domenica 7 giugno 2020

" Venezia in catene" Capitolo XII



Affamati e disperati



Pompeo si svegliò al mattino presto, così tanto di buon umore come si può esserlo dopo una atroce nottata di incubi.
Da un pertugio tra i marmi entrò uno spiraglio di sole ma, almeno così gli parve, anche un fetido alone di muffa e di miseria.
Era il sette di marzo del 1814.
Sulla strada per arrivare alla sede del Giornale Dipartimentale dove, quel giorno, ben poco ci sarebbe stato da lavorare, Pompeo dovette scavalcare un numero infinito di poveri corpi, molti dei quali erano maleodoranti, come si conviene ai cadaveri in putrefazione. Forse qualcuno già morto lo era, mentre altri aspiravano a diventarlo e stavano seduti a terra, chiusi in sé stessi come insetti in un bozzolo, tremanti, chiedendo pietà, ma senza alcuna speranza di essere ascoltati. Pompeo riconobbe ad un certo punto, tra quei terribili morti viventi, alcune sembianze che gli erano familiari.
Era gente che, fino a qualche tempo prima, viveva, o pareva vivesse, con tanta dignità qualcuno, addirittura, con nobiltà.
Si fermò un attimo, poi proseguì, con angoscia, per la sua strada conscio sempre più della sua impotenza.
Alla sede del giornale incontrò facce stanche e sconsolate. Le uniche notizie arrivavano censurate dal ferreo controllo del governatore Seras: "i cittadini poveri" - recitava freddamente un comunicato dell'anagrafe - "si possono calcolare in 44.167 unità".
Ciò significava che un veneziano ogni tre era ridotto alla fame. E gli altri due non se la passavano di certo molto meglio. Perfino i negozianti, con le loro botteghe vuote, abbandonate persino dai topi, suscitavano la pubblica compassione.
Un numero sempre crescente di infermi e di infettati affollava gli ospedali già pieni di pazzi, di vecchi in ricovero, di ammalati cronici. Negli orfanotrofi stazionavano, sempre secondo le fonti che giungevano in redazione, 1.113 bambini; sicuramente, queste erano le creature più disperate.
"E' inutile che cerchiamo di scrivere qualcosa" - sospirò Gino, uno dei colleghi di Pompeo, alzando la penna da un vecchio foglio, già ingiallito prima ancora di essere usato.
"Ma cossa ti vol scriver? - gli rispose Pompeo, senza nemmeno alzare gli occhi da terra - quello che vogliono i francesi?"
Le notizie da pubblicare, quando si riusciva a pubblicare qualcosa, erano dettate direttamente dall'odioso governatore ed erano notizie provenienti dalla stessa città. Ormai da fuori della laguna non giungeva più nulla, come se, lì fuori, il Mondo fosse finito.
Uscito in fondamenta del vin, scorse un gruppo di giovani, e qualche anziano, che andavano a portare aiuti ai più disgraziati.
Erano i volontari che curavano gli ammalati, preparavano zuppe di legumi e pani con l'uva utilizzando farina di patate, portavano l'acqua dove c'era bisogno. Una specie di nenia triste si levava tra di loro. Si trattava di una vecchissima canzone, in voga nei tempi d'oro della Serenissima, ch'essi intonavano tra loro, come per darsi coraggio.
"Ciao Tullio" - gridò ad uno dei giovani.
"Servo vostro, Pompeo" - risposero quasi tutti.
"Che Dio ti assista" - gli disse uno dei volontari più anziani.
"Dio sia lodato - rispose - ma a molti altri, più di me, serve la sua assistenza.
"Nialtri semo qua par questo" rispose il volontario, mentre il gruppo si allontanava. erano tipi di poche parole e di molti fatti.
Il giovane pensò che non si smentiva neanche allora la grande tradizione di solidarietà che, da molti secoli, era insita nell'animo di quella gente; era come una parte del carattere dei veneziani (già molto variegato e difficilmente classificabile) visto che da molti anni, la sola città lagunare contava più di duemila associazioni di volontariato di ogni tipo: dalla difesa delle giovani donne all'assistenza ai poveri carcerati, alla cura degli infermi, dei poveri senza lavoro, dei derelitti cronici.
E non si interpretava, in quei tristi giorni, solo il dettato evangelico "dai da mangiare agli affamati...", visto che molti di quegli uomini, e donne, di buona volontà erano anche veneziani ebrei o cittadini turchi e perciò musulmani, greci ortodossi e tedeschi protestanti. Molti di loro erano rimasti a Venezia quando tutti gli altri stranieri se n'erano andati ed ora, in quell' inferno generale aiutavano gli altri. Ovviamente quelli che ancora erano in grado farlo.

