Morte
e Cani
Quel
giorno, si avvertiva qualcosa di strano nell'aria.
Era
un po' come quando
va
a cambiare il clima e lo si scorge anticipatamente attraverso strani
sensori, impercettibili alla ragione, ma ugualmente chiari e
profondi. Possono essere dolori in varie parti del corpo, senso di
nausea o malumore, oppure un incontenibile stato di oppressione e di
angoscia.
C'era
un qualcosa di inquietante e penoso che arrivava da lontani latrati
che, a intervalli regolari, squarciavano in maniera lancinante la
quiete mattutina.
"I
xe drio copar i cani", si sentì, d'un tratto, urlare la vecchia
Berenice.
"Mamma
mia che strazio, che sofferenza", continuava a piangere la
vecchina, e non si riusciva a farla calmare.
Pompeo,
che era intento a sistemare alcuni appunti nella sua camera che dava
sul campiello, fu costretto a uscire fuori, non riuscendo a
sopportare i gemiti e i singhiozzi di quella signora piccola e
gentile, tanto per bene anche se, a volte, un po’ pesante.
"Cossa
ghe xè?", le chiese.
"Boh,
forse la xè deventada mata", commentò Gino, che stava
sistemando la chiglia della sua barca tirata su dal canale e posta
quasi al centro del campiello.
"Mato
sarà lù" rispose la Berenice guardandolo di sbieco, "in
campo san Polo i xè drio copar i cani, tanti cani".
Tutti
si fecero seri e la ascoltarono in silenzio.
"I
ciapa le bestie e i le scuoia, benedette loro, chissà quanto che le
patisce."
"Ma
la xea sicura?" intervenne Gino, che aveva lasciato perdere le
cure alla sua barca.
"Insomma,
sior Gino, la crede che vogio contar bale?"
"No,
no, no lo pensaria mai, siora Berenice".
Il
15 di Marzo, cioè il giorno prima, un editto di Seras, sempre lui,
l'odiatissimo, imponeva la totale soppressione fisica dei cani,
considerati inutili bocche da sfamare. Veniva bandito un premio per
chi avesse ucciso, portandone la prova, il maggior numero di cani
randagi. Anche i cani tenuti in famiglia dovevano venir uccisi dai
loro proprietari. Chi non l'avesse fatto prontamente avrebbe dovuto
pagare una forte multa. I premi per l'eliminazione di cani che
avevano un proprietario, venivano pagati in ragione della multa che
il proprietario stesso, reo di non averlo fatto personalmente, doveva
sborsare.
Accadeva,
così, che il padrone di un cane era costretto a pagare dei soldi al
carnefice che aveva massacrato di botte il suo amico più fidato.
"I
gà copà el can de la Rosina" gridò una voce isterica in fondo
alla calle.
"El
mio can, el mio can, disgrassiai, rideme el mio can", urlava una
signora inferocita.
Tra
i più operosi, in quei giorni, brillava un certo Petronio che,
quando c'era lavoro, scaricava casse al molo.
Di
questi tempi, cosa del resto valida per la maggior parte della gente,
era disoccupato.
Petronio
Santini, nonostante fosse stato, un tempo, un prete gesuita, era
passato dall’altra parte anche se, forse, da quella terribile
parte, c’era sempre stato. Egli aveva predicato, nelle sue continue
e gratuite omelie, il rispetto e l’amore che bisogna avere per una
divinità forte e spietata, altro che il Dio misericordioso, quello
che ci insegnò la “pietas cristiana”, come affermavano gli
sdolcinati (secondo lui), preti del tempo.
Petronio
voleva che il vero cristiano non perdonasse, ma che ammazzasse senza
pietà eretici ed ebrei (specialmente),
che
ne bruciasse i libri e le case, che ne annientasse il pensiero.
Venne
cacciato (come vennero cacciati altri gesuiti), dalle nuove idee
della Chiesa e dalla forza dell’Illuminismo. Per ciò trovò la
nuova fonte del suo credo in una setta che gli era congeniale: si
mise ad adorare chi, indubbiamente la pensava come lui, la bestia
immonda, satana.
