lunedì 26 agosto 2019

IL GRANDE CASTELLO ( 2° Capitolo)



STUPEFACENTE
Il racconto di Ugo e di una vita sregolata




Per salire al cielo necessita una scala grande”
Para subir en el cielo se necessita una escalera granda”
( Valens, la bamba)






Ieri,
Quando entrai in quella candida cameretta d’ ospedale, mi sembrò di scorgere in lui un bambino nato pochi istanti prima, anziché un uomo di neanche sessant’anni stanco, stremato, ormai alla fine dei suoi giorni.
Cercava di esprimersi con piccoli gesti, gemiti e grugniti, eseguiva proprio quegli stessi movimenti del corpo che avrebbe composto un tenerissimo neonato scalciante.
Era l’effetto delle droghe che gli avevano somministrato per placare la grande sofferenza. Chissà mai, valle a contare, quante e quali droghe avrà consumato durante tutta la sua bizzarra esistenza terrena ? Allora, io tentai in tutti i modi di parlargli, di comunicare con lui, ma egli continuava a fissarmi quasi sorridente, senza comprendermi, anche se so che cercava di farlo … così come fanno le piccole creature.
Uscii dalla sua cameretta e mi consultai col primario. Costui, un distinto professionista di mezza età e dall’aria benevola, mi guardò con rispetto, sconfortato.
Lei è..... il fratello? - chiese - mi spiace tanto dirglielo, però io non credo … che arriverà fino a domani.”
Lasciai il medico, fissai per un minuto la porta chiusa della stanza in cui Gipsy stava consumando la sua agonia, non ebbi più il coraggio di entrare per rendergli l’ultimo saluto. Da allora non l’avrei più rivisto vivo, quel mio grande fratello … no, mai più.
Era da poco tornato dall’Ecuador, perché aveva deciso di venire a morire in Italia.
Vi parlerò di Gipsy e non di me, perché della mia vita c’è assai poco da esporre - ringraziando Dio per questo - e perciò sarà lui il protagonista della storia che vi racconterò questa notte. Io ho vissuto un’esistenza tranquilla, normale e a volte serena, anche se non sempre … in realtà non è successo molto di cui discutere o far stupire gli amici. Perciò, prendo a prestito la sua vita e ve la narrerò per quanto possibile. Son certo che essa sarà molto, ma molto più interessante e coinvolgente.


