Austriaci
Venezia,
Mercoledì 20 aprile 1814,
Quel
mattino, sul "Giornale Dipartimentale Adriatico" si lesse
questo editto:
"Il
Commissario Generale di polizia,
volendo
che la tranquillità pubblica
sia
rigorosamente mantenuta, ordina:
E'
proibito ogni sorta di applauso,
o
di disapprovazione verso qualunque persona,
sia
militare che civile,
E'
pure vietato qualunque riunione
ed
attruppamento di persone diretto
a
turbare la quiete pubblica,
I
perturbatori saranno arrestati,
e
tradotti avanti a un tribunale
militare
per esser giudicati."
Ma
il clima risultava tutt’altro che sereno.
Allora
si decise, alle cinque del mattino, la rimozione dalla piazza
dell’alta statua del dittatore col Mondo in mano, che là non
poteva proprio restare. Anche perchè in quel mentre, l’originale -
cioè il signor Bonaparte in persona - era già stato spedito
all’isola d’Elba.
La
scelta dell'orario l’aveva fatta il governatore allo scopo di
scoraggiare eventuali contestazioni di popolo…ebbene, sortì
proprio l'effetto contrario: se durante tutta la notte una massa di
persone si era riversata in piazza per ingiuriare e sputare contro la
statua, alle prime luci dell'alba il popolo arrabbiato era ancora
tutto lì, anzi le file s’erano ingrossate, ad urlare e ad
imprecare contro il simbolo marmoreo del condottiero francese, e
pareva che nessun genere di miracolo potesse calmare quegli animi
tanto esagitati.
A
vedere quelle facce irate, quei volti tesi che parevano aver perso
ogni traccia di ironia e di sagacia, un tempo tipiche del carattere
veneziano, vennero in mente le profetiche parole pronunciate dallo
stesso Napoleone nel giorno, ormai lontano, 2 ottobre del 1796:
"Di
tutti i popoli d'Italia, il veneziano
è
quello che ci odia di più".
Pochi
mesi dopo ch’egli aveva pronunciato quelle parole crollò la
millenaria Repubblica del Leone alato, crollarono gli animi dei
veneziani, le loro ricchezze, la loro arte, la loro cultura. Adesso,
più incivili di prima, anche per colpa di chi, come il còrso, aveva
travisato lo spirito grandioso di una rivoluzione, urlavano alla
stregua di ossessi, di barbari delle foreste, come se tutti fossero
tornati indietro col tempo, con la clava in mano, le unghie sporche e
la bava alla bocca.
L'odio
- quello puro e genuino, maturato in anni di rabbia repressa - quasi
fosse un corpo vivo, una cosa materiale, in quel mattino di
primavera si poteva toccare con mano.
Poi
la statua, rimossa a fatica e spezzettata involontariamente, venne
imbarcata alla volta dell'isola di san Giorgio dove fu nascosta.
Ma
la rabbia, ancora non accennava a placarsi.
Il
popolino, specie quello più basso e ignorante, fremeva alla ricerca
di un qualcosa contro cui sfogarsi, di un capro espiatorio qualsiasi,
come sempre accade.
"I
ebrei, i ebrei, daghe ai ebrei." L'urlo esplose verso le otto,
che era già mattino fatto. Un urlo che concentrò la rabbia di una
notte passata all'addiaccio, l'intolleranza della plebe più grezza e
quel tanto di cattiveria che ogni essere umano, a qualsiasi
latitudine ed in qualsiasi epoca, tiene racchiusa dentro di sé.
Che
cosa c'entrasse la comunità degli ebrei (presente a Venezia da circa
trecento anni), era ben difficile da comprendere. Qualcuno li odiava
per il presunto aiuto fornito da molti di loro alla municipalità
democratica , quando le porte del loro ghetto furono finalmente
aperte, dopo secoli, dal nuovo governo democratico.
Fatto
sta che alcuni facinorosi diedero inizio ad una caccia all'uomo vera
e propria. Giovanni Pace, un medico assai valente, conosciuto e
stimato in città, venne preso a schiaffi e calci. Altri ebrei, tra
cui un anziano che si aiutava a camminare con un bastone, vennero
aggrediti brutalmente.
Un
gruppo numeroso e aggressivo si mise ad inseguire altri due: si
trattava del rabbino, un signore di una certa età esperto in
teologia che seguiva tesi azzardate per quell’epoca e di un romano.
