lunedì 15 giugno 2020

"Venezia in catene" CAPITOLO XIII




Morte e Cani

Quel giorno, si avvertiva qualcosa di strano nell'aria.
Era un po' come quando va a cambiare il clima e lo si scorge anticipatamente attraverso strani sensori, impercettibili alla ragione, ma ugualmente chiari e profondi. Possono essere dolori in varie parti del corpo, senso di nausea o malumore, oppure un incontenibile stato di oppressione e di angoscia.
C'era un qualcosa di inquietante e penoso che arrivava da lontani latrati che, a intervalli regolari, squarciavano in maniera lancinante la quiete mattutina.
"I xe drio copar i cani", si sentì, d'un tratto, urlare la vecchia Berenice.
"Mamma mia che strazio, che sofferenza", continuava a piangere la vecchina, e non si riusciva a farla calmare.
Pompeo, che era intento a sistemare alcuni appunti nella sua camera che dava sul campiello, fu costretto a uscire fuori, non riuscendo a sopportare i gemiti e i singhiozzi di quella signora piccola e gentile, tanto per bene anche se, a volte, un po’ pesante.
"Cossa ghe xè?", le chiese.
"Boh, forse la xè deventada mata", commentò Gino, che stava sistemando la chiglia della sua barca tirata su dal canale e posta quasi al centro del campiello.
"Mato sarà lù" rispose la Berenice guardandolo di sbieco, "in campo san Polo i xè drio copar i cani, tanti cani".
Tutti si fecero seri e la ascoltarono in silenzio.
"I ciapa le bestie e i le scuoia, benedette loro, chissà quanto che le patisce."
"Ma la xea sicura?" intervenne Gino, che aveva lasciato perdere le cure alla sua barca.
"Insomma, sior Gino, la crede che vogio contar bale?"
"No, no, no lo pensaria mai, siora Berenice".
Il 15 di Marzo, cioè il giorno prima, un editto di Seras, sempre lui, l'odiatissimo, imponeva la totale soppressione fisica dei cani, considerati inutili bocche da sfamare. Veniva bandito un premio per chi avesse ucciso, portandone la prova, il maggior numero di cani randagi. Anche i cani tenuti in famiglia dovevano venir uccisi dai loro proprietari. Chi non l'avesse fatto prontamente avrebbe dovuto pagare una forte multa. I premi per l'eliminazione di cani che avevano un proprietario, venivano pagati in ragione della multa che il proprietario stesso, reo di non averlo fatto personalmente, doveva sborsare.
Accadeva, così, che il padrone di un cane era costretto a pagare dei soldi al carnefice che aveva massacrato di botte il suo amico più fidato.
"I gà copà el can de la Rosina" gridò una voce isterica in fondo alla calle.
"El mio can, el mio can, disgrassiai, rideme el mio can", urlava una signora inferocita.
Tra i più operosi, in quei giorni, brillava un certo Petronio che, quando c'era lavoro, scaricava casse al molo.
Di questi tempi, cosa del resto valida per la maggior parte della gente, era disoccupato.
Petronio Santini, nonostante fosse stato, un tempo, un prete gesuita, era passato dall’altra parte anche se, forse, da quella terribile parte, c’era sempre stato. Egli aveva predicato, nelle sue continue e gratuite omelie, il rispetto e l’amore che bisogna avere per una divinità forte e spietata, altro che il Dio misericordioso, quello che ci insegnò la “pietas cristiana”, come affermavano gli sdolcinati (secondo lui), preti del tempo.
Petronio voleva che il vero cristiano non perdonasse, ma che ammazzasse senza pietà eretici ed ebrei (specialmente),
che ne bruciasse i libri e le case, che ne annientasse il pensiero.
Venne cacciato (come vennero cacciati altri gesuiti), dalle nuove idee della Chiesa e dalla forza dell’Illuminismo. Per ciò trovò la nuova fonte del suo credo in una setta che gli era congeniale: si mise ad adorare chi, indubbiamente la pensava come lui, la bestia immonda, satana.
In quegli anni le sette sataniche avevano conosciuto una grande ascesa in tutta l’Europa.
Dall’Emilia, dove si avevano notizie di ex preti ed ex monache passate al nemico, pervasi specialmente da ossessioni sessuali, all’Inghilterra dove furono coinvolti seguaci di San Francesco, alla Francia, dove qualcuno aveva affermato che la stessa Rivoluzione fu opera dei satanisti.
Il tutto era condito di magia nera, messe nere, ostie rovesciate e preghiere blasfeme.
Petronio e la sua banda non si facevano mancare niente di tutto ciò.
Ma quello che più lo faceva godere era il sacrificio, meglio se cruento, degli animali (che, tanto, non avrebbero potuto difendersi).
Aveva trovato infatti, grazie a questo editto, un nuovo e remunerativo lavoro - e certo non gli dispiaceva - nell'ammazzare cani.
Ne portava al macello, dove si concentrava la carneficina, anche quindici al giorno, scuoiati, ammazzati con colpi di martello alla testa o con un coltello da cucina affondato nelle carni magre di bestiole affamate; alcuni arrivavano ancora vivi e in agonia. Ma non c’erano solo i cani:

