Nostalgia del futuro
di
Pier Angelo Piccolo
Attraverso
le spesse lenti del binocolo, appoggiato con la pancia a terra
dall’alto del colle, Fulvio scrutava i grandi movimenti a fondo
valle.
“Ormai
– disse, rivolgendosi con calma a Roberto, in piedi e lí
vicino – gli ultimi tedeschi se ne sono andati, probabilmente non
li vedremo piú,
mai più.
Che tornino nelle loro tane, noi possiamo ritornare al casolare e
presto torneremo nelle nostre case.”
Tedeschi
in fuga, le bestie terribili, orde selvagge, scappavano come maiali
impazziti mentre, da lontano, stavano sopraggiungendo gli eserciti
liberatori. Finalmente, la guerra era al termine del suo percorso di
morte, sofferenze e sangue, quello innocente e quello colpevole.
Scendendo
lungo il tratturo sulla collina, Il passo dei due giovani, nel
raggiungere la loro brigata, era rilassato e i loro occhi erano pieni
di futuro e lo vedevano e prevedevano tutto, radioso e felice, non
come avvenne alla loro giovinezza.
Ma,
d’improvviso, udirono un terribile fischio, uno sparo dietro di
loro.
Un
proiettile sfiorò
la spalla di Roberto. Non fece in tempo ad imbracciare il fucile, che
un soldato tedesco dietro di lui, comparve all’improvviso e li
minacciò
di morte.
“Fermi,
immobili” intimò
sbucando dal bosco, egli parlava un italiano quasi corretto, dopo di
lui arrivò
un altro soldatino nazista, con la pistola in pugno.
I
due ragazzi furono presi in modo orrendo e portati verso un autocarro
nascosto, perfettamente, nella scura boscaglia.
“Entrate
qui dentro, banditi italiani e pregate per l’anima vostra. Siete
arrivati. La vostra vita finisce adesso, ma prima dovrete soffrire.”
Fulvio
e Roberto videro infrangersi, angosciosamente, i loro sogni, la loro
vita, l’avvenire del mondo.
Un
lungo brivido di morte percorse i loro giovani volti, quando, una
volta entrati nel cassone del veicolo, si accorsero che questo era
pieno di bare, orribili casse da morto in legno scuro. Due di queste
erano scoperchiate e aperte per loro.
”Entrate
schifosi e vigliacchi traditori italiani, queste sono le vostre bare.
Qui passerete l’eternità,
dopo che vi avremo torturati e uccisi.”
Fulvio,
con le mani legate dietro la schiena, fu invitato a sedersi dentro la
sua triste cassa mortuaria, ma Roberto si ribellò
e iniziò
a divincolarsi, mentre Karl, il tedesco che parlottava italiano,
stringeva il legame e lo bastonava col calcio del fucile. Otto,
l’altro nazista che sembrava piu’ cattivo, se mai si può
esser piú cattivi di un altro nazista, gli
aprí
la fronte col calcio della sua pistola e lo distese nella bara a lui
destinata. Con orrore del ragazzo e davanti allo sguardo terrorizzato
di Fulvio, venne chiusa la bara e sigillata immediatamente, mentre le
urla del malcapitato avrebbero raggelato il sangue a chiunque.
Ridendo
e cantando le loro orribili litanie, i soldatini misero in moto il
camion e partirono verso nord, verso le loro fredde e barbare terre.
I
due tedeschi guidavano veloce e bevevano birra. Le strade erano
sgombre e pensavano o speravano che, in meno di mezza giornata,
avrebbero raggiunto la coda del loro esercito in disfatta. Una armata
di folli che, dopo aver messo a soqquadro la penisola italica e il
mondo intero, tornavano sconfitti, cornuti e bastonati al loro paese
distrutto dall’aviazione alleata.
Karl,
alla guida dell’automezzo, freno’ di colpo quando vide un albero
a terra che invadeva mezza carreggiata, Otto si verso’ la birra sui
calzoni. Cerco’, a bassa velocità,
di evitare il tronco, sterzando a sinistra.
Fu
a quel punto che un proiettile infranse il vetro del cruscotto. I due
si toccarono per vedere se fossero stati feriti. Si trovarono
circondati da tre banditi col fazzoletto azzurro sulla bocca, un uomo
altissimo e con il mitra puntato sui loro denti, gli intimo’ di
uscire.