Anni novanta,
Che ci faceva Gipsy in Ecuador? Era lì solo per caso, perché l’avevano arrestato mentre passava il confine dal Perù (paese nel quale aveva vissuto per circa vent’anni, con addosso una certa quantità di coca nello zaino. )
Lo avevano rinchiuso per tre anni in un orribile carcere nella Capitale Quito.
Una tortura inumana che non augurerei a nessuno. Non c’era letto, ma dormiva nella nuda e sporca terra di quella cella. Gli davano da mangiare quando si ricordavano. Delle medicine da prendere per la sua terribile malattia, la “peste del duemila” della quale morirà come vi ho anticipato, nemmeno l’ombra.
E per tutto il tempo in cui fu rinchiuso di lui non si seppe nulla. I compagni di cella erano bestie che non lo lasciavano mai dormire. Le terribili e spietate guardie carcerarie si divertivano a torturarlo, psicologicamente e fisicamente.
Un giorno gli dissero:”vai, sei libero.” Lo fecero vestire, prepararsi, lo fecero uscire dal carcere, poi lo tirarono dentro per i capelli e lo pestarono, lo chiusero di nuovo dentro: piaciuto lo scherzetto?
La moglie e le figlie, ancora piccole, che continuavano a vivere in Perù, a Lima, avevano perso ogni traccia del padre, tanto che si misero a cercarlo tramite la trasmissione:
donde estàs?” un format radiofonico peruviano per cercare i propri cari spariti. Credo ce ne sia uno anche in Italia.
Ad un certo punto, la sua famigliola decise di ritornare in Italia, che ormai nel paese andino non c’era motivo di restare, insieme provammo al “Chi l’ha visto?” televisivo italiano, ma non ce ne fu bisogno.
Infatti, La nostra ambasciata di Quito mi inviò un messaggio: “Egregio Signore, la avvisiamo, se non lo ancora non lo avete saputo, che il signor Gipsy è qui, rinchiuso in un penitenziario”
A dire il vero, già lo pensavamo morto (infatti nel messaggio di posta elettronica che inviarono solo a me, poiché portavo, e porto, il suo stesso cognome, visto che con la compagna, che chiamiamo moglie per convenienza, non l’aveva manco sposata, interpretai la parola “detenuto” come “deceduto” e per qualche secondo lo pensai).
Nessuno si sarebbe meravigliato se avessero trovato il suo cadavere in qualche anfratto delle vette andine o mangiato dai pesci dell’Oceano Pacifico, ma non era ancora venuta la sua ora, anche se poco ci mancava.
Venne rincasato con un volo a spese dello Stato, che riuscì, tramite l’Ambasciatore italiano, a convincere il governo ecuadoregno a rilasciare il morituro dopo tre anni, anziché fargli scontare gli otto cui l’avevano condannato.
Quel giovanotto che era partito dall’Italia gagliardo e sempre in tiro (di coca), scese dall’aereo del ritorno, all’aeroporto Marco Polo di Venezia, ridotto come un vecchio mendicante che si reggeva a fatica su di un grosso bastone. Avrebbe avuto ancora pochi giorni di vita.
E Pensare che in Perù aveva fatto fortuna.
Il continente sudamericano ti presenta immagini e genti che non t’aspetti, neanche se sei un viaggiatore incallito e consumato. Quando lo vedi dal basso, il Perù è un’insieme di trecentosessanta microclimi diversi, praticamente uno ogni giorno dell’anno. Dall’interno della giungla densa e nera, attraversata dai fiumi più grossi del mondo, abitata da genti fuori dal tempo, passi ad un deserto di sabbia e pietra, con i suoi resti di età antiche e sconosciute, cariche di leggende oscure, e ti inerpichi sulle montagne altissime, impervie, piene di casette che sembrano giochi per bambini, di abitanti variopinti nei loro tessuti che paiono petali di fiori, gli stessi che vedi sulle colline.
Anche il solo arrivarci è fantastico: dall’alto dell’aereo, dopo aver attraversato l’immensa foresta, passi sopra i ghiacciai eterni. Ti parrà impossibile che, dalla più alta vetta di queste montagne, in pochi secondi, vedi, sotto di te, l’azzurro dell’oceano. L’aereo entra per pochi minuti sopra la distesa blu del Pacifico, che pare inabissarsi nel grande mare, poi ruota di centoottanta gradi e punta verso la capitale, brulicante di uomini -formiche, la città di Lima.
C’era arrivato nel 1992, a Lima, perché sua moglie aveva vinto un concorso importante per insegnare alla scuola italiana della capitale. La seguì e, con la sua intraprendenza, riuscì ad aprire un pub proprio nel bel quartiere di Barranco, sul lungomare di Lima, centro della vita notturna e alternativa della capitale peruviana.
Aveva semplicemente affittato una vecchia casa coloniale in due piani, colorata di azzurro, ed aveva iniziato a preparare pietanze tipicamente venete. Diffondeva per tutto il giorno musica italiana. I clienti si dovevano mettere in coda per entrare. Vendeva birra e faceva soldi a palate. Aveva acquistato, per la sua famiglia, una casa grandissima, con una bella piscina, in un giardino tropicale che si affacciava proprio fuori dalla porta del salotto.
Possedeva due cani bastardini, un gatto bianco e nero, quattro mici e due pappagalli coloratissimi. Di solito essi, questa fauna mista, mangiavano in una ciotola tutti assieme.
Il suo insperato e grandio sosuccesso però, come accade anche nel resto del Mondo, suscitò invidie in quelli (nativi locali, non immigranti italiani come lui), che esercitavano il commercio vicino alla sua favolosa e fortunatissima bottega, mal sopportando la sua concorrenza. Questi, allora, non mancarono di fargli la guerra fino, in seguito, a distruggerlo.
Quando lo andai a trovare a Lima, nella sua splendida casa, perché erano nate le bambine, ebbi modo di rilassarmi consultando la sua biblioteca con numerosi libri, adagiato nel dondolo del suo giardino ombreggiato da palme, servito da tre cameriere peruviane, una delle quali fu con me molto gentile, graziosa, generosa e fin troppo disponibile.
Ma poi la droga: tra un tiro e l’altro ti rovina la vita, la salute, le finanze. A lui, alla moglie … distruggendo la famiglia. In poco tempo tutto finì.
Il terzo millennio iniziò, per lui, con tanti e tanti guai: la polizia lo arrestò e lo condannò a qualche mese di carcere, perché nel suo bel parco tropicale verdeggiava una piantina di (quasi innocua) mariagiovanna , (con tutta la coca che girava in quel paese) e da lì, poi, la rovina del negozio, che i suoi concorrenti riuscirono a fargli chiudere, perché il gabinetto riservato ai clienti misurava un metro quadro meno del consentito. Anziché aspettare che lo restaurasse, l’Alcalde, cioè il sindaco, cognato di uno dei suoi concorrenti, fece porre i sigilli all’ingresso del suo pub.
Il distacco dalla moglie, l’amore per un’ altra donna peruviana che l’aveva sedotto, “sì perché cara Serena - (si rivolse alla ragazza africana che lo ascoltava a bocca ben aperta), “i riti di magia nera non li fanno solo in Africa: le maghe ci sono dappertutto.”
Quando lui uscì dal carcere peruviano, dopo pochi mesi infatti, la moglie venne ricoverata in ospedale per qualche tempo. In quel frattempo Gipsy si vendette ogni cosa, anche il bidet di casa. Abbandonò, poi, tutto e tutti e se ne andò con la sua bella e poverissima ammaliatrice (aaaahhh le donne peruviane).
E fu allora che i grandi trafficanti sudamericani gli proposero il viaggio in Ecuador, con lo zainetto della droga. In realtà, ma avrebbe dovuto capirlo da solo, vista la sua esperienza e la sua conoscenza del mondo, e visto che queste cose le raccontava anche a me, lo scopo era di fargli fare la “civetta”: quel giorno sarebbe dovuto passare, secondo i piani infallibili dei terribili e spietati Narcos, un grossissimo carico di cocaina (roba da milioni) che avrebbe dovuto varcare il confine a tutti i costi e senza controlli.
La soffiata la fecero loro stessi, i trafficanti: Avvisarono la polizia di frontiera, che un signore italiano con lo zainetto sarebbe passato di lì: “controllatelo ” - spiò una voce anonima alla polizia di frontiera. E mentre venticinque questurini doganali circondavano lo sventurato e inerme Gipsy, con un piccolo carico di stupefacenti, l’enorme TIR zeppo di droga, in quello stesso istante, varcava impunemente la dogana. E pensare che, come pagamento, Gipsy non aveva avuto soldi, ma solo la sistemazione dei denti da parte di un odontoiatra complice degli spacciatori. Dopo pochi giorni di carcere duro, i suoi denti si ruppero nuovamente.


