giovedì 25 giugno 2020

" Venezia in Catene" Capitolo XVI




Austriaci



Venezia, Mercoledì 20 aprile 1814,

Quel mattino, sul "Giornale Dipartimentale Adriatico" si lesse questo editto:

"Il Commissario Generale di polizia,
volendo che la tranquillità pubblica
sia rigorosamente mantenuta, ordina:
E' proibito ogni sorta di applauso,
o di disapprovazione verso qualunque persona,
sia militare che civile,
E' pure vietato qualunque riunione
ed attruppamento di persone diretto
a turbare la quiete pubblica,
I perturbatori saranno arrestati,
e tradotti avanti a un tribunale
militare per esser giudicati."

Ma il clima risultava tutt’altro che sereno.
Allora si decise, alle cinque del mattino, la rimozione dalla piazza dell’alta statua del dittatore col Mondo in mano, che là non poteva proprio restare. Anche perchè in quel mentre, l’originale - cioè il signor Bonaparte in persona - era già stato spedito all’isola d’Elba.
La scelta dell'orario l’aveva fatta il governatore allo scopo di scoraggiare eventuali contestazioni di popolo…ebbene, sortì proprio l'effetto contrario: se durante tutta la notte una massa di persone si era riversata in piazza per ingiuriare e sputare contro la statua, alle prime luci dell'alba il popolo arrabbiato era ancora tutto lì, anzi le file s’erano ingrossate, ad urlare e ad imprecare contro il simbolo marmoreo del condottiero francese, e pareva che nessun genere di miracolo potesse calmare quegli animi tanto esagitati.
A vedere quelle facce irate, quei volti tesi che parevano aver perso ogni traccia di ironia e di sagacia, un tempo tipiche del carattere veneziano, vennero in mente le profetiche parole pronunciate dallo stesso Napoleone nel giorno, ormai lontano, 2 ottobre del 1796:

"Di tutti i popoli d'Italia, il veneziano
è quello che ci odia di più".

Pochi mesi dopo ch’egli aveva pronunciato quelle parole crollò la millenaria Repubblica del Leone alato, crollarono gli animi dei veneziani, le loro ricchezze, la loro arte, la loro cultura. Adesso, più incivili di prima, anche per colpa di chi, come il còrso, aveva travisato lo spirito grandioso di una rivoluzione, urlavano alla stregua di ossessi, di barbari delle foreste, come se tutti fossero tornati indietro col tempo, con la clava in mano, le unghie sporche e la bava alla bocca.
L'odio - quello puro e genuino, maturato in anni di rabbia repressa - quasi fosse un corpo vivo, una cosa materiale, in quel mattino di primavera si poteva toccare con mano.
Poi la statua, rimossa a fatica e spezzettata involontariamente, venne imbarcata alla volta dell'isola di san Giorgio dove fu nascosta.
Ma la rabbia, ancora non accennava a placarsi.
Il popolino, specie quello più basso e ignorante, fremeva alla ricerca di un qualcosa contro cui sfogarsi, di un capro espiatorio qualsiasi, come sempre accade.
"I ebrei, i ebrei, daghe ai ebrei." L'urlo esplose verso le otto, che era già mattino fatto. Un urlo che concentrò la rabbia di una notte passata all'addiaccio, l'intolleranza della plebe più grezza e quel tanto di cattiveria che ogni essere umano, a qualsiasi latitudine ed in qualsiasi epoca, tiene racchiusa dentro di sé.
Che cosa c'entrasse la comunità degli ebrei (presente a Venezia da circa trecento anni), era ben difficile da comprendere. Qualcuno li odiava per il presunto aiuto fornito da molti di loro alla municipalità democratica , quando le porte del loro ghetto furono finalmente aperte, dopo secoli, dal nuovo governo democratico.
Fatto sta che alcuni facinorosi diedero inizio ad una caccia all'uomo vera e propria. Giovanni Pace, un medico assai valente, conosciuto e stimato in città, venne preso a schiaffi e calci. Altri ebrei, tra cui un anziano che si aiutava a camminare con un bastone, vennero aggrediti brutalmente.
Un gruppo numeroso e aggressivo si mise ad inseguire altri due: si trattava del rabbino, un signore di una certa età esperto in teologia che seguiva tesi azzardate per quell’epoca e di un romano.
Mentre gli gridavano :
Dagli all’ebreo…ammazza gli assassini di Cristo”
Egli fieramente rispondeva col fiatone:
Non abbiamo ucciso noi Cristo sono stati i romani…”
Assieme a lui scappava anche il signor Giovanni Corradi, povero padre di famiglia numerosa, da poco giunto a vivere a Venezia, proveniente dallo Stato Pontificio.
Ma che stai a dì…- gli urlava in romanesco – io sò ebbreo e pure romano, vuoi che m’ammazzino subbito?
In realtà, la tesi del teologo circa la morte del Redentore era semplice ed ineccepibile: secondo lui furono i romani e soltanto loro, mille e ottocento anni prima, ad ammazzarlo in croce, sorte che l’impero dei Cesari destinava agli esseri più indegni, a chi si era macchiato dei reati più infami.
A chi gettava la colpa sugli ebrei che, presenti davanti a Ponzio Pilato, avevano urlato: “Barabba, Barabba libero”, provocando la grazia al ladrone e la condanna a morte di Cristo, egli rispondeva che quegli ebrei non potrebbero essere stati più di una cinquantina, al massimo sessanta perdigiorno (una piazza di un paese del medio oriente di quel periodo non era così larga da poter contenere più di tante persone), i quali non avevano da lavorare duramente come stava facendo, invece, la maggioranza degli altri ebrei; molti di loro, poi, erano parenti stretti del Barabba ed erano andati lì apposta per sostenere la sua liberazione.
Fatto sta, quindi, che il Figlio di Dio che si è incarnato per salvare donne e uomini, e voleva portarci la fratellanza, forse anche l’uguaglianza, di certo la libertà da Satana, venne ucciso proprio da un Imperatore, uguale all’Imperatore francese che a quello si era ispirato e che parlava spropositatamente di libertà, fratellanza, eguaglianza.