I
tedeschi vennero fuori dall’abitacolo piú
che terrorizzati.
“Cosa
trasportate dietro, nel cassonetto. Ci sono altri soldati?” Chiese
l’uomo col fazzoletto azzurro al collo.
Dal
terrore non seppero rispondere. Otto sentí,
dentro i suoi pantaloni già sporchi di birra, anche i suoi
escrementi liquidi.
Le
urla di Fulvio richiamarono il capo brigata, mentre gli altri due
legavano i tedeschi come salami.
“Antonio
- urlò Fulvio - Presto, liberate Roberto che sta per soffocare
dentro la cassa.”
Antonio
era il capo della brigata “Doman”, che in dialetto veneto furlano
significa “Domani”, ma anche il cognome di Eugenio Doman, il lor
ex comandante, torturato a morte dai tedeschi e dai repubblichini
l’anno prima.
Dopo
aver sistemato i soldati nazisti, gli altri due partigiani, Salvatore
e Menego, andarono a liberare i loro due commilitoni di brigata.
Fulvio fu liberato all’istante con un affilato coltello che recise
le corde alle mani, ma l’apertura della cassa fu un tantino piu’
complicata.
I
due ragazzi non poterono trattenersi dal ridere quando, una volta
aperta la cassa videro il volto stravolto del loro amico, che già
aveva i capelli bianchi e sangue a fiotti.
Roberto
uscí dal suo sepolcro e andò a prendere a calci sugli stinchi i due
tedeschi. Egli stesso prese Otto, quello che se l’era fatta addosso
dalla paura e lo mise dentro la bara e, senza l’aiuto di nessuno,
lo chiuse dentro, mentre quello urlava terrorizzato e vomitava.
Si
impossessarono del camion e delle casse da morto.
Adesso
si tornava al campo dei partigiani. Dopo cinquecento metri, però,
fu lo stesso Roberto a fermare il camion e a liberare il tedesco
chiuso nella cassa.
“Non
fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.” Ripeté a
se stesso, citando le parole di un Signore nato 1945 anni prima. Ma
soprattutto non volle che altri esseri umani provassero gli orrori e
la paura che egli ebbe modo di provare prima.
Quando
il camion giunse al campo base, tra le montagne friulane, gli altri
uomini della brigata vennero ad aiutarli a sistemare i prigionieri e
a chiedere cosa fosse successo.
Antonio
aprí una delle bare che stavano nell’autocarro, destinate in
Germania, per vedere cosa contenessero. Impallidí quando si accorse
che quella bara, come tutte le altre, era piena di armi da fuoco,
mitra, fucili, granate, bombe modernissime, proiettili.
Antonio
si mise subito, allora, in contatto con i capi azionisti, ma seppe
che avrebbero dovuto aspettare la decisione dei delegati riuniti in
curia, dove stavano incontrando il Patriarca della citta’. La
decisione che presero non piacque ad Antonio. Gli venne detto di
aspettare l’arrivo di Giuseppe Montanari con la sua brigata di
confine. Sarebbero stati loro a prendere in consegna le armi trovate
nella cassa da morto.
Ad
Antonio non piaceva Giuseppe. Sapeva che la brigata comunista che
comandava, aveva rapporti con i partigiani che stavano al di là
dell’ Italia.
Conosceva
i loro metodi e le nefandezze che combinavano e non solo contro i
militari dell’esercito nemico. Soprattutto, era venuto a sapere che
Giuseppe prendeva ordini non dalla Resistenza italiana, per quanto
anche socialcomunista, ma direttamente dalla dirigenza sovietica.
Forse da Stalin in persona.
Ma
a lui che importava? Quelle armi non avrebbero potuto tenerle loro,
una manciata di partigiani disorganizzati e poco assistiti dal
comando. Avrebbe aspettato che fossero venuti a prenderle e a
portarsi via quelle casse da morto.
Intanto,
c’era da pensare a cosa fare dei due prigionieri tedeschi e
organizzare il prossimo rifornimento di viveri.
