Liberazione
L
'aria
era dolce nel campiello; colombi, passeri e gabbiani zampettavano
quietamente becchettando qua e là ogni sorta di porcherie si
trovasse sopra i masegni. E potevano essere anche i resti di qualche
disgraziato morto di inedia e di stenti, se la "cooperativa
della Misericordia" non fosse lesta (Dio renda grazie a loro)
nell' inumare i cadaveri.
Ogni
tanto, si poteva vedere in giro un gatto - il "nero" che
era appartenuto alla famiglia dei Pavan, completamente consumatasi in
questi giorni d'agonia - magro, ma d'una magrezza impossibile da
descriversi, che pareva uno scheletrino col pelo, a chiedere, con una
umiltà inusuale in una razza, quella dei gatti della Serenissima,
tanto nobile e fiera, un piccolissimo obolo, qualcosa da mangiare per
sopravvivere almeno a quella giornata.
Faceva
una pena enorme vedere un bell’ esemplare di maschio di gatto -
figlio di quei felini che, in anni remoti, avevano salvato la città
sterminando i terribili ratti neri, portatori del germe della peste -
ciondolare senza senso, come se un qualche mago crudele gli avesse
tolto il cervello, privandolo della conoscenza dei più elementari
codici di comportamento.
Pompeo
lo osservava mentre se ne stava seduto sul gradino d'ingresso della
sua casa, mantenendo la porta aperta con una gamba, girandosi ogni
tanto a scrutare un po’ l'interno dell'abitazione, un po’
guardando fuori, come a scrutare gli incredibili avvenimenti che
andavano succedendo.
"I
xé drio cavar ea statua de Napoleone..." sentì urlare da
qualcuno in lontananza e l'urlo veniva ripetuto da tutti quelli che,
via via, lo udivano.
Pompeo
prese in braccio il "nero", lo coccolò e il micio rispose
alle sue carezze con le fuse. Si strofinò la testa, poi fece capire,
umilmente ma chiaramente, che avrebbe gradito qualcosa da mettere
sotto i pochi denti che gli erano rimasti. Il ragazzo lo accontentò
ragalandogli un pezzo di carne secca che stava masticando di poca
voglia. Il gatto reagì con una esplosione di fuse ed un miagolio
stridente, il tutto mentre leccava di gusto la carne.
"La
statua di Napoleone", pensò. "L'avranno già demolita?"
Già
da qualche ora, in verità, girava la voce che il tagliapietra
Domenico Fadiga avesse avuto l'ordine di rimuovere la colossale
statua di Napoleone collocata in piazzetta, nonchè la sigla "N"
in bronzo dorato che era stata posta sopra l'entrata del palazzo
Ducale..
Prese
in mano il diario ed annotò:
"Anche
coloro che si dicono spregiudicati sono costretti a confessare che
l'Onnipotente ha voluto porre un confine alle sciagure che da tanto
tempo affliggono il Mondo."
E
a descrivere l’emozione di quel che successe quel giorno, ci
restano i versi del poeta Antonio Piazza:
"Comparsi
sulla piazza all'improvviso
un
uffizial austriaco ed un inglese,
do
anzoli cascai dal paradiso
no
podeva tra nù far più sorprese:
tutti
correva per vardarli in viso."
Venezia,
19 aprile 1814
Ore
sette del mattino.
Due
ufficiali dell'esercito austriaco - un tenente ed un maggiore -
entrarono in città accompagnati dall'aiutante del vicerè Eugenio;
poco dopo giunse, tra la gioia generale, anche un ufficiale inglese.
I
veneziani non credevano ai loro occhi: i francesi, sconfitti in tutta
Europa, ormai avevano perso la loro arroganza e la loro prepotenza.
Venne
consegnato un dispaccio al comandante generale Seras che recitava
queste semplici parole:
"Si
fa obbligo a tutti i francesi di valicare
le
Alpi al più presto e di tornare in Francia."
Il
valoroso esercito francese doveva tornare a casa; tutti stavano con
la coda tra le gambe.
In
quel testo, ad illustrare la strada da percorrere come si fa con i
viaggiatori, venivano anche indicati i passi alpini più sicuri per
il ritorno, cioè il Monginevro e il Col di Tenda. Gli austriaci, si
confermava, s' erano già premurati di assicurare la loro
transitabilità.
L'assedio
della città di Venezia e della sua laguna, dopo quasi cinque mesi,
era finalmente terminato.
In
città la felicità era incontenibile. Il cielo era azzurro, l’aria
tiepida e pareva, a molti ex assediati, che la vita cominciasse in
quel momento. Chissà perché le liberazioni dei popoli avvengono
sempre in Primavera, col sole che scalda il cuore.
Ma
furono veramente liberati?
“Vecio
mio” urlò qualcuno in fondo alla piazza.
Pompeo
sentì un brivido: in lontananza gli apparve la bella sagoma di suo
fratello Giovanni. Da quanto non lo vedeva?
Dopo
un breve abbraccio, però, Pompeo dovette dare al fratello la notizia
che sua padre era morto. La mamma, poi, nessuno dei due si aspettava
più di rivederla.
“Cossa
ti ga fato in tuto sto tempo?”
“Niente
fradeo, so sta fora de Venexia a spetarve voialtri, sperando che no
morissi.”
La
folla correva impazzita di qua e di là, ma i due fratelli non
riuscirono a provare né gioia né dolore.
Al
molo, sotto la colonna del Todaro, era attraccato un vecchio legno a
remi. Aveva una grande cabina, perché un tempo era stato una barca
di lusso. Uno dei vetri che la chiudevano era stato infranto.
Il
potere, o la disgrazia, che i due possedevano – quello di vedere il
futuro - tornò all’improvviso.
Da
quel vetro arrivò una forte luce. I fratelli la fissarono come in
trance.
Apparve
la loro città ancora incatenata.
I
nuovi liberatori continuarono a comportarsi come i vecchi padroni,
forse peggio, anche perché loro, a differenza dei francesi, non
avevano mai parlato di libertà o di eguaglianza. Per loro gli
schiavi erano schiavi e basta.