STUPEFACENTE
Il
racconto di Ugo e di una vita sregolata
“Per
salire al cielo necessita una scala grande”
“Para
subir en el cielo se necessita una escalera granda”
(
Valens, la bamba)
Ieri,
Quando
entrai in quella candida cameretta d’ ospedale, mi sembrò di
scorgere in lui un bambino nato pochi istanti prima, anziché un uomo
di neanche sessant’anni stanco, stremato, ormai alla fine dei suoi
giorni.
Cercava di
esprimersi con piccoli gesti, gemiti e grugniti, eseguiva proprio
quegli stessi movimenti del corpo che avrebbe composto un tenerissimo
neonato scalciante.
Era
l’effetto delle droghe che gli avevano somministrato per placare la
grande sofferenza. Chissà mai, valle a contare, quante e quali
droghe avrà consumato durante tutta la sua bizzarra esistenza
terrena ? Allora, io tentai in tutti i modi di parlargli, di
comunicare con lui, ma egli continuava a fissarmi quasi sorridente,
senza comprendermi, anche se so che cercava di farlo … così come
fanno le piccole creature.
Uscii
dalla sua cameretta e mi consultai col primario. Costui, un
distinto professionista di mezza età e dall’aria benevola, mi
guardò con rispetto, sconfortato.
“Lei
è..... il fratello? - chiese - mi spiace tanto dirglielo, però io
non credo … che arriverà fino a domani.”
Lasciai
il medico, fissai per un minuto la porta chiusa della stanza in cui
Gipsy stava consumando la sua agonia, non ebbi più il coraggio di
entrare per rendergli l’ultimo saluto. Da allora non l’avrei più
rivisto vivo, quel mio grande fratello … no, mai più.
Era da poco
tornato dall’Ecuador, perché aveva deciso di venire a morire in
Italia.
Vi
parlerò di Gipsy e non di me, perché della mia vita c’è assai
poco da esporre - ringraziando Dio per questo - e perciò sarà lui
il protagonista della storia che vi racconterò questa notte. Io ho
vissuto un’esistenza tranquilla, normale e a volte serena, anche
se non sempre … in realtà non è successo molto di cui discutere o
far stupire gli amici. Perciò, prendo a prestito la sua vita e ve la
narrerò per quanto possibile. Son certo che essa sarà molto, ma
molto più interessante e coinvolgente.
Anni
novanta,
Che ci
faceva Gipsy in Ecuador? Era lì solo per caso, perché l’avevano
arrestato mentre passava il confine dal Perù (paese nel quale aveva
vissuto per circa vent’anni, con addosso una certa quantità di
coca nello zaino. )
Lo
avevano rinchiuso per tre anni in un orribile carcere nella Capitale
Quito.
Una
tortura inumana che non augurerei a nessuno. Non c’era letto, ma
dormiva nella nuda e sporca terra di quella cella. Gli davano da
mangiare quando si ricordavano. Delle medicine da prendere per la sua
terribile malattia, la “peste del duemila” della quale morirà
come vi ho anticipato, nemmeno l’ombra.
E per tutto
il tempo in cui fu rinchiuso di lui non si seppe nulla. I compagni di
cella erano bestie che non lo lasciavano mai dormire. Le terribili e
spietate guardie carcerarie si divertivano a torturarlo,
psicologicamente e fisicamente.
Un
giorno gli dissero:”vai, sei libero.” Lo fecero vestire,
prepararsi, lo fecero uscire dal carcere, poi lo tirarono dentro per
i capelli e lo pestarono, lo chiusero di nuovo dentro: piaciuto lo
scherzetto?
La moglie e
le figlie, ancora piccole, che continuavano a vivere in Perù, a
Lima, avevano perso ogni traccia del padre, tanto che si misero a
cercarlo tramite la trasmissione:
“donde
estàs?” un format radiofonico peruviano per cercare i propri cari
spariti. Credo ce ne sia uno anche in Italia.
Ad un
certo punto, la sua famigliola decise di ritornare in Italia, che
ormai nel paese andino non c’era motivo di restare, insieme
provammo al “Chi l’ha visto?” televisivo italiano, ma non ce ne
fu bisogno.