Di
solito era Salvatore, il piú giovane, a fare la staffetta con il
paese e procurarsi le vivande che molte famiglie e contadini
mettevano a disposizioni di quei partigiani, tanto diversi da altri
gruppi di Resistenza, avezzi a prendersi da soli il cibo dalle povere
famiglie contadine e senza ringraziare.
Salvatore
veniva dal Sud della penisola. Si era trovato in terra di Friuli
quando l’esercito si era sbandato per colpa del Re d’Italia che,
montato in macchina, era scappato al meridione, abbandonando il
popolo italiani ai casi suoi e alle angherie dell’esercito dei
nazisti.
Non
sapeva come stessero i suoi, il giovane, ma era informato che i
tedeschi se ne erano andati presto dalla sua cittá.
Nel
campo base, tra le montagne franose di Osoppo e lungo il fiume
Tagliamento, La brigata Doman operava in maniera intelligente e mai
crudele, la popolazione aveva molta fiducia di loro e del capo,
Antonio, un vero intellettuale e politico raffinato, orgoglio della
intelligenza italiana. Uno che avrebbe fatto la differenza nella
classe politica dell’Italia risorta, se mai fosse risorta.
Roberto,
non ancora ripresosi dalla mezza sepoltura, passava le giornate a
parlare coi due giovanissimi tedeschi, vedendo come,
sorprendentemente, ascoltavano le sue belle parole di cristiano
liberale e illuminato, i suoi insegnamenti e si rendevan conto, ogni
istante di piu’, di quanto orribile e insulsa fosse stata
l’educazione fino ad allora impartitagli dai gerarchi nazisti.
Capirono
che basta poco per iniettare odio, ma ci vogliono menti e anime come
quelle di Roberto o di Antonio per insegnare l’Amore e la Libertá.
Menego
e Fulvio, forti boscaioli, erano quelli che raccoglievano altri
partigiani tra le persone disperse. Furono loro a reclutare Paolo e
Marco, due ragazzi ebrei scampati alla strage della loro famiglia e
un loro zio, che i due chiamavano cosí, ma che, dalla grande Cultura
che professava, Antonio sospettava fosse stato un importante rabbino.
Qualche
giorno dopo, Menego era tornato dal bosco a fare legna, quando
incontrò i due giovani ragazzi spaventati e l’uomo. Gli chiesero
aiuto e gli dissero di essere scappati da un treno nazista fermatosi
alla stazione di un paesino lí vicino per far acqua, che si stava
dirigendo, carico di tutti i loro amici e i loro parenti di religione
ebraica, verso il confine austriaco. Con loro stava un giovane russo,
che ancora nessuno aveva capito come fosse arrivato lí.
Menego
li condusse con sé al campo dei partigiani, sicuro che spie, almeno,
non avrebbero potuto essere.
Bella
e strana la brigata “Doman”, che Antonio definiva “la Nostalgia
del futuro”, fatta di guerrieri che tutto avrebbero voluto, fuorché
la guerra, ma tanto i migliori combattenti sono quelli che anelano
alla pace.
La
sera passava tranquilla al casolare, bastava un uomo di guardia che,
tanto ormai, pochi rischi si sarebbero corsi.
Eravamo
già ad Aprile e il 1945, anno stupendo, avrebbe sicuramente portato
la Pace.
Seduti
fuori, anche se non faceva tanto caldo, nell’aria piena di
speranza, gli uomini si raccontavano le loro storie e si discuteva
degli anni che sarebbero arrivati.
Juri,
il ragazzo russo, raccontò la sua storia a tutti. Egli non aveva
nessuno che lo aspettasse in Russia e i suoi erano stati uccisi da
Stalin durante uno dei tanti repulisti staliniani.
Aveva
deciso di scappare dall’Armata rossa, dove prestava servizio
insieme ai partigiani titini, mentre la sua armata era andata a dar
man forte al confine italiano. Poi appena riusci’, scappo’ in
italia attraverso i monti e si era venuto a trovare in quelle lande.
Li’
aveva incontrato gli altri due e si erano messi insieme a cercare un
rifugio.
I
due ragazzi ebrei con lui, erano Giacomo e un tipo molto strano,
Andrea, che parlava pochissimo e dimostrava una timidezza esasperata
lo zio. I tre disperati sembravano terrorizzati da tutti e
raccontarono come furono caricati, in quel treno, dai soldati.
