato, poco tempo prima, ad una cena ufficiale in casa del prefetto della città, anzi del “Prefetto del Dipartimento dell’Adriatico”, cioè il nobile signor Francesco Galvagna, alla presenza di ospiti illustri come il podestà di Venezia, Girolamo Bartolomeo Gradenigo, il commissario generale di polizia Antonio Mulazzani, ufficili del comando francese e varie personalità del mondo letterario.
Non curante della solennità del luogo, a mo' di ringraziamento per quell'invito lesse, davanti a tutti gli invitati, nobiluomini e dame, alcuni sonetti di satira da lui composti.
Dopo un po’ il prefetto, imbarazzatissimo, cercò di dissuaderlo senza riuscirci e lo invitò, perlomeno, a non pubblicare queste facezie ma, pochi giorni dopo, le copie dei versetti avevano già invaso Venezia.
Ma più dell’erotismo faceva male, a chi deteneva il potere, la satira politica. Questi versi risultarono particolarmente duri ai censori:



"Per chi ha visto el rosto infame
della fezza democratica
superar l'ingorda fame
della fezza aristocratica.

Da l'inglese prepotente
xè in caena messo el mar
da la tera no vien zente
no vien roba da magnar

Che zà presto da stanote
un bel zorno spuntarà
e a le barbare so grote
i nemici tornerà."




Buratti se la prendeva sia con gli inglesi che con Napoleone e Francesco d'Austria e poi con gli aristocratici e i municipalisti: odiava tutti i potenti e gli invasori, li disprezzava e le cose, lui, non le mandava di certo a dire.
Essi erano, a suo modo di vedere, tutti barbari che venivano dalle grotte, persone incivili, feccia, come feccia erano quei suoi concittadini che andavano ad osannare ogni nuovo invasore, pronti a offrire i propri servigi e la propria anima al potente di turno.
Il giorno dopo Buratti venne denunciato dai filo francesi al terribile generale Seras, che lesse i versetti: fu subito arrestato senza tanti complimenti.
Non gli fecero alcun processo, ma venne condannato a trenta sferzate sulla schiena. I suoi aguzzini poi, non contenti, lo bastonarono per molte ore e lo lasciarono alcuni giorni a pane ed acqua, dopo un po’ lo liberarono anche se gli imposero, a mo’ di sicurezza, un poliziotto in casa .
Quel giorno di capodanno quindi, nell’abitazione dell’esimio poeta si riunirono gruppi di amici, di amanti della poesia ma anche del buon vino, cercando di consolarlo e di farlo guarire dalle sue botte, un po’ prendendolo in giro, un po’ facendosi raccontare quel che Buratti sapeva raccontare meglio, perché ciò che amavano di più i suoi ospiti erano le sue novelle erotiche che mai mancavano in quelle riunioni.
Il buon vino, la bella compagnia di dame fresche o meno giovani, ma sempre affascinanti come lo sanno essere qui da noi, stimolarono la memoria del poeta, che narrò una vicenda avvenuta qualche anno prima:
Si era nel tempo in cui a Venezia si viveva mille e una notte, e forse anche di più: quando, cioè, le persone veramente importanti ed anche quelle che lo erano meno, venivano qui a stimolare e a soddisfare la loro libidine, senza guardare all’età o al sesso di chi la soddisfaceva. I signori potevano trovare prostitute (ma non è il termine appropriato per delle bambine), che avevano un età compresa tra i dieci e i sedici anni senza che nessuno, nell’umanità di quel tempo, avesse qualcosa da ridire.
In quei giorni era impossibile muoversi per la zona di San Marco senza incontrare uomini vestiti come donne o dame in età non più adolescente pronte ad importunare giovanotti e gondolieri.
Se le dame si concedevano a tutti, figurarsi se non lo avrebbero fatto per un bell’uomo, per giunta ricco e letterato come Buratti.
Infatti una bella signora, moglie di un ricco mercante della città, lo aveva più volte fermato per la strada e lo aveva provocato con la sua stupenda scollatura che evidenziava un seno prosperoso e bianchissimo.
Un bel giorno il poeta aveva finalmente accettato l’ennesimo invito a seguirla nella di lei casa per “prendere un caffé”.
Dopo di ciò, il racconto del poeta proseguì con particolari imbarazzanti da riportare, quali alcuni tipi di posizioni e di movimenti di labbra ed altre parti del corpo.
Ma ciò che divertì tutti fu quello che successe dopo.
Me ne stavo ignudo sopra di lei – continuò a raccontare – quando sentii chiudere il portone di casa. Fu un attimo, si aprì la porta della camera che avevamo trasformato in alcova, girai il collo e vidi, dietro di me, il marito della dama, che portava un vestito elegantissimo, un cappello a tricorno e, nella mano destra, un grosso bastone molto raffinato che terminava con un manico rotondo in bianco e duro avorio.
Sentii subito – dentro di me - un dolore acutissimo, come un colpo sul dorso, ne provai già la sofferenza e mi mancò il fiato.
Ma la realtà fu ben diversa: l’uomo non fece nulla di tutto ciò. Si tolse galantemente il tricorno, appoggiò il bastone, si sedette lì vicino e ci invitò continuare. Lui avrebbe guardato senza disturbare. Il giorno dopo, vicino al caffé “Quadri”, lo incrociai nuovamente, mentre stavo assieme ad alcuni amici.
Lui si tolse il cappello, fece un inchino e mi disse: “Quando che el vol, el vegna a casa mia, sior.” Tutti i miei amici, che già sapevano la storia, risero assieme a me.”
Dopo alcuni altri racconti, complice il vino buono ed alcune sostanze che il signor Bianchi – farmacista – portava sempre con sé, le dame presenti iniziarono a sbottonarsi i corsetti, i seni bianchi uscirono e si sentì l’odore della loro pelle… e il tutto proseguì con la solita immancabile orgia.
O, almeno, così andavano raccontando quelli che passavano sotto le finestre di quei palazzi patrizi e che dentro non c’erano mai stati…