"I gatti venivano ammazzati e la loro
carne era venduta a soldi 34 la libbra",
annotò nel suo diario Pompeo, amareggiato; sia per i gatti che per coloro i quali erano costretti a cibarsene, spesso senza saperlo.
Mal sopportava l'idea che i francesi - i quali, arrivati a questo punto, avrebbero fatto meglio ad arrendersi alle potenze alleate - escogitassero sempre nuovi sistemi per prolungare la loro improbabile resistenza e, con essa, l'agonia dei veneziani.

"In tal guisa va scemando il numero degli
inutili consumatori di pane"
Scrisse, forse ironicamente sul suo diario, mentre si chiedeva chi sarebbe stata - dopo cani e gatti - la nuova vittima della follia del dittatore; forse i bambini? Vedremo, in seguito, che non si sbagliò.

Il cane di Gino si chiamava Bartolomeo. Questo, in onore di un antico condottiero che aveva combattuto valorosamente per la Repubblica Serenissima e che, dice la fantasia popolare, era dotato di un numero maggiore di testicoli di quanti ne possegga, di solito, un essere umano; da ciò il soprannome di "Colleoni".
Anche quel cagnetto, in effetti, possedeva qualcosa in più oltre alle due sfere che la natura dona ai maschi di molte specie animali ma, che fosse un terzo testicolo o un qualche altro malanno sconosciuto alla scienza dell’epoca non si era mai potuto sapere, perché la medicina ancora non aveva fatto passi da gigante come successe in seguito.
Fatto sta che il bastardino era dotato di una simpatia eccezionale ed il padrone, rimasto solo dopo la morte della moglie e la scomparsa dei due figli (uno per malattia, l'altro era andato a combattere con Napoleone, ma nessuno aveva saputo in quale paese del Mondo), lo considerava come una sua creatura. Gino giocava spesso con Bartolomeo, ci parlava assieme; qualcuno li aveva visti anche piangere assieme.
Mai aveva fatto mancare il cibo al suo amico, anche quando aveva dovuto toglierselo dalla bocca.
"Mangia anche tu" gli diceva sempre, "che anche tu sei una creatura di Dio, e poi questi sono gli ultimi sforzi, tra un po' i francesi se ne andranno e noi potremmo mangiare, lavorare, vivere, e tornerà anche mio figlio".
Bartolomeo sembrava ascoltarlo, muoveva la coda, raddrizzava le orecchie, gli leccava le mani come a benedirle.
Quel triste mattino in cui incontrarono il satanico Petronio, stavano passeggiando assieme per la "fondamenta della Misericordia" e Gino teneva tra le mani un po' di formaggio vecchio ch'era riuscito a procurarsi attraverso alcuni amici che continuavano, eroicamente, a fare del contrabbando.
Il losco individuo si chinò verso il cane, come per accarezzarlo; Gino abbozzò un sorriso, ma s'accorse, troppo tardi, che l'ammazzacani aveva tirato fuori il suo coltello affilato e lo stava usando contro il suo migliore amico. Petronio aveva conficcato la fredda lama dentro la bocca della bestiola. Al primo colpo ne era uscito un fiotto di sangue e alcuni denti; il cane guaiva. Il secondo colpo fu diretto alla gola e, probabilmente, lasciò all'animale pochi minuti di vita. Gino saltò addosso all'assassino, gli gettò in acqua il coltello e iniziò a stringergli la carotide con le sue forti mani.
"te copo, te copo" urlava come un ossesso, ma subito intervennero due soldati francesi che lo presero di cattiveria e lo sbatterono nella cella di un carcere lì vicino, ai santi Apostoli.
Il lavoro di Petronio fu pagato col povero formaggio che Gino teneva chiuso nella carta, visto che di soldi per la multa non ne aveva. L’acchiappacani lo annusò e, con una smorfia, disse che si accontentava, mentre i francesi inveirono contro i veneziani come Gino che, oltre a tenere in vita i cani, continuavano a fare del contrabbando e a non collaborare con loro.
La carcassa del povero Bartolomeo fu portata al macello.