Infatti, La
nostra ambasciata di Quito mi inviò un messaggio: “Egregio
Signore, la avvisiamo, se non lo ancora non lo avete saputo, che il
signor Gipsy è qui, rinchiuso in un penitenziario”
A
dire il vero, già lo pensavamo morto (infatti nel messaggio di posta
elettronica che inviarono solo a me, poiché portavo, e porto, il suo
stesso cognome, visto che con la compagna, che chiamiamo moglie per
convenienza, non l’aveva manco sposata, interpretai la parola
“detenuto” come “deceduto” e per qualche secondo lo pensai).
Nessuno si
sarebbe meravigliato se avessero trovato il suo cadavere in qualche
anfratto delle vette andine o mangiato dai pesci dell’Oceano
Pacifico, ma non era ancora venuta la sua ora, anche se poco ci
mancava.
Venne
rincasato con un volo a spese dello Stato, che riuscì, tramite
l’Ambasciatore italiano, a convincere il governo ecuadoregno a
rilasciare il morituro dopo tre anni, anziché fargli scontare gli
otto cui l’avevano condannato.
Quel
giovanotto che era partito dall’Italia gagliardo e sempre in tiro
(di coca), scese dall’aereo del ritorno, all’aeroporto Marco Polo
di Venezia, ridotto come un vecchio mendicante che si reggeva a
fatica su di un grosso bastone. Avrebbe avuto ancora pochi giorni di
vita.
E Pensare
che in Perù aveva fatto fortuna.
Il
continente sudamericano ti presenta immagini e genti che non
t’aspetti, neanche se sei un viaggiatore incallito e consumato.
Quando lo vedi dal basso, il Perù è un’insieme di
trecentosessanta microclimi diversi, praticamente uno ogni giorno
dell’anno. Dall’interno della giungla densa e nera, attraversata
dai fiumi più grossi del mondo, abitata da genti fuori dal tempo,
passi ad un deserto di sabbia e pietra, con i suoi resti di età
antiche e sconosciute, cariche di leggende oscure, e ti inerpichi
sulle montagne altissime, impervie, piene di casette che sembrano
giochi per bambini, di abitanti variopinti nei loro tessuti che
paiono petali di fiori, gli stessi che vedi sulle colline.
Anche il
solo arrivarci è fantastico: dall’alto dell’aereo, dopo aver
attraversato l’immensa foresta, passi sopra i ghiacciai eterni. Ti
parrà impossibile che, dalla più alta vetta di queste montagne, in
pochi secondi, vedi, sotto di te, l’azzurro dell’oceano. L’aereo
entra per pochi minuti sopra la distesa blu del Pacifico, che pare
inabissarsi nel grande mare, poi ruota di centoottanta gradi e punta
verso la capitale, brulicante di uomini -formiche, la città di Lima.
C’era
arrivato nel 1992, a Lima, perché sua moglie aveva vinto un concorso
importante per insegnare alla scuola italiana della capitale. La
seguì e, con la sua intraprendenza, riuscì ad aprire un pub proprio
nel bel quartiere di Barranco, sul lungomare di Lima, centro della
vita notturna e alternativa della capitale peruviana.
Aveva
semplicemente affittato una vecchia casa coloniale in due piani,
colorata di azzurro, ed aveva iniziato a preparare pietanze
tipicamente venete. Diffondeva per tutto il giorno musica italiana. I
clienti si dovevano mettere in coda per entrare. Vendeva birra e
faceva soldi a palate. Aveva acquistato, per la sua famiglia, una
casa grandissima, con una bella piscina, in un giardino tropicale che
si affacciava proprio fuori dalla porta del salotto.
Possedeva
due cani bastardini, un gatto bianco e nero, quattro mici e due
pappagalli coloratissimi. Di solito essi, questa fauna mista,
mangiavano in una ciotola tutti assieme.
Il
suo insperato e grandio sosuccesso però, come accade anche nel resto
del Mondo, suscitò invidie in quelli (nativi locali, non immigranti
italiani come lui), che esercitavano il commercio vicino alla sua
favolosa e fortunatissima bottega, mal sopportando la sua
concorrenza. Questi, allora, non mancarono di fargli la guerra fino,
in seguito, a distruggerlo.