Pompeo, indifferente al brio che invasava i suoi concittadini, se ne andò nella sua cameretta e si stese sul letto con le mani dietro alla testa. Gli pareva di tenere su il mondo anziché la sua nuca.
Prese sonno senza accorgersi e, almeno gli parve, venne subito svegliato.
"Pompeo, Pompeo, alzati, ghe xé qua 'na bea fia." lo avvisò, con gioia, Gregorio.
Il giovane si stropicciò gli occhi, non si era accorto di aver dormito tante ore e scorse, dietro al padre, il volto angelico della ragazza ebrea.
"Mi avevi promesso di portarmi a fare un giro" disse lei.

Se ne andarono a camminare per la città, mentre sentivano uscire da ogni casa rumori di festa, odori di buon cibo, ben cucinato, canzoni e gridolini. Continuarono a passeggiare: a girare tutta la città basterebbero due ore, ma se la si volesse conoscere in lungo e in largo Venezia, potrebbe non bastare una vita intera.
"E' una cosa da pazzi." Continuava a ripetere il giovane, non rendendosi ancora conto di come l'assedio e la fame non riuscissero a piegare il popolo veneziano: una forza sovrumana che arrivava da chissà dove. Proveniva solo da una inspiegabile gioia di vivere e di divertirsi. Pensò che, certamente, non potevano esistere altri popoli uguali.
"Non pensare troppo", disse la ragazza e Pompeo notò che le sue labbra erano più rosse dell'ultima volta che le aveva viste.
Tra un bacio e l’altro, si snocciolarono i problemi che sempre esistono nel mondo tra chi si ama, ma appartiene a due diverse famiglie, religioni, nazioni. Ma ogni bacio in più allontanava i problemi, e faceva capire ai due che non esistono famiglie, religioni e nazioni, e che un bacio è più importante di un Papa e di un Imperatore.
E, fin ché i loro corpi si stringevano sempre di più, che pareva diventassero un' unica creatura, si sentirono spari e grida in tutta la città, mentre a tratti il cielo si illuminava, creando bagliori surreali che poco avevano di questo mondo, di questa piccola porzione di terra e acqua intristita, umiliata e assediata.
Era scoccata la mezzanotte, iniziava il nuovo anno del Signore mille ottocento e quattordici.