Ma in tempi in cui nulla restava da sperare, la forza ironica dei veneziani era dura a morire.
Qualcuno scrisse, in lingua latina, un verso anonimo:

"Pellere ad Urbe canes, morti et vult tradere Seras.
Quis neget infestos furibus esse canes?"
L'offesa verso il terribile Seras, l'essere più odiato dopo Napoleone, era semplice da comprendere per chi conosceva il gergo dove, se alla parola morti si aggiunge cani, si ottiene un insulto verso gli avi della persona indicata. E proseguiva maledicendo il fatto che si dovette mangiare pane alla crusca:

Pauperibus dantur puro cum furfure panes,
at solum gallis convenit iste cibus.”

Chissà di che galli parlava? Forse dei galletti d’oltralpe.

Ma a parte gli individui come Petronio, il resto della gente in città tentò di nascondere gli animali, tanto, si pensava, l'ora della liberazione era vicina.
E Pompeo così annotò nel suo diario, facendo capire quanto poco ascoltato fosse stato quell’ ordinamento :

L’avviso pubblicato nel 21 corrente che ordina l’uccisione de’ cani non ha sortito l’effetto desiderato. Se ne vedono molti vaganti per la città, od accompagnati da’ loro padroni, senza che ad alcuno venga il pensiero di ammazzarli. Il poco desiderio di approfittare del premio promesso nasce dal debito, che incombe all’uccisore, d’indicare il padrone del cane per sottoporlo alla penale, senza di che non lo conseguisce. Questa difficoltà salva la vita ai cani vaganti : se poi si tentasse di superare tale difficoltà, aggredendo il cane quando è accompagnato dal padrone, allora nasce l’altro più grave impedimento, accagionato dalla presenza del padrone medesimo che tutto arrischia per difender la vita del suo fedele compagno. Per tal causa l’effetto della decisione superiore va a ridursi a nessun risultato”.


A Pompeo vennero in mente le parole pronunciate migliaia di anni fa da un grande filosofo:

"Più conosco gli uomini
più mi affeziono al mio cane"

E capì che erano molto attuali.
Come sempre è attuale la ferocia dell’animale più feroce: quello che crea dittatori, si organizza in eserciti che vanno in giro a stuprare e a rubare, che fabbrica armi e che, prima o dopo, con qualche ordigno satanico distruggerà il Mondo intero.


Nessun commento:

Posta un commento