Siamo la razza nera
Il racconto di Serena,
sopravvivere a tutto,
anche all’Africa
“Non c’e’ nulla in
grado di dimostrare
quale sia la vera anima
di una societa’
se non il modo in cui
Nelson Mandela
Mi spiace per voi, uomini bianchi.
Il mio dolore è
grande, perché ho capito che, le vostre ore, sono giunte al termine,
così com’é tutti per noi, che però soffriremo di meno.
Non che la nostra morte
sarà meno dura, il fatto è che noi, neri africani, siamo abituati e
preparati ad ogni genere di mali, sofferenze, strazi, supplizi e
pene.
Da quando sono nata, ho
cominciato a conoscere il dolore. Ho perso prestissimo mio padre, che
amavo immensamente e con tutto il mio cuore, quando ancora non avevo
compiuto sei anni. Faceva il poliziotto, il mio grande papà, ma non
come si usa in Africa, che quando arriva il primo pericolo ci si
toglie di dosso la divisa e la si pone, con cura, in un sacchettino
di nylon, finché passa il “mal di pancia”, cioè il pericolo.
No, lui lo faceva sul
serio. Quel mattino maledetto io lo avevo abbracciato e l’avevo
stretto forte a me, non avrei voluto mai che andasse via.
Partì da casa
accarezzandomi i capelli e sbaciucchiandomi, baciando me più di
tutti, anche se eravamo in otto fratelli.
La maledetta mafia
africana lo fece sparire per sempre, di lui non si seppe più nulla,
della mafia infame ancora meno. Già la vita, nel continente nero, è
dura per una bambina in una famiglia numerosa. Figuratevi quando
muore il padre. Mia madre fu anche troppo brava, ci fece studiare e
ci seguì, io andai a vivere con mio nonno in un villaggio senza
alcun segno di civiltà, ma meraviglioso, per un po’ di tempo,
dopodiché tornai in città e feci la maestra d’asilo, ma ad una
certa età dovetti decidermi, come fanno tutti da queste parti, a
prendere il largo.
Le proposte
furono molte ed allettanti: i trafficanti di corpi umani sono degli
ottimi venditori, se ti dicono che basta portare un regalo a qualcuno
in Europa ti propongono lo spaccio di droga, se ti convincono a fare
la modella ( e magari incontrare uomini facoltosi) significa che ti
devi prostituire per le squallide strade delle periferie, nelle città
del Nord.
Io chiamavo sempre
al telefono il mio fratello maggiore, che nel mio paese, a Slave
City, aveva fatto il direttore bancario e che era, presto, emigrato
in Svizzera dove, chiedendo l’elemosina fuori dai supermercati,
guadagnava molto di più del suo onorario da direttore di filiale. E
ciò gli bastava per spedire tanti soldi e mantenere la sua famiglia
al paese. Mio fratello parlava bene della Svizzera: me la descriveva
come un paese pulitissimo, pieno di alte montagne, laghi, e gente
tranquilla.
Aveva trovato il
suo paradiso e aveva dimenticato l’Africa che, chissà perché,
tutti gli occidentali considerano meravigliosa. Lui mi mise in
contatto con un paesano, suo amico, che riuscì procurarmi un falso
visto per il paese europeo dove sarebbe stato più facile entrare
illegalmente: l’Italia. Questi mi propose anche di portare un bel
po’ di roba da sballo, che in Italia avrebbe fruttato parecchio. “E
dove dovrei mettere tutta quella droga?” Chiesi arrabbiata e
offesa. Lui rispose semplicemente fissando il mio seno prosperoso.
Arrivai qui in occidente
verso la fine del millennio. Il paese che incontrai non era poi tanto
male. L’Italia era bella e civilissima, in confronto all’Africa
poi, pareva un vero e proprio paradiso: la gente era ancora buona e
lo Stato mi aiutava in tutto, anche se ero ancora clandestina. Roma,
poi, era bellissima. Ma poi, pian piano, le cose cambiarono e
andarono velocemente peggiorando. Avevo sperato troppo e
ingenuamente nell’aiuto di mio fratello in Svizzera, ma era lui a
chiedere insistentemente sostegno a me.