In
quegli anni le sette sataniche avevano conosciuto una grande ascesa
in tutta l’Europa.
Dall’Emilia,
dove si avevano notizie di ex preti ed ex monache passate al nemico,
pervasi specialmente da ossessioni sessuali, all’Inghilterra dove
furono coinvolti seguaci di San Francesco, alla Francia, dove
qualcuno aveva affermato che la stessa Rivoluzione fu opera dei
satanisti.
Il
tutto era condito di magia nera, messe nere, ostie rovesciate e
preghiere blasfeme.
Petronio
e la sua banda non si facevano mancare niente di tutto ciò.
Ma
quello che più lo faceva godere era il sacrificio, meglio se
cruento, degli animali (che, tanto, non avrebbero potuto difendersi).
Aveva
trovato infatti, grazie a questo editto, un nuovo e remunerativo
lavoro - e certo non gli dispiaceva - nell'ammazzare cani.
Ne
portava al macello, dove si concentrava la carneficina, anche
quindici al giorno, scuoiati, ammazzati con colpi di martello alla
testa o con un coltello da cucina affondato nelle carni magre di
bestiole affamate; alcuni arrivavano ancora vivi e in agonia. Ma non
c’erano solo i cani:
"I
gatti venivano ammazzati e la loro
carne
era venduta a soldi 34 la libbra",
annotò
nel suo diario Pompeo, amareggiato; sia per i gatti che per coloro i
quali erano costretti a cibarsene, spesso senza saperlo.
Mal
sopportava l'idea che i francesi - i quali, arrivati a questo punto,
avrebbero fatto meglio ad arrendersi alle potenze alleate -
escogitassero sempre nuovi sistemi per prolungare la loro improbabile
resistenza e, con essa, l'agonia dei veneziani.
"In
tal guisa va scemando il numero degli
inutili
consumatori
di pane"
Scrisse,
forse ironicamente sul suo diario, mentre si chiedeva chi sarebbe
stata - dopo cani e gatti - la nuova vittima della follia del
dittatore; forse i bambini? Vedremo, in seguito, che non si sbagliò.
Il
cane di Gino si chiamava Bartolomeo. Questo, in onore di un antico
condottiero che aveva combattuto valorosamente per la Repubblica
Serenissima e che, dice la fantasia popolare, era dotato di un numero
maggiore di testicoli di quanti ne possegga, di solito, un essere
umano; da ciò il soprannome di "Colleoni".
Anche
quel cagnetto, in effetti, possedeva qualcosa in più oltre alle due
sfere che la natura dona ai maschi di molte specie animali ma, che
fosse un terzo testicolo o un qualche altro malanno sconosciuto alla
scienza dell’epoca non si era mai potuto sapere, perché la
medicina ancora non aveva fatto passi da gigante come successe in
seguito.
Fatto
sta che il bastardino era dotato di una simpatia eccezionale ed il
padrone, rimasto solo dopo la morte della moglie e la scomparsa dei
due figli (uno per malattia, l'altro era andato a combattere con
Napoleone, ma nessuno aveva saputo in quale paese del Mondo), lo
considerava come una sua creatura. Gino giocava spesso con
Bartolomeo, ci parlava assieme; qualcuno li aveva visti anche
piangere assieme.
Mai
aveva fatto mancare il cibo al suo amico, anche quando aveva dovuto
toglierselo dalla bocca.
"Mangia
anche tu" gli diceva sempre, "che anche tu sei una creatura
di Dio, e poi questi sono gli ultimi sforzi, tra un po' i francesi se
ne andranno e noi potremmo mangiare, lavorare, vivere, e tornerà
anche mio figlio".
Bartolomeo
sembrava ascoltarlo, muoveva la coda, raddrizzava le orecchie, gli
leccava le mani come a benedirle.