Dissero, tutti loro, di non ricordare nemmeno da quanto tempo
vagassero per i monti.
Si
Parlava di Cultura e di Arte e Antonio teneva vere e proprie lezioni
universitarie ai suoi uomini. Anche i due tedeschi ne erano
catturati.
Quando
parlò il grande rabbino, con i racconti che fece e che lasciarono
tutti a bocca aperta, si capí che, in quel casolare, c’era un
grande concentato di conoscenza e saggezza.
La
notte si andò a dormire tranquilli. Solo Salvatore, affascinato da
Andrea, volle stare vicino a parlare. Gli sembrava di averlo sempre
visto. Subiva il suo fascino e non ne capiva il perché.
Fuori
frinivano le cicale e le stelle brillavano particolartmente. Dopo due
ore che i due parlavano, Giacomoche sembrava dormisse, si rivolse ad
Andrea, sussurrando:
“Diglielo
pure.” E si voltò a dormire.
Cosa
avrebbe dovuto dirgli?
Come
risposta, Andrea diede un bacio in bocca a Salvatore. A lui piacque
moltissimo. Poi sentí in Andrea un certo rigonfiamento al petto.
“Sono
una ragazza - gli disse senza togliere la lingua dalla bocca –
baciami, mia mamma mi ha vestita da uomo per non farmi violentare dai
tedeschi.”
Cosí,
mentre fuori il mondo si faceva la seconda guerra mondiale e i
partigiani nel casolare dormivano russando sottovoce, i due ragazzi
facevano l’amore, la cosa piú bella del mondo.
Al
mattino presto, Fulvio, che era di guardia, svegliò i suoi amici.
Rombavano
in lontananza i mezzi dei partigiani rossi, che cantavano
“L’internazionale”, venuti a prendersi le armi.
Tutti
vennero fuori a guardare.
Uscí
saltando dal Camion il capo, Giuseppe Montanari, alto e forte, due
spalle enormi, sembrava il Maresciallo Tito. Antonio lo salutò e lo
accompagnò al camion con le armi nelle bare, sperando che se ne
sarebbe andato al piú presto. I compagni erano tutti alti, forti,
armatissimi e guardarono con scherno la strana brigata “Doman” di
cui tutti avevano sentito parlare.
“Ciao
Antonio – gli disse guardandolo con sfida – allora? So che i
libri che scrivi piacciono a tutti. Tra poco la guerra sará finita e
ne venderai tanti, sarai ricco.”
“Lo
sarei giá – ribatté Antonio – se non avessero cominciato a
bruciarmeli”
“Eh
i nazisti” Disse Giuseppe.
“Anche
i comunisti” Rispose, togliendogli il sorriso dalla bocca.
In
realtà, gli scritti di Antonio denigravano ogni forma di
totalitarismo. Non piacevano né ai fascisti, né a molti comunisti.
Era
riuscito a farli pubblicare e a passare ogni confine. In America
erano arrivati, i suoi scritti e i suoi saggi fantastici, terra della
Libertà. Anche se molte cose, Il grande Antonio contestava, pure di
quella meravigliosa e ricca società. Ma gli americani lo conoscevano
benissimo e lo avrebbero voluto con loro e da molte parti si parlava
di un premio Nobel per lui.
Anche
nel futuro governo italiano lo avrebbero voluto tutti, forse anche
molti comunisti. Ma non Giuseppe Montanari.
“Signor
Comandante guardi. Compagno Giuseppe abbiamo trovato costoro.”
chiamò ad alta voce uno degli uomini.
“Che
c’é?”
“Questi
della “Doman” hanno con loro due tedeschi catturati e non ci
dicono niente. Oltretutto a piede libero.”
Roberto
disse che li stava “rieducando”.
Giuseppe
mise mano alla pistola e poi, stranamente, si fermò.
“Lascia
che se li tengano loro.”
Mandò
due uomini a impossessarsi del camion con le bare con le armi; tutti
gli altri grossi automezzi, in un densissimo fumo di marmitte, si
prepararono ad uscire dal campo partigiano “Doman”.