Quando lo
andai a trovare a Lima, nella sua splendida casa, perché erano nate
le bambine, ebbi modo di rilassarmi consultando la sua biblioteca con
numerosi libri, adagiato nel dondolo del suo giardino ombreggiato da
palme, servito da tre cameriere peruviane, una delle quali fu con me
molto gentile, graziosa, generosa e fin troppo disponibile.
Ma
poi la droga: tra un tiro e l’altro ti rovina la vita, la salute,
le finanze. A lui, alla moglie … distruggendo la famiglia. In poco
tempo tutto finì.
Il
terzo millennio iniziò, per lui, con tanti e tanti guai: la polizia
lo arrestò e lo condannò a qualche mese di carcere, perché nel suo
bel parco tropicale verdeggiava una piantina di (quasi innocua)
mariagiovanna , (con tutta la coca che girava in quel paese) e da lì,
poi, la rovina del negozio, che i suoi concorrenti riuscirono a
fargli chiudere, perché il gabinetto riservato ai clienti misurava
un metro quadro meno del consentito. Anziché aspettare che lo
restaurasse, l’Alcalde, cioè il sindaco, cognato di uno dei suoi
concorrenti, fece porre i sigilli all’ingresso del suo pub.
Il
distacco dalla moglie, l’amore per un’ altra donna peruviana che
l’aveva sedotto, “sì perché cara Serena - (si
rivolse alla ragazza africana che lo
ascoltava
a bocca ben aperta),
“i riti di magia nera non li fanno solo in Africa: le maghe ci sono
dappertutto.”
Quando lui
uscì dal carcere peruviano, dopo pochi mesi infatti, la moglie
venne ricoverata in ospedale per qualche tempo. In quel frattempo
Gipsy si vendette ogni cosa, anche il bidet di casa. Abbandonò, poi,
tutto e tutti e se ne andò con la sua bella e poverissima
ammaliatrice (aaaahhh le donne peruviane).
E
fu allora che i grandi trafficanti sudamericani gli proposero il
viaggio in Ecuador, con lo zainetto della droga. In realtà, ma
avrebbe dovuto capirlo da solo, vista la sua esperienza e la sua
conoscenza del mondo, e visto che queste cose le raccontava anche a
me, lo scopo era di fargli fare la “civetta”: quel giorno sarebbe
dovuto passare, secondo i piani infallibili dei terribili e spietati
Narcos, un grossissimo carico di cocaina (roba da milioni) che
avrebbe dovuto varcare il confine a tutti i costi e senza controlli.
La
soffiata la fecero loro stessi, i trafficanti: Avvisarono la polizia
di frontiera, che un signore italiano con lo zainetto sarebbe passato
di lì: “controllatelo ” - spiò una voce anonima alla polizia
di frontiera. E mentre venticinque questurini doganali circondavano
lo sventurato e inerme Gipsy, con un piccolo carico di stupefacenti,
l’enorme TIR zeppo di droga, in quello stesso istante, varcava
impunemente la dogana. E pensare che, come pagamento, Gipsy non aveva
avuto soldi, ma solo la sistemazione dei denti da parte di un
odontoiatra complice degli spacciatori. Dopo pochi giorni di carcere
duro, i suoi denti si ruppero nuovamente.
Anni
ottanta,
Prima
di partire per il Perù, nei favolosi anni ottanta, Gipsy aveva già
conosciuto, e bene, la galera. All’ epoca andava di moda l’eroina,
per certi versi una droga ancora peggiore. Ma negli anni ottanta la
vita era facile: Gipsy possedeva un negozietto “alternativo”,
cioè di chincaglierie Hippy, nel pieno centro di Venezia. La sua
fortuna e la sua bravura, consistevano nel fatto che quella bottega
era l’unica del suo genere di tutta la Regione. Venivano da Padova,
Treviso, Rovigo ed altri posti, solo per acquistare profumi esotici,
incenso, camice floreali e sciarpe indiane, anelli colorati e
improbabili collane esotiche. E non si trattava solo di giovani, ma
anche di signore bene, mogli di medici e avvocati, di fanatici delle
religioni orientali, di fumatori vari di mariagiovanna (che in quel
negozio non mancava mai).