domenica 10 maggio 2020

Madre nel volo


Mi dispiace se non mi respiri nell'aria del tuo giardino
io, mi volteggio spesso qui...
Se non mi vedi tra le forme buffe di una piccola nube
io, mi disegno spesso così...
Mi dispiace se non mi odi tra il canto del silenzio,
mi intono ogni notte in questo eccentrico suono...
Se non cogli il mio rifinito abbraccio eppure,
ti stringo intensamente nel sole dell'anima
Come quando tu eri bambina
e andavamo a raccogliere le more
ti sollevavo per farti prendere i frutti del gelso
i più alti, i più maturi e dolci.
Quando scendevi dalle mie braccia
vedevo la meraviglia del tuo visino
macchiato dal succoso frutto,
ti rendeva allegra e oltre modo adorabile
Cerca cara
il vento di allora...
Se son volata via e, non mi trovi nei tuoi occhi
lancia nel vuoto il mio nome
Tornerà l'eco del mio amore
sboccerà un singolare fiore
avrà il colori tenui dell'alba,
insegui la fragranza di questa gradazione
sarà questa scia che ti condurrà alla distesa dello schermo
Sarò li, ti attendo da sempre.





Brunetta Sacchet

giovedì 7 maggio 2020

Alle dee che abitano la terra

Come fiera oggi cammino forte e sincera
non ho paura più,
dell'uomo e del male.
Vado lungo le strade dei sentieri che presi
inseguendo l'amore che diedi
Quello del cuore
e, si fece sorriso
e, si fece gioia
e, si fece estasi
e, si fece pianto
Come fiera oggi cammino audace e serena
non ho paura del solco che mi decifrò:
come codice d'evo per rammentare ogni vissuta emozione
Come fiera oggi cammino nell'energia
che mi dettò la nota stonata di una cattiva giornata
la volli salvare nel barcode di un capovolto pensiero
per migliore in futuro ogni evento privo d'incanto.
Nello spartito dell'anima, composi l'aria di questa esecuzione,
della donna che sono
Contiene l'eco dei miei passi e il fremito dei voli che feci
seppur con ali tarpate
Il mio canto oggi lo dedico alla donne che incontrai,
molte solari e di buon cuore,
altre austere e fredde, come le lezioni che mi impartirono.
Donne delicate e colte, nascoste tra le folle disordinate
sempre amiche, sorelle sincere.
A quelle dell'aspetto fragile, ma tenaci nell'anima
silenziose eroine che bandiere non videro mai.
Come fiera oggi cammino
su percorsi dettati dal tempo,
 e ancora il cuore  trova i passi di giumenta 
A tutte le dee,
che abitano  la terra, vada il cielo terso
con cento schizzi di petali di rosa
sia ancora per l'anima profumo di paradiso.


Brunetta Sacchet




martedì 5 maggio 2020

" Venezia in catene"


CAPITOLO VII



I DISERTORI





Ma a questo punto, nonostante si cercasse di celare ogni paura attraverso feste e divertimenti, spettacoli e risate, balli e riti orgiastici uno spettro sinistro, quello che precede solo la morte, era giunto a destinazione…
Fame ! Com'era brutto anche il solo pronunciarla, quella parola.
Aveva iniziato, come sempre, a torturare i più disgraziati, gli umili, quelli che a malapena erano riusciti a sopravvivere e che ricchi non erano mai stati. Poi, pian piano, era arrivata a tormentare lo stomaco di coloro i quali, a certe cose innominabili, non erano avvezzi.
La fame è come una malattia non solo fisica, che inizia a minare l'animo, la sicurezza, la fiducia in sé stessi. Chi, prima, era abituato a nuotare nell'oro, reagiva ora, a questa assurda situazione che la città stava vivendo, con molta minor dignità.
Tanti nobili decaduti, come i famosi barnaboti che nessuno ormai avrebbe più potuto aiutare, furono costretti realmente a mangiare l’erba che cresceva nei cortili o tra i masegni e non si vergognavano a manifestare pubblicamente e indecorosamente la propria disperazione. Ma i poveri, quelli della fame endemica dimostravano, quando fosse possibile, maggior forza d’animo.
Chissà qual’ è il vero significato della parola "nobiltà"? In quei giorni, a Venezia, i veri nobili sembrava che fossero proprio loro, gli ultimi, i poveri, i diseredati.