Mentre
gli gridavano :
”Dagli
all’ebreo…ammazza gli assassini di Cristo”
Egli
fieramente rispondeva col fiatone:
“Non
abbiamo ucciso noi Cristo sono stati i romani…”
Assieme
a lui scappava anche il signor Giovanni Corradi, povero padre di
famiglia numerosa, da poco giunto a vivere a Venezia, proveniente
dallo Stato Pontificio.
“Ma
che stai a dì…- gli urlava in romanesco – io sò ebbreo e pure
romano, vuoi che m’ammazzino subbito?
In
realtà, la tesi del teologo circa la morte del Redentore era
semplice ed ineccepibile: secondo lui furono i romani e soltanto
loro, mille e ottocento anni prima, ad ammazzarlo in croce, sorte che
l’impero dei Cesari destinava agli esseri più indegni, a chi si
era macchiato dei reati più infami.
A
chi gettava la colpa sugli ebrei che, presenti davanti a Ponzio
Pilato, avevano urlato: “Barabba, Barabba libero”, provocando la
grazia al ladrone e la condanna a morte di Cristo, egli rispondeva
che quegli ebrei non potrebbero essere stati più di una cinquantina,
al massimo sessanta perdigiorno (una piazza di un paese del medio
oriente di quel periodo non era così larga da poter contenere più
di tante persone), i quali non avevano da lavorare duramente come
stava facendo, invece, la maggioranza degli altri ebrei; molti di
loro, poi, erano parenti stretti del Barabba ed erano andati lì
apposta per sostenere la sua liberazione.
Fatto
sta, quindi, che il Figlio di Dio che si è incarnato per salvare
donne e uomini, e voleva portarci la fratellanza, forse anche
l’uguaglianza, di certo la libertà da Satana, venne ucciso proprio
da un Imperatore, uguale all’Imperatore francese che a quello si
era ispirato e che parlava spropositatamente di libertà,
fratellanza, eguaglianza.
Il
comandante militare riuscì ben presto a sedare i tumulti in piazza,
però le violenze continuarono lungo le zone nascoste della città e
continuarono per diverso tempo.
Fu
verso le tre del pomeriggio che Pompeo, avvisato da un ragazzino,
venne a sapere che alcuni facinorosi stavano aggredendo Myriam. Corse
fuori e la trovò distesa a terra, davanti alla chiesa dell'abbazia,
non molto lontano dal ghetto, mentre due energumeni, che l'avevano
quasi spogliata tutta, la stavano malmenando per poi violentarla. I
due fuggirono, anche perché stava arrivando un drappello di polizia
con i colpi di fucile già in canna.
Myriam
e Pompeo si ritrovarono, per un istante, nuovamente vicinissimi. La
vista della ragazza, anche in quella situazione,gli scatenò una
tempesta dentro al cervello e non solo.
La
ragazza se ne stava con gli occhi bassi e l'espressione attonita,
quasi vergognosa. Dagli occhi le scendevano alcune lacrime che
andavano a bagnare le carni rosso porpora della sua bocca. Dalle
vesti sgualcite brutalmente spuntava un seno splendido, non troppo
piccolino, la cui punta aveva lo stesso colore delle sue labbra. Per
pochi secondi Pompeo, dimentico di tutto, pensò di toccare il
paradiso.
La
strinse tra le sue braccia e sentì che il cuore di lei batteva, se
possibile, ancora più forte del suo.
Dai
suoi occhi nerissimi arrivava lo sguardo che Pompeo avrebbe voluto
tenere per sé, per tutta la vita.
“Era
due della setta – disse lei – quelli che odiano il mio popolo più
di tutti gli altri. Quelli di Petronio”.
“Quello
che l'altro giorno si divertiva tanto ad ammazzare i cani?”
“Si
proprio lui.”
“
Sia
stramaledetto in eterno.”
Un
morbido bacio scoppiò all'improvviso, così come all'improvviso
scoppiano i terremoti e le alluvioni.
Il
contatto con le labbra carnose di lei e le due lingue che si
incontravano, diedero al giovane la sensazione di essere precipitato
dentro un pozzo senza fine, di non sentire più la forza di gravità.
Era
quella, finalmente, una splendida sensazione felicità.
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