Quel
triste mattino in cui incontrarono il satanico Petronio, stavano
passeggiando assieme per la "fondamenta della Misericordia"
e Gino teneva tra le mani un po' di formaggio vecchio ch'era riuscito
a procurarsi attraverso alcuni amici che continuavano, eroicamente, a
fare del contrabbando.
Il
losco individuo si chinò verso il cane, come per accarezzarlo; Gino
abbozzò un sorriso, ma s'accorse, troppo tardi, che l'ammazzacani
aveva tirato fuori il suo coltello affilato e lo stava usando contro
il suo migliore amico. Petronio aveva conficcato la fredda lama
dentro la bocca della bestiola. Al primo colpo ne era uscito un
fiotto di sangue e alcuni denti; il cane guaiva. Il secondo colpo fu
diretto alla gola e, probabilmente, lasciò all'animale pochi minuti
di vita. Gino saltò addosso all'assassino, gli gettò in acqua il
coltello e iniziò a stringergli la carotide con le sue forti mani.
"te
copo, te copo" urlava come un ossesso, ma subito intervennero
due soldati francesi che lo presero di cattiveria e lo sbatterono
nella cella di un carcere lì vicino, ai santi Apostoli.
Il
lavoro di Petronio fu pagato col povero formaggio che Gino teneva
chiuso nella carta, visto che di soldi per la multa non ne aveva.
L’acchiappacani lo annusò e, con una smorfia, disse che si
accontentava, mentre i francesi inveirono contro i veneziani come
Gino che, oltre a tenere in vita i cani, continuavano a fare del
contrabbando e a non collaborare con loro.
La
carcassa del povero Bartolomeo fu portata al macello.
Ma
in tempi in cui nulla restava da sperare, la forza ironica dei
veneziani era dura a morire.
Qualcuno
scrisse, in lingua latina, un verso anonimo:
"Pellere
ad Urbe canes,
morti
et vult tradere Seras.
Quis
neget infestos furibus esse canes?"
L'offesa
verso il terribile Seras, l'essere più odiato dopo Napoleone, era
semplice da comprendere per chi conosceva il gergo dove, se alla
parola morti si aggiunge cani, si ottiene un insulto verso gli avi
della persona indicata. E proseguiva maledicendo il fatto che si
dovette mangiare pane alla crusca:
“Pauperibus
dantur puro cum furfure panes,
at
solum gallis convenit iste cibus.”
Chissà
di che galli parlava? Forse dei galletti d’oltralpe.
Ma
a parte gli individui come Petronio, il resto della gente in città
tentò di nascondere gli animali, tanto, si pensava, l'ora della
liberazione era vicina.
E
Pompeo così annotò nel suo diario, facendo capire quanto poco
ascoltato fosse stato quell’ ordinamento :
“L’avviso
pubblicato nel 21 corrente che ordina l’uccisione de’ cani non ha
sortito l’effetto desiderato. Se ne vedono molti vaganti per la
città, od accompagnati da’ loro padroni, senza che ad alcuno venga
il pensiero di ammazzarli. Il poco desiderio di approfittare del
premio promesso
nasce dal debito, che incombe
all’uccisore,
d’indicare il padrone del cane per sottoporlo alla penale, senza di
che non lo conseguisce. Questa difficoltà salva la vita ai cani
vaganti : se poi si tentasse di superare tale difficoltà,
aggredendo il cane quando è accompagnato dal padrone, allora nasce
l’altro più grave impedimento, accagionato dalla presenza del
padrone medesimo che tutto arrischia per difender la vita del suo
fedele compagno. Per tal causa l’effetto della decisione superiore
va a ridursi a nessun risultato”.
A
Pompeo vennero in mente le parole pronunciate migliaia di anni fa da
un grande filosofo:
"Più
conosco gli uomini
più
mi affeziono al mio cane"
E
capì che erano molto attuali.
Come
sempre è attuale la ferocia dell’animale più feroce: quello che
crea dittatori, si organizza in eserciti che vanno in giro a stuprare
e a rubare, che fabbrica armi e che, prima o dopo, con qualche
ordigno satanico distruggerà il Mondo intero.
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