Anni ottanta,
Prima di partire per il Perù, nei favolosi anni ottanta, Gipsy aveva già conosciuto, e bene, la galera. All’ epoca andava di moda l’eroina, per certi versi una droga ancora peggiore. Ma negli anni ottanta la vita era facile: Gipsy possedeva un negozietto “alternativo”, cioè di chincaglierie Hippy, nel pieno centro di Venezia. La sua fortuna e la sua bravura, consistevano nel fatto che quella bottega era l’unica del suo genere di tutta la Regione. Venivano da Padova, Treviso, Rovigo ed altri posti, solo per acquistare profumi esotici, incenso, camice floreali e sciarpe indiane, anelli colorati e improbabili collane esotiche. E non si trattava solo di giovani, ma anche di signore bene, mogli di medici e avvocati, di fanatici delle religioni orientali, di fumatori vari di mariagiovanna (che in quel negozio non mancava mai).
Ciò che mi piaceva, era che in quel locale veniva diffusa, sempre, musica di Bob Marley e dei Beatles. Il negozietto con due vetrine era diventato un luogo cult, ma poi, quei soldi, vennero spesi per le droghe: Lsd, eroina, hashish e chi più ne ha più ne metta.
Cominciò la lunga stagione del carcere veneziano: eh sì, perché all’epoca era reato anche il semplice possesso di droghe. Lui, poi, ne aveva in quantità, anche se non fu mai capace di guadagnarci sopra. Per lui la droga era una filosofia di vita: gli piaceva consumarla assieme agli amici, come quando Toro Seduto fumava, coi compagni e gli ex nemici, il calumet della pace.
Si vendette la casa che possedeva a Venezia (non è cosa da poco) e uscì dalle varie carcerazioni all’ inizio degli anni novanta, quando, come abbiamo visto, si apriranno per lui nuove opportunità oltre l’oceano.