Ciò
che mi piaceva, era che in quel locale veniva diffusa, sempre, musica
di Bob Marley e dei Beatles. Il negozietto con due vetrine era
diventato un luogo cult, ma poi, quei soldi, vennero spesi per le
droghe: Lsd, eroina, hashish e chi più ne ha più ne metta.
Cominciò
la lunga stagione del carcere veneziano: eh sì, perché all’epoca
era reato anche il semplice possesso di droghe. Lui, poi, ne aveva in
quantità, anche se non fu mai capace di guadagnarci sopra. Per lui
la droga era una filosofia di vita: gli piaceva consumarla assieme
agli amici, come quando Toro Seduto fumava, coi compagni e gli ex
nemici, il calumet della pace.
Si vendette
la casa che possedeva a Venezia (non è cosa da poco) e uscì dalle
varie carcerazioni all’ inizio degli anni novanta, quando, come
abbiamo visto, si apriranno per lui nuove opportunità oltre
l’oceano.
Anni
settanta,
E
pensare che prima, negli anni settanta, Gipsy era stato un mito per
una generazione di veneziani. Sempre in prima fila nelle lotte
studentesche e per i diritti civili e per ogni sorta di smanie
politiche, il suo stile di vita, il suo esser libertino quando molti
erano conformisti, il suo fascino con le donne, ne aveva moltissimo,
scatenava ammirazione e, purtroppo, imitazione in molti giovani.
Ricordo
quando partì per un lungo viaggio attraverso l’Europa di allora:
usava il treno, i furgoni Volkswagen degli amici, l’autostop, i
piedi.
Ad
ogni paese incontrava una ragazza, dei compagni, del fumo. Ma, la più
grossa, la combinò quando tentò di raggiungere l’India (la tanto
agognata India del tempo) con mezzi di fortuna.
Certo, dopo
molto tempo, in un secondo tentativo, riuscì ad arrivarci e ci
stette molti anni, si ammalò di tifo mangiando quello che mangiavano
gli indiani di allora, non quelli di oggi che sono ricchi più di
noi, rischiò la vita e tornò a casa dimostrando di possedere, come
i gatti, sette vite.
No, quella
volta del primo tentativo, invece, non riuscì ad arrivare nel
subcontinente indiano, perché fu fermato molto, ma molto prima,
assieme ad una compagna tedesca, bella figliola, con un po’ di
(solita) mariagiovanna nell’abbondante reggipetto di quella bionda
e dal seno prosperoso, ragazza tedesca.
Ma,
questo arresto avvenne, ahi lui, proprio al confine greco, dopo aver
percorso troppa poca strada.
La
Grecia di quegli anni, era governata militarmente dai terribili e
durissimi colonnelli a cui, quelli come Gipsy, davano più tormento
delle zecche nei testicoli. Gipsy varcò per la prima volta nella sua
vita, la soglia del carcere. Una galera terribile e solo nostro
padre, allora una persona assai potente, baffuta, duro quasi come un
colonnello, riuscì a tirarlo fuori, volando ad Atene e corrompendo,
con denaro, qualche “incorruttibile” colonnello - giudice.
Come
giunse a casa, libero, Gipsy ringraziò il padre e se ne andò
nuovamente in giro per l’Europa. Di lì a poco una ragazza olandese
lo fece diventare padre, per la prima volta, di un bellissimo
maschio. Papà Gipsy. Ma in lui non maturò l’uomo saggio. La
saggezza, così come la definiamo noi, per Gipsy aveva un altro e
diverso significato.
Anni
sessanta,
Eh
sì, quella era proprio la sua indole!
Così
si comportò quando era studente e già alle elementari faceva il
ribelle. Ricordo quando lo portarono a casa dicendo che aveva offeso
il maestro con frasi ingiuriose e con discorsi estremisti, come si
usava al tempo (anche se, di solito, lo facevano gli operai e gli
studenti, non i bambini).