Ma
da una camionetta, quella che stava in ultima fila, uscí il
telegrafista. Tutto tacque, fu un silenzio inquietante.
Si
diresse all’inizio della fila di camion e parlò con Giuseppe.
Giuseppe
fece subito dei cenni nervosi al suo vice.
Si
notò che gli altri partigiani rossi, strafottenti, erano diventati
pallidi.
Qualcuno
chiese: “Sicuro?” che subito venne zittito dagli altri.
Giuseppe
si avvicinò ad Antonio e gli disse con molta determinazione:
“Queste
armi dobbiamo portarle ad una destinazione segreta.”
“E
a noi che ci frega?” Rispose Antonio.
“Voi
non dovete saper dove siamo diretti, questo é l”ordine. Dovete
girarvi tutti e non vedere nemmeno da che parte andiamo.”
Antonio
rise e ordinò a tutti gli uomini e alla donna di cui ignorava il
sesso, di girarsi e di non guardare assolutamente dove fossero
diretti i camion.
In
cuor suo, non sperava altro che se ne andassero e di non vederli mai
piú.
“Buona
giornata a tutti.” Urlò il sosia del Maresciallo Tito. Ma c’era
silenzio e i compagni non cantavano l’inno Internazionale o
bandiera rossa. I partigiani azzurri rimasti a terra non sentirono
che il rombo dei motori che se ne stavano andando. Poi si udí, per
pochi secondi, la sventagliata di un mitra.
Ma
solo per pochi secondi, poi ci fu il buio e il sonno eterno per
tutti, cristiani ed ebrei, uomini e ragazza, tedeschi, italiani,
russi. Buio e nessun paradiso di nessun tipo. Restò solo l’inferno
della terra. Fulvio ancora si muoveva, anche Otto. Furono graziati
con due soli colpi di pistola.
Al
comandante Dorchester, maggiore della Quarta Armata dell’U.S.A.
Army, nativo del New Jersey, apparvero strani quei corpi a terra
senza vita, che si trovò davanti, quando stava risalendo, coi suoi
uomini, l’Italia e, arrivato al Friuli, estremo Nord, avrebbe
pensato di aver finito di vedere orrori.
Secondo
il Tenente Stanley, un bel ragazzo del Montana, c’era qualcosa che
non convinceva in quell’eccidio. Era un medico e ispezionò quei
corpi immediatamente. Con lui il caporale John Harvey, quasi medico e
Salvatore Amoroso, un dentista italo americano, venuto
volontariamente a liberare il suo paese.
Dissero
al Maggiore che erano morti tutti nello stesso momento e uccisi da
colpi partiti dalla strada, molti di loro erano ebrei,affermò, dopo
aver controllato il prepuzio circonciso. Poi una donna. Un russo, con
documenti dell’Armata Rossa e due tedeschi che non erano
prigionieri. Qualcuno degli ebrei aveva tatuato dei numeri
sull’avambraccio.
Ma
la cosa che colpí molti ragazzi americani scesi a guardare la scena,
era l’aver riconosciuto tra i massacrati, il grande Antonio
Migliacci, uno scrittore famoso in America. Capirono che era il capo
partigiano, per cui stabilirono che quella era proprio una vera
brigata della Resistenza e, dai fazzoletti azzurri, si capiva che
erano democratici e azionisti.
Il
Maggiore Paul Dorchester, arguí che non i partigiani azzurri non
potevano essere stati vittime dei nazisti. Per le armi che li avevano
uccisi e perché non si notarono segni di resistenza, quando intorno
era pieno di fucili.
Diede
ordine di raccogliere le salme e di caricarle in camion, le avrebbero
deposte al primo Comune di paese che avessero incontrato.
Dopo
aver pregato per tutti loro.
La
guerra era quasi finita. Gli uomini combattenti avrebbero dovuti
tornare in America.
La
loro morte resterá un mistero, un mistero per sempre.
L’Italia
e il Mondo Civile avrebbe fatto a meno di un uomo importante e
grande, Israele che nasceva, avrebbe fatto a meno di un meraviglioso
rabbino. La fragile democrazia italiana, non avrebbe avuto quella
decina di uomini e donne che, per difenderla, non si sarebbero
fermati davanti a nulla.
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