I pochi e veloci
lavoretti da fare in “nero” (così lo chiamate voi), come
lavapiatti, pulizia dei grandi magazzini alle quattro di mattina,
assistenza a vecchietti ecc. ecc. erano sempre più difficili da
trovare e da conservare. La concorrenza, specie dalle donne
provenienti dall’Est, era fortissima. Tutti i giorni in autobus, in
treno, per la strada, i maschi mi fermavano, mi toccavano il seno o
il sedere, mi facevano proposte oscene, anche mostrandomi bei fogli
di soldi. Perfino le donne bianche mi desideravano.
Una, addirittura, mi
propose di essere il regalo di compleanno per suo marito. Doveva
volergli molto bene.
In quei giorni
incontrai un africano che giurò di amarmi. Rimasi molto tempo con
lui, finché non mi propose di prostituirmi o, almeno, di spacciare
un po’ di droga: “E’ in questo lavoro che noi africani siamo
forti ed imbattibili” diceva sempre. Al mio rifiuto pensò bene di
ricattarmi. Già aveva telefonato alla sua perfida madre in Africa,
la vecchia strega del villaggio vicino al mio, e le aveva imposto di
torturare la mia famiglia. Resistetti finché il mio malvagio amante
non venne arrestato dalla vostra brava polizia e, fortunatamente,
rispedito in Africa. Siccome io la feci franca, egli pensò che
l’avessi tradito. E so, per certo, che tutte le disgrazie capitate
alla mia povera famiglia, sono il diabolico frutto della sua
vendetta.
Poi incontrai un
ragazzo italiano molto buono, Gigi, che si innamorò di me e non del
solo mio sesso esuberante, dei miei seni rigogliosi, delle mie forme
africane no, si innamorò della mia anima. Con lui fui felice per
qualche anno ed Egli non mi fece mai mancare niente di ciò che
avessi desiderato. Luigi faceva il medico, era bello e
intelligentissimo e si recava spesso all’estero per compiere
missioni umanitarie. Aveva conosciuto bene anche il mio paese, perché
c’era stato laggiù, quando era un giovane dottore alle prime armi,
a curare i malati di lebbra ed i bambini abbandonati dalle famiglie
per una orribile superstizione. Avremmo dovuto sposarci molto presto,
io e Lui.
Poi,
rammentai ancora, se ce ne fosse stato bisogno, di come il destino
potesse essere inesorabile.
Bastò,
semplicemente, che un operatore inetto si dimenticasse di abbassare
le sbarre del passaggio a livello, proprio quando transitava il mio
uomo con la sua macchina. Il dolore non mi è ancora passato e mai mi
passerà. E, da lui, mi accorsi di aspettare un bambino.
Poi trovai altri
italiani e, pensando che fossero buoni come il mio amore perduto, mi
detti a loro col cuore, ma si comportarono ben presto anche loro come
i peggiori africani.
Uno di loro cercò di
ammazzarmi quando me ne andai fuggendo, un altro mi portò, una sera,
in un club dove cercarono di possedermi tanti altri uomini. E molti,
in seguito, usarono violenza contro di me.
Quando nacque il
mio bambino, bianco e ricciolino, rappresentò per me la cosa più
bella di questa povera vita, ma ben presto le cose peggiorarono, non
trovai lavoro, non trovai aiuti e il piccolo mi fu portato via dagli
assistenti sociali. Mi ritrovai sperduta in mezzo ad una strada in un
paese che non era il mio, odiando ancor di più la mia Africa.
Pensai, addirittura, di uccidermi e, prima ancora, di regalare la
morte al mio piccolo, affinché non dovesse soffrire, nella sua vita,
come ho sofferto io nella mia. Eppure dei segnali, un qualcosa di
impercettibile e di inspiegabile, mi avvisava che qualcuno, di
nascosto, mi stava aiutando : a volte avevo rinvenuto della somme di
denaro appoggiate in terra proprio vicino a me, altre volte avevo
trovato sulla mia strada dei beni che mi servivano, cibarie, cose di
cui necessitavo esattamente in quel momento.
Ugo guardò Angelo.
Entrambi pensarono, ma se lo dissero dopo, che l’idea di uccidere
il bambino potesse averla avuta poco prima. Ugo aveva notato, e lo
aveva fatto constatare anche ad Angelo, che il piccolo, trovato
esangue nella neve, possedeva dei tratti somatici che potevano far
pensare ad un mulattino .