Il comandante militare riuscì ben presto a sedare i tumulti in piazza, però le violenze continuarono lungo le zone nascoste della città e continuarono per diverso tempo.
Fu verso le tre del pomeriggio che Pompeo, avvisato da un ragazzino, venne a sapere che alcuni facinorosi stavano aggredendo Myriam. Corse fuori e la trovò distesa a terra, davanti alla chiesa dell'abbazia, non molto lontano dal ghetto, mentre due energumeni, che l'avevano quasi spogliata tutta, la stavano malmenando per poi violentarla. I due fuggirono, anche perché stava arrivando un drappello di polizia con i colpi di fucile già in canna.
Myriam e Pompeo si ritrovarono, per un istante, nuovamente vicinissimi. La vista della ragazza, anche in quella situazione,gli scatenò una tempesta dentro al cervello e non solo.
La ragazza se ne stava con gli occhi bassi e l'espressione attonita, quasi vergognosa. Dagli occhi le scendevano alcune lacrime che andavano a bagnare le carni rosso porpora della sua bocca. Dalle vesti sgualcite brutalmente spuntava un seno splendido, non troppo piccolino, la cui punta aveva lo stesso colore delle sue labbra. Per pochi secondi Pompeo, dimentico di tutto, pensò di toccare il paradiso.
La strinse tra le sue braccia e sentì che il cuore di lei batteva, se possibile, ancora più forte del suo.
Dai suoi occhi nerissimi arrivava lo sguardo che Pompeo avrebbe voluto tenere per sé, per tutta la vita.
Era due della setta – disse lei – quelli che odiano il mio popolo più di tutti gli altri. Quelli di Petronio”.
Quello che l'altro giorno si divertiva tanto ad ammazzare i cani?”
Si proprio lui.”
Sia stramaledetto in eterno.”
Un morbido bacio scoppiò all'improvviso, così come all'improvviso scoppiano i terremoti e le alluvioni.
Il contatto con le labbra carnose di lei e le due lingue che si incontravano, diedero al giovane la sensazione di essere precipitato dentro un pozzo senza fine, di non sentire più la forza di gravità.
Era quella, finalmente, una splendida sensazione felicità.

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