Ogni casa, allora, si trasformò in un laboratorio da fornaio.
Pompeo, che era tornato a lavorare nella tipografia del suo giornale, correggeva bozze e "ispirava" articoli agli altri, visto che di suoi non ne poteva ancora scrivere.
Per quella sede, però, passavano tutte le informazioni che si riuscivano ad ottenere, sia circa la situazione interna, sia di ciò che succedeva fuori dalla laguna, ormai isolata dal resto del mondo.
Compilò il solito conteggio, sempre disgraziatamente sbilanciato in favore di nostra sorella morte.
"Dal 25 al 30 novembre 1813, a Venezia sono nati 56 individui e ne sono morti 172."
Il numero dei decessi dovrà superare, di molto, quello delle nascite, per tutto il periodo del blocco.
Ma ciò che stupiva Pompeo, in realtà, era il fatto, di per sé miracoloso, che continuassero a nascere ancora bambini.
Il numero del 5 dicembre, ormai pronto per la stampa, iniziava, nella pagina della cronaca locale, con queste parole:
"Tutte le famiglie veneziane sono impegnate a sfornare pane, di giorno e di notte. Se ne producono incredibili quantità."
Questo la dice lunga su quanto poco facilmente si abbattessero i veneziani incarcerati in laguna: la voglia sopravvivere esortava tutti, indistintamente a darsi da fare. E tutti i sistemi erano buoni, visto che da quei forni uscirono pagnotte, biscotti pane dolce; tanti alimenti nuovi furono inventati in quel periodo, dolci e salatini che continueranno ad essere di moda anche tra i palati sofisticati di due secoli dopo.
Ma iniziava a mancare la materia prima, perché, nonostante le scorte, la farina stava diventando introvabile.
Anche stavolta, comunque, si riusciva a trovare dei colpevoli; nel numero successivo, ecco la notizia:
"Da oggi, gli abitanti della laguna potranno mangiare solo pane nero (malsano e pesante), l'ingordigia dei fabbricanti fa temere che, in seguito, la qualità sarà peggiore."
D'altronde il governo, con un decreto a data dello stesso giorno, aveva vietato la fabbricazione di pane bianco.

Al mattino dell'8 dicembre, nella redazione del giornale, giunse la notizia che la polizia aveva arrestato tre militari italiani - arruolati nell'esercito francese - considerati disertori, assieme a due battellanti che li avevano aiutati a fuggire.
Pompeo storse la bocca in un sorriso sforzato. Gli faceva piacere sapere che, a quel punto, le diserzioni si stavano moltiplicando. Sapeva anche che molti uomini erano riusciti a fuggire, consegnandosi a inglesi ed austriaci o, semplicemente, tornando alle loro case. la maggior parte erano italiani che, di combattere per la Francia, ormai ben poco gli interessava.
Però il giornale era autorizzato a dare la notizia solo quando i disertori venivano catturati. Non si doveva "minare" il morale della truppa, se mai ce ne fosse stato bisogno, perciò il direttore aveva avuto l'ordine di non menzionare mai le infinite fughe riuscite.
Ma, nello stesso foglio, veniva riportata con enfasi la notizia che le pene per i disertori erano durissime, che chi fosse stato trovato a vendere vestiti borghesi ai militari l'avrebbe pagata cara, che i battellieri trovati a trasportare disertori sarebbero stati messi a morte.
E la notizia che Pompeo dovette correggere e far pubblicare, quattro giorni dopo, fu proprio quella che parlava della pena inflitta a chi aiutava a scappare, prima ancora che ai disertori:
"Venezia 12 dicembre 1813, i due battellanti che hanno aiutato tre militari dell'esercito francese a disertare, sono stati fucilati questa mattina. Avevano 18 e 21 anni."
Ormai, nonostante le reazioni terribili, le diserzioni erano divenute inarrestabili.
Per far fronte a tutte queste fughe, necessitavano sempre nuove leve. Il giorno 15, giunse la notizia che venticinque detenuti per reati comuni, vennero scarcerati dalla casa di correzione ed avviati a servire, immaginiamo con quanto zelo, l'artiglieria di marina.
Uno dei disertori catturati era un giovane di ventitre anni, figlio di un noto avvocato bolognese. Forse per questo i due barcaroli che lo avevano aiutato a fuggire (erano due gondolieri), erano già stati giustiziati qualche giorno prima. Egli aveva creduto di servire l’esercito della rivoluzione, che avrebbe portato la democrazia tra i popoli, mentre gli altri due commilitoni erano stati coartati dalle leggi di leva. Quando aveva capito che razza di rivoluzionario fosse il signor Napoleone Bonaparte, imperatore più imperialista degli imperatori dell’impero centrale, alla faccia di libertè egalitè e fraternitè, peggiore degli zar e del crucco, aveva convinto anche gli altri due ad andarsene…tanto ormai era tutto finito.
In fin dei conti, qualche mese prima - anche se a Venezia ancora non era arrivata la notizia - Napoleone era stato sconfitto a Lipsia dalle potenze coalizzate ed ormai la sua fine era vicina.
Il ragazzo avrebbe voluto raggiungere la sua famiglia a Bologna, e gli sarebbe bastato uscire da Venezia per trovare la libertà: poche vogate fino ai margini della laguna. Ma fu catturato dal suo stesso esercito, e non c’è nulla di più spietato – lo insegnerà la Storia più avanti – di un esercito in rotta, con generali falliti e per questo più cattivi, con sergenti e marescialli che hanno sete di sangue prima di terminare la loro guerra perduta. E venga la pena di morte per i disertori, specialmente per chi fugge dalle guerre sbagliate.
I tre giovani vennero fucilati all’alba, in una città in cui si stava morendo di freddo e di inedia, il giorno 17.
Pompeo era in tipografia, un piccolo locale dove si scriveva, si decideva, si stampava, in campiello dei Meloni al numero civico 1373, dopo il campo san Silvestro.
Il signor Graziosi, direttore e padrone, visibilmente imbarazzato, dovette avvisare i suoi collaboratori che, di lavoro, ce ne sarebbe stato molto meno. Le poste si erano "arenate", e di notizie ne giungevano sempre meno. Diede l'incarico di pubblicare, in testa al numero del 22 dicembre, questo avvertimento:

"Gli editori, visto l'arenamento delle poste, ritengono opportuno pubblicare il giornale solo due volte alla settimana, in luogo delle tre uscite settimanali, almeno fino a che non si riapra il libero corso dei corrieri."

Il termine "corrieri" rievocò, al giovane, ricordi ch'egli credeva caduti in un oblio definitivo. In quell'istante, gli vennero in mente le gite compiute a piedi e, quando le cose andavano meglio, in carrozza, nell'entroterra e nelle magnifiche cittadine venete, Asolo, Castelfranco o in quelle lungo la costa d'Istria, come la splendida Parenzo. Viaggiare, negli ultimi tempi, era diventato sempre più difficile, ma qualche giro, assieme al padre e al fratello Giovanni, lo aveva ancora potuto fare.
Adesso che stava richiuso in laguna, gli sembrava di vivere in un carcere di grandi dimensioni, assieme ad altre decine di migliaia di detenuti: ancora di più, come è ovvio tra le persone normali, sognava di potersi muovere liberamente, di andare lontano.
Uscì, camminò sulla riva del vin, lungo il canal grande in vista del ponte di Rialto.
Stette a lungo ad osservare i gabbiani, liberi, che volavano un po' in acqua e un po' nel cielo. Anche loro erano morti di fame ma, pensò, essi non dovevano pagare le colpe, orrende, degli uomini.
Forse per quel motivo Dio Misericordioso li aveva dotati di grandi ali.
Arrivò la vigilia di Natale, la situazione s'era fatta, per tutti indistintamente, disperata.
Almeno così la pensava Pompeo ma, aggirandosi guardingo per la città, dovette ben presto ricredersi. Tornò a casa e segnò, nel suo diario:

"24 dicembre, Se fosse arrivato uno straniero non avrebbe creduto che la città è in stato di blocco, il buon umore è impresso sulle facce della gente, si è speso e mangiato secondo il costume degli altri Natali. I negozi sono pieni di grascie e ghiottonerie e si è gozzovigliato come se tutto stesse andando bene. I teatri hanno registrato il pienone ogni sera. sono aperti il san Moisè ed il san Benedetto."

"Mah...- pensò sconsolato – forse è meglio così, agitarsi e piangere non ha mai risolto nulla…però, un po’ di incoscienza in meno ci farebbe bene.”
Il 28 uscì il giornale e, per l’anno 1813, sarebbe stata l’ultima volta.
Mentre se ne tornava a casa scorse, in lontananza, la figura piacevole di Myriam, la ragazza del ghetto, che scherzava divertita con alcuni soldati francesi. Ebbe un tuffo al cuore. Immaginò, forse malignando, ciò che la ragazza avrebbe concesso loro. Forse, sarebbero andati tutti in qualche posto nascosto ed avrebbero fatto le porcherie.
Senza averne diritto si sentì male, quasi da impazzire, e capì quanta importanza potesse avere per lui quella ragazza figlia di un popolo tanto differente…ma quanto grande fosse questa differenza non gli riusciva ancora di calcolare.