E
se fosse stata lei la assassina del ragazzo, del suo bambino?
La
ragazza nera continuò il racconto con veemenza.
Ricordatevi, cari
italiani affabili e popolari, cristiani e buoni di cuore, che i neri
non sono tutti onesti e ingenui, non sono “il buon selvaggio” di
cui blaterano i filosofi. Rammentatevi che loro partono dal
continente nero con una idea in testa: rubare a voi la vita il più
possibile, distruggere l’uomo bianco …
Sì, proprio così:
annientare l’uomo dalla pelle candida e la sua civiltà, questo
ribadivano tutti gli uomini presenti nella nave, quella in cui mi
sono imbarcata per venire in questo posto. L’uomo bianco che da
tanti e tanti anni li schiavizzava. L’uomo chiaro ricco e forte e
potente, assai invincibile ed arrogante.
Ma, forse, oggi questo
uomo è solo un capro espiatorio, serve per far dimenticare la loro
superstiziosa ignoranza, la loro invidia puerile, i loro riti
ancestrali assurdi e per obnubilare i crimini dei loro governi
“indipendenti”, ladri ed assassini … capri espiatori, tale e
quale è rappresentato dagli ebrei d’Israele per le masse arabe
oppresse e schiave dei loro sultani.
“Ma
tu, il figlio, l’hai più cercato veramente?” Chiese d’improvviso
Angelo alla giovane donna.
“Sì,
l’ho sempre inseguito e, proprio in questi ultimi giorni, ho
ricevuto una lettera che mi ha invitato a venire qui, dicendomi che
l’avrei incontrato, mio figlio e che, poi, avrebbe sempre vissuto
assieme a me. Forse uno scherzo, ma certamente di pessimo gusto.”
Angelo ed Ugo rimasero
a bocca aperta, pensierosi, cercarono di afferrare questo passaggio.
Ma chi potrebbe esser stato così cinico da aver spedito quella
lettera, una strana e oscura missiva, alla povera donna … e perché
l’invito indicava proprio qui, questo castello? La domanda era
troppo difficile ed l’arcano si faceva sempre più complesso.
Forse, in un momento di
follia e di depressione, pensò dentro di sé Angelo, con più
realismo, Lei potrebbe aver commesso il crimine, ed aver ucciso il
suo piccolo, quel bambino riccio, bellissimo, il figlio che non
voleva lasciare ad altri.
“Cosa ne pensi, Ugo?”
“Ne capisco ben poco.
La donna sembra sincera e molto innamorata del suo bambino, ma il
suo equilibrio psichico, in questo momento, non si può definire tra
i più stabili e sicuri. Una cosa è certa: le orme che portavano al
castello, provenienti da luogo del crimine, non mi parevano essere di
un piede piccolo e femminile. Comunque, caro Angelo, abbiamo rilevato
in modo corretto l’impronta, dopo la studieremo.”
“No, lo so per certo,
Serena non ha mai ucciso nessuno. Lei è una che racconta tutto, le
sarebbe impossibile nascondere qualche terribile verità. Dai amico,
torniamo ordunque dai nostri ospiti. ”
Quando furono
rientrati nel salone, s’accorsero che, nel frattempo, la festa si
era animata. Tutti parlavano ad alta voce. La tensione dell’ultima
notte sembrava svanita nel nulla, ma così, di certo, non era.
Ugo rimase a guardare
la donna, Angelo entrò in cucina e vi uscì dopo poco, con in mano
un vassoio pieno di spaghetti al sugo di carne macinata di manzo,
mista a capriolo e salsiccia di casata. Invitò a servirsi ed a
spolverare il tutto con del parmigiano che si trovava sopra il
buffet.
Porgendogli il piatto
cortesemente, invitò Roberto:
“Prego, caro, continua
pure tu. Raccontaci di quello che vuoi, liberamente.”
Roberto aveva già
infilato il forchettone d’argento sul piatto fumante, lo aveva
odorato con classe, ne aveva assaporato la fragranza con molta
soddisfazione. A quel cortese invito, prese un po’ di tempo,
sorseggiò il vino bianco da un calice lungo, deglutì, si asciugò
col tovagliolo bianco, d’un bianco come era la neve fuori, e si
sedette più comodamente.
Poi iniziò a narrare,
al gruppo già pronto e attento, le sue strampalate e tragiche
avventure.
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