Fu
iscritto a forza in un collegio privato cattolico a Treviso dove,
nello stesso anno, riuscì a picchiare il prete insegnante. Lui
affermò che il sacerdote aveva cercato di toccargli il culetto, ma
non ci crederono.
So
che, nella sua vita, Gipsy ne ha combinate di cotte e di crude, ma le
bugie le ha dette sempre raramente. Io penso che avesse avuto ragione
Già nei
primi anni sessanta, quando eravamo proprio bambini, aveva iniziato a
fuggire di casa. Un giorno mi prese sottobraccio, mi regalò la sua
piccolissima e colorata collezione di francobolli, anzi, me la
consegnò con ufficialità, affermando che sarebbe scappato,
rivelandomi il suo nascondiglio.
La
sera stessa ricordo i miei genitori urlanti e terrorizzati. Mia madre
mi aggredì: “Sai mica dove è andato quello stupido di tuo
fratello maggiore?” Sapendo che io avrei dovuto conoscere la
verità. Mentii per la prima volta in vita mia. Avvisarono anche la
Polizia, ma poi, per merito del suo amico Brunetto ( era anche suo
complice, ma si era stancato della fuga e lo aveva convinto a
desistere), fece ritorno.
Ancora oggi
conservo quei francobolli. E Brunetto ogni tanto torna a salutarmi.
Anni
cinquanta,
Adesso,
in ogni momento, penso ancora a quel giorno in cui mia madre era
ricoverata all’ospedale civile di Venezia.
Lei,
allora, intenta nello sforzo e nel dolore, stava partorendo proprio
me, mentre Gipsy, che all’epoca si chiamava ancora Giuseppe, era un
bambino di pochi anni. Quei pochissimi anni che dividono le nostre
età. E stava aspettando la mamma, seduto nel corridoio, e attendeva
il lieto evento.
Poi, però,
uscì da solo (mi raccontò in seguito), senza che nessuno lo
vedesse, dal retro dell’ospedale, fece pochi passi ed arrivò
vicino all’acqua.
Dalla riva
delle fondamenta nuove, dove si affaccia l’ospedale civile, si può
osservare il panorama della laguna, vicino si vede san Michele,
subito dopo Murano, le Vignole e, in fondo, la coloratissima isola di
Burano.
Mi
raccontò che, in quel rigido giorno di gennaio in cui nacqui, si
potevano ammirare le vette innevate che la contornavano, tanto che
facevano sembrare quella distesa pacifica di acqua un lago
ghiacciato, di quelli che si incontrano nel Nord Europa, lungo la
strada dei fiordi.
Ammirando
quella visione (a volte capita anche a me, lo ricordo con gioia), si
riesce a parlare proprio con Dio.
Ad
entrare in contatto con il suo spirito, ad elevarsi verso di Lui.
Chissà cosa gli avrà chiesto, quel giorno, mio fratello. Gli avrà
forse posto la domanda, che poi avrà continuato a ripetersi per
tutta la vita, cioè se il destino è immutabile o meno? Di cose
buone o orribili che dovranno avvenire nella sua esistenza?
Forse
avrà pensato che, in quel momento, il futuro si sarebbe ancora
potuto cambiare.
O,
forse, inesorabilmente, era già scritto.
Qui
finisce il racconto. Ugo s’accorse che tutti lo stavano osservando
con interesse, qualcuno, addirittura, si stava asciugando una
lacrima.
“Va bene
amici, adesso tocca a voi.”
Angelo
servì ai presenti delle olive verdi, bagnate da un denso olio
extravergine e con una punta di salsa rossa piccante. Era solo
l’antipasto, in cucina si stava abbrustolendo qualcosa.
“E’
tutto fatto in casa. Questi sono tutti prodotti di questa terra
anzi, sono prodotti nel giardino di questo castello. Ora, cara
Serena, se vuoi, puoi cominciare a raccontarci di te.”
La
ragazza africana, la bella Serena, si schiarì la voce. Se possibile,
il suo racconto avrebbe parlato di una disperazione ancora più
antica.
Ancora
più grande.
La
disperazione delle genti africane.