Assieme a Gino si diresse, come sempre, verso piazza san Marco. Tentò, con orrore mal celato, di passare per il ponte di Rialto.
Ma il ponte, vero cuore della città, non poteva essere attraversato senza un tremito al cuore e senza che il piede poggiasse incerto, sul primo scalino.
In quel giorno livido di marzo, si presentò ai suoi occhi uno spettacolo atroce: ad ogni gradino sostava una famiglia veneziana che, persa ormai ogni dignità, mendicava a mano tesa qualsiasi cosa potesse riempire lo stomaco.
Mani incallite di vecchi che avevano sempre lavorato, utilizzando il remo o la vanga, mani di donne che in altri tempi avrebbero potuto affascinare uomini di tutto il mondo, manine di bimbi che poco o nulla avevano conosciuto della vita.
Era un quadro che nessun pittore si azzardò mai a tramandare ai posteri, una Venezia in putrefazione il cui ricordo, nei secoli a venire, non desterà più interesse per gli altri europei, ma solo imbarazzo.
E pensare che, da secoli, gli artisti facevano a gara per riprodurre nelle loro opere i suoi colori, le sue atmosfere, la sua incredibile originalità.
Eppure qualcuno avrebbe potuto aiutare i veneziani. Bastava solo che la loro città fosse stata lasciata libera: al resto, quei marinai, quei carpentieri, quegli imprenditori ci avrebbero pensato da soli.
Ma gli stranieri si facevano la guerra tra di loro e, mentre i francesi continuavano a governare, lì fuori – ai margini della laguna - austriaci e inglesi bloccavano l'accesso ai viveri e a tutto quello di cui i veneziani, ciosoti, buranelli e tutti gli altri rimasti, ormai da tanto tempo necessitavano.
Il nove di marzo, poi, una notizia assolutamente incredibile fece il giro della città. Pompeo, nel sentirla provò rabbia e dolore: Il proprietario di alcune barche che, con scaltrezza, abilità e rischiando la propria vita, riusciva spesso a trasportare cibi da Trieste a Venezia, venne arrestato, creando sorpresa e sconforto in tutta la città.
Si ignoravano i motivi dell'arresto. Contrabbando? Forse, ma lo zelo delle guardie sembrò in quei momenti atroci, un po' fuori luogo.



Myriam, colei che Pompeo considerava la sua donna, piangeva.
Egli non l'aveva mai vista piangere, né mai avrebbe immaginato che potesse farlo, e ciò gli spezzava il cuore.
In quei giorni di morte se n'era andato anche quel grand'uomo del rabbino Caliman Jenna. Egli s'era spento nella notte, il giorno quattordici di marzo. Per Myriam non era soltanto uno zio, era quello che le insegnava la vita. Il lutto non toccò solamente la comunità ebraica.
Egli fu una personalità troppo elevata; fu un saggio ed un giusto in tempi in cui ognuno aveva perso la via dei propri valori morali, in cui tutta la città del mare veleggiava senza bussola in un cielo scuro, senza stelle.
Non poteva essere dimenticato.
Anche la parrocchia di san Geremia si riunì per ricordarlo, perché il parroco era un suo grande amico e tanto aiuto aveva ricevuto per i suoi poveri. Quell' uomo aveva fatto moltissima beneficenza a tutti, ebrei o cattolici che fossero, ed ora la sua anima veniva raccomandata a Dio: pregando in ebraico o in veneziano, ma con la stessa grande fede nel Signore.
Così come sempre dovrebbe accadere per le anime dei giusti.

Mentre tornava a casa dal cimitero ebraico che sorge nell'isola del Lido, a bordo di una sgangherata barchetta con un remo solo, Pompeo scorse, quasi divertito, la barca dei disgraziati capitanata dal conte di Lendinara. Essi stavano tornando dalla loro insana avventura, nel tentativo abortito di raggiungere Trieste. Erano infreddoliti, bianchi come scheletri. Il loro aplomb di gente nobile era svanito del tutto, tra le nebbie che attraversavano la laguna e i flutti di quel freddo mare che circonda Venezia.
Egli osservò che stavano trangugiando qualcosa che aveva la parvenza di un buon vino.




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