sabato 28 giugno 2025

"Quello che non si é detto"




di * Panta Rei *


Era tornata a settembre, come la luce obliqua sulle finestre chiuse da troppo tempo.


Nessuno glielo aveva chiesto, nemmeno lui. Ma alcune assenze sanno come tornare senza bussare.


La trovò sulla terrazza del vecchio albergo in collina, dove anni prima si erano tenuti lontani con la goffaggine dei primi sguardi, e poi avvicinati con la furia muta dei corpi che non vogliono più spiegazioni.


Lei era seduta, un bicchiere tra le dita, i piedi nudi sul marmo tiepido.


Il sole stava per calare e il vento le sollevava i capelli come dita curiose.


«Non ti aspettavo più,» disse lui.


Lei non si voltò. «Non aspettarmi. Non serve.»


Lui si sedette accanto senza parlare. Bastava esserci.


C’era in quell’aria un odore di fichi maturi, terra calda, resina. L’odore dell’estate che muore, senza fare rumore.


Le sere di quel settembre passarono lente, come dita su una pelle che ricorda.


Non si dissero molto. Parlavano con i gesti: una camicia sfiorata per sbaglio, un bicchiere condiviso, una risata trattenuta.


Lei dormiva nella stanza accanto, ma lasciava la porta socchiusa.


Lui non entrava mai. Ma si svegliava spesso.


E la immaginava lì, avvolta nel lenzuolo, la spalla nuda contro il cuscino, il respiro profondo e irregolare come quello delle onde che si ritirano.


Una notte lei si alzò.


Entrò nella sua stanza senza dire nulla.


Si fermò ai piedi del letto.


I loro occhi si cercarono nell’ombra.


Poi si sdraiò accanto a lui, senza toccarlo.


Rimasero così, immobili, come due amanti stanchi, o due naufraghi.


Quando lui le sfiorò la schiena, lo fece con la cautela di chi ha ancora fame ma conosce il sapore dell’addio.


Non fu una notte di gesti esplosi.


Ma di respiri accostati, mani ferme, corpi che si ritrovavano come pagine lasciate a metà.


E nel buio, più che la pelle, ardeva ciò che non si era detto.


Il mattino dopo lei non c’era.


La stanza era vuota, il letto appena sfatto, il profumo della sua pelle ancora sospeso nell’aria, come l’ultima nota di una musica appena svanita.


Sul tavolino, accanto alla tazza di caffè rimasta piena, un biglietto scritto a mano:


  Non serve tenersi quando ci si è avuti così  

  tanto.


Non tornerò. Ma nemmeno sarò mai del tutto via.


Ti porto addosso. Come la pioggia d’estate. Come un’impronta sulla pelle che non se ne va.


Non la rivide più.


Ma ogni tanto, nei giorni di vento tiepido, sentiva quell’odore — fichi, resina, pelle — e sapeva che era lei.


Non nella memoria. Ma altrove.


Dove si posano i sogni che non si dicono.


E capì che l’amore non finisce.


Si ritira, come la marea, lasciando conchiglie sulla sabbia.


E che il corpo ricorda più a lungo della mente.


Ricorda anche quello che non si è fatto.


Soprattutto quello.


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Frammento da un taccuino interrotto


I giorni che non viviamo sono quelli che scrivono più a fondo.


Le parole che non diciamo, le carezze trattenute, gli sguardi che si spezzano prima di toccarsi.


Esiste un tempo che non torna,


ma che ci abita per sempre.


Questo non è un racconto compiuto.


È solo il bordo di qualcosa che arde ancora — da qualche parte.


Forse era amore.


Forse solo settembre.


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Questo testo proviene da un manoscritto non concluso, ritrovato fra carte sparse, come una lettera mai spedita o un sogno interrotto.  


È stato lasciato in questa forma per rispetto al silenzio che custodisce.


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