Anni settanta,
E pensare che prima, negli anni settanta, Gipsy era stato un mito per una generazione di veneziani. Sempre in prima fila nelle lotte studentesche e per i diritti civili e per ogni sorta di smanie politiche, il suo stile di vita, il suo esser libertino quando molti erano conformisti, il suo fascino con le donne, ne aveva moltissimo, scatenava ammirazione e, purtroppo, imitazione in molti giovani.
Ricordo quando partì per un lungo viaggio attraverso l’Europa di allora: usava il treno, i furgoni Volkswagen degli amici, l’autostop, i piedi.
Ad ogni paese incontrava una ragazza, dei compagni, del fumo. Ma, la più grossa, la combinò quando tentò di raggiungere l’India (la tanto agognata India del tempo) con mezzi di fortuna.
Certo, dopo molto tempo, in un secondo tentativo, riuscì ad arrivarci e ci stette molti anni, si ammalò di tifo mangiando quello che mangiavano gli indiani di allora, non quelli di oggi che sono ricchi più di noi, rischiò la vita e tornò a casa dimostrando di possedere, come i gatti, sette vite.
No, quella volta del primo tentativo, invece, non riuscì ad arrivare nel subcontinente indiano, perché fu fermato molto, ma molto prima, assieme ad una compagna tedesca, bella figliola, con un po’ di (solita) mariagiovanna nell’abbondante reggipetto di quella bionda e dal seno prosperoso, ragazza tedesca.
Ma, questo arresto avvenne, ahi lui, proprio al confine greco, dopo aver percorso troppa poca strada.
La Grecia di quegli anni, era governata militarmente dai terribili e durissimi colonnelli a cui, quelli come Gipsy, davano più tormento delle zecche nei testicoli. Gipsy varcò per la prima volta nella sua vita, la soglia del carcere. Una galera terribile e solo nostro padre, allora una persona assai potente, baffuta, duro quasi come un colonnello, riuscì a tirarlo fuori, volando ad Atene e corrompendo, con denaro, qualche “incorruttibile” colonnello - giudice.
Come giunse a casa, libero, Gipsy ringraziò il padre e se ne andò nuovamente in giro per l’Europa. Di lì a poco una ragazza olandese lo fece diventare padre, per la prima volta, di un bellissimo maschio. Papà Gipsy. Ma in lui non maturò l’uomo saggio. La saggezza, così come la definiamo noi, per Gipsy aveva un altro e diverso significato.


Anni sessanta,
Eh sì, quella era proprio la sua indole!
Così si comportò quando era studente e già alle elementari faceva il ribelle. Ricordo quando lo portarono a casa dicendo che aveva offeso il maestro con frasi ingiuriose e con discorsi estremisti, come si usava al tempo (anche se, di solito, lo facevano gli operai e gli studenti, non i bambini).
Fu iscritto a forza in un collegio privato cattolico a Treviso dove, nello stesso anno, riuscì a picchiare il prete insegnante. Lui affermò che il sacerdote aveva cercato di toccargli il culetto, ma non ci crederono.
So che, nella sua vita, Gipsy ne ha combinate di cotte e di crude, ma le bugie le ha dette sempre raramente. Io penso che avesse avuto ragione
Già nei primi anni sessanta, quando eravamo proprio bambini, aveva iniziato a fuggire di casa. Un giorno mi prese sottobraccio, mi regalò la sua piccolissima e colorata collezione di francobolli, anzi, me la consegnò con ufficialità, affermando che sarebbe scappato, rivelandomi il suo nascondiglio.
La sera stessa ricordo i miei genitori urlanti e terrorizzati. Mia madre mi aggredì: “Sai mica dove è andato quello stupido di tuo fratello maggiore?” Sapendo che io avrei dovuto conoscere la verità. Mentii per la prima volta in vita mia. Avvisarono anche la Polizia, ma poi, per merito del suo amico Brunetto ( era anche suo complice, ma si era stancato della fuga e lo aveva convinto a desistere), fece ritorno.
Ancora oggi conservo quei francobolli. E Brunetto ogni tanto torna a salutarmi.


Anni cinquanta,
Adesso, in ogni momento, penso ancora a quel giorno in cui mia madre era ricoverata all’ospedale civile di Venezia.
Lei, allora, intenta nello sforzo e nel dolore, stava partorendo proprio me, mentre Gipsy, che all’epoca si chiamava ancora Giuseppe, era un bambino di pochi anni. Quei pochissimi anni che dividono le nostre età. E stava aspettando la mamma, seduto nel corridoio, e attendeva il lieto evento.
Poi, però, uscì da solo (mi raccontò in seguito), senza che nessuno lo vedesse, dal retro dell’ospedale, fece pochi passi ed arrivò vicino all’acqua.
Dalla riva delle fondamenta nuove, dove si affaccia l’ospedale civile, si può osservare il panorama della laguna, vicino si vede san Michele, subito dopo Murano, le Vignole e, in fondo, la coloratissima isola di Burano.
Mi raccontò che, in quel rigido giorno di gennaio in cui nacqui, si potevano ammirare le vette innevate che la contornavano, tanto che facevano sembrare quella distesa pacifica di acqua un lago ghiacciato, di quelli che si incontrano nel Nord Europa, lungo la strada dei fiordi.
Ammirando quella visione (a volte capita anche a me, lo ricordo con gioia), si riesce a parlare proprio con Dio.
Ad entrare in contatto con il suo spirito, ad elevarsi verso di Lui. Chissà cosa gli avrà chiesto, quel giorno, mio fratello. Gli avrà forse posto la domanda, che poi avrà continuato a ripetersi per tutta la vita, cioè se il destino è immutabile o meno? Di cose buone o orribili che dovranno avvenire nella sua esistenza?
Forse avrà pensato che, in quel momento, il futuro si sarebbe ancora potuto cambiare.
O, forse, inesorabilmente, era già scritto.


Qui finisce il racconto. Ugo s’accorse che tutti lo stavano osservando con interesse, qualcuno, addirittura, si stava asciugando una lacrima.
Va bene amici, adesso tocca a voi.”
Angelo servì ai presenti delle olive verdi, bagnate da un denso olio extravergine e con una punta di salsa rossa piccante. Era solo l’antipasto, in cucina si stava abbrustolendo qualcosa.
E’ tutto fatto in casa. Questi sono tutti prodotti di questa terra anzi, sono prodotti nel giardino di questo castello. Ora, cara Serena, se vuoi, puoi cominciare a raccontarci di te.”
La ragazza africana, la bella Serena, si schiarì la voce. Se possibile, il suo racconto avrebbe parlato di una disperazione ancora più antica.
Ancora più grande.
La disperazione delle genti africane.





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