Affamati
e disperati
Pompeo
si svegliò al mattino presto, così tanto di buon umore come si può
esserlo dopo una atroce nottata di incubi.
Da
un pertugio tra i marmi entrò uno spiraglio di sole ma, almeno così
gli parve, anche un fetido alone di muffa e di miseria.
Era
il sette di marzo del 1814.
Sulla
strada per arrivare alla sede del Giornale Dipartimentale dove, quel
giorno, ben poco ci sarebbe stato da lavorare, Pompeo dovette
scavalcare un numero infinito di poveri corpi, molti dei quali erano
maleodoranti, come si conviene ai cadaveri in putrefazione. Forse
qualcuno già morto lo era, mentre altri aspiravano a diventarlo e
stavano seduti a terra, chiusi in sé stessi come insetti in un
bozzolo, tremanti, chiedendo pietà, ma senza alcuna speranza di
essere ascoltati. Pompeo riconobbe ad un certo punto, tra quei
terribili morti viventi, alcune sembianze che gli erano familiari.
Era
gente che, fino a qualche tempo prima, viveva, o pareva vivesse, con
tanta dignità qualcuno, addirittura, con nobiltà.
Si
fermò un attimo, poi proseguì, con angoscia, per la sua strada
conscio sempre più della sua impotenza.
Alla
sede del giornale incontrò facce stanche e sconsolate. Le uniche
notizie arrivavano censurate dal ferreo controllo del governatore
Seras: "i cittadini poveri" - recitava freddamente un
comunicato dell'anagrafe - "si possono calcolare in 44.167
unità".
Ciò
significava che un veneziano ogni tre era ridotto alla fame. E gli
altri due non se la passavano di certo molto meglio. Perfino i
negozianti, con le loro botteghe vuote, abbandonate persino dai topi,
suscitavano la pubblica compassione.
Un
numero sempre crescente di infermi e di infettati affollava gli
ospedali già pieni di pazzi, di vecchi in ricovero, di ammalati
cronici. Negli orfanotrofi stazionavano, sempre secondo le fonti che
giungevano in redazione, 1.113 bambini; sicuramente, queste erano le
creature più disperate.
"E'
inutile che cerchiamo di scrivere qualcosa" - sospirò Gino, uno
dei colleghi di Pompeo, alzando la penna da un vecchio foglio, già
ingiallito prima ancora di essere usato.
"Ma
cossa ti vol scriver? - gli rispose Pompeo, senza nemmeno alzare gli
occhi da terra - quello che vogliono i francesi?"
Le
notizie da pubblicare, quando si riusciva a pubblicare qualcosa,
erano dettate direttamente dall'odioso governatore ed erano notizie
provenienti dalla stessa città. Ormai da fuori della laguna non
giungeva più nulla, come se, lì fuori, il Mondo fosse finito.
Uscito
in fondamenta del vin, scorse un gruppo di giovani, e qualche
anziano, che andavano a portare aiuti ai più disgraziati.
Erano
i volontari che curavano gli ammalati, preparavano zuppe di legumi e
pani con l'uva utilizzando farina di patate, portavano l'acqua dove
c'era bisogno. Una specie di nenia triste si levava tra di loro. Si
trattava di una vecchissima canzone, in voga nei tempi d'oro della
Serenissima, ch'essi intonavano tra loro, come per darsi coraggio.
"Ciao
Tullio" - gridò ad uno dei giovani.
"Servo
vostro, Pompeo" - risposero quasi tutti.
"Che
Dio ti assista" - gli disse uno dei volontari più anziani.
"Dio
sia lodato - rispose - ma a molti altri, più di me, serve la sua
assistenza.
"Nialtri
semo qua par questo" rispose il volontario, mentre il gruppo si
allontanava. erano tipi di poche parole e di molti fatti.
Il
giovane pensò che non si smentiva neanche allora la grande
tradizione di solidarietà che, da molti secoli, era insita
nell'animo di quella gente; era come una parte del carattere dei
veneziani (già molto variegato e difficilmente classificabile) visto
che da molti anni, la sola città lagunare contava più di duemila
associazioni di volontariato di ogni tipo: dalla difesa delle giovani
donne all'assistenza ai poveri carcerati, alla cura degli infermi,
dei poveri senza lavoro, dei derelitti cronici.
E
non si interpretava, in quei tristi giorni, solo il dettato
evangelico "dai da mangiare agli affamati...", visto che
molti di quegli uomini, e donne, di buona volontà erano anche
veneziani ebrei o cittadini turchi e perciò musulmani, greci
ortodossi e tedeschi protestanti. Molti di loro erano rimasti a
Venezia quando tutti gli altri stranieri se n'erano andati ed ora, in
quell' inferno generale aiutavano gli altri. Ovviamente quelli che
ancora erano in grado farlo.
Assieme
a Gino si diresse, come sempre, verso piazza san Marco. Tentò, con
orrore mal celato, di passare per il ponte di Rialto.
Ma
il ponte, vero cuore della città, non poteva essere attraversato
senza un tremito al cuore e senza che il piede poggiasse incerto, sul
primo scalino.
In
quel giorno livido di marzo, si presentò ai suoi occhi uno
spettacolo atroce: ad ogni gradino sostava una famiglia veneziana
che, persa ormai ogni dignità, mendicava a mano tesa qualsiasi cosa
potesse riempire lo stomaco.
Mani
incallite di vecchi che avevano sempre lavorato, utilizzando il remo
o la vanga, mani di donne che in altri tempi avrebbero potuto
affascinare uomini di tutto il mondo, manine di bimbi che poco o
nulla avevano conosciuto della vita.
Era
un quadro che nessun pittore si azzardò mai a tramandare ai posteri,
una Venezia in putrefazione il cui ricordo, nei secoli a venire, non
desterà più interesse per gli altri europei, ma solo imbarazzo.
E
pensare che, da secoli, gli artisti facevano a gara per riprodurre
nelle loro opere i suoi colori, le sue atmosfere, la sua incredibile
originalità.
Eppure
qualcuno avrebbe potuto aiutare i veneziani. Bastava solo che la loro
città fosse stata lasciata libera: al resto, quei marinai, quei
carpentieri, quegli imprenditori ci avrebbero pensato da soli.
Ma
gli stranieri si facevano la guerra tra di loro e, mentre i francesi
continuavano a governare, lì fuori – ai margini della laguna -
austriaci e inglesi bloccavano l'accesso ai viveri e a tutto quello
di cui i veneziani, ciosoti, buranelli e tutti gli altri rimasti,
ormai da tanto tempo necessitavano.
Il
nove di marzo, poi, una notizia assolutamente incredibile fece il
giro della città. Pompeo, nel sentirla provò rabbia e dolore: Il
proprietario di alcune barche che, con scaltrezza, abilità e
rischiando la propria vita, riusciva spesso a trasportare cibi da
Trieste a Venezia, venne arrestato, creando sorpresa e sconforto in
tutta la città.
Si
ignoravano i motivi dell'arresto. Contrabbando? Forse, ma lo zelo
delle guardie sembrò in quei momenti atroci, un po' fuori luogo.
Myriam,
colei che Pompeo considerava la sua donna, piangeva.
Egli
non l'aveva mai vista piangere, né mai avrebbe immaginato che
potesse farlo, e ciò gli spezzava il cuore.
In
quei giorni di morte se n'era andato anche quel grand'uomo del
rabbino Caliman Jenna. Egli s'era spento nella notte, il giorno
quattordici di marzo. Per Myriam non era soltanto uno zio, era quello
che le insegnava la vita. Il lutto non toccò solamente la comunità
ebraica.
Egli
fu una personalità troppo elevata; fu un saggio ed un giusto in
tempi in cui ognuno aveva perso la via dei propri valori morali, in
cui tutta la città del mare veleggiava senza bussola in un cielo
scuro, senza stelle.
Non
poteva essere dimenticato.
Anche
la parrocchia di san Geremia si riunì per ricordarlo, perché il
parroco era un suo grande amico e tanto aiuto aveva ricevuto per i
suoi poveri. Quell' uomo aveva fatto moltissima beneficenza a tutti,
ebrei o cattolici che fossero, ed ora la sua anima veniva
raccomandata a Dio: pregando in ebraico o in veneziano, ma con la
stessa grande fede nel Signore.
Così
come sempre dovrebbe accadere per le anime dei giusti.
Mentre
tornava a casa dal cimitero ebraico che sorge nell'isola del Lido, a
bordo di una sgangherata barchetta con un remo solo, Pompeo scorse,
quasi divertito, la barca dei disgraziati capitanata dal conte di
Lendinara. Essi stavano tornando dalla loro insana avventura, nel
tentativo abortito di raggiungere Trieste. Erano infreddoliti,
bianchi come scheletri. Il loro aplomb di gente nobile era svanito
del tutto, tra le nebbie che attraversavano la laguna e i flutti di
quel freddo mare che circonda Venezia.
Egli
osservò che stavano trangugiando qualcosa che aveva la parvenza di
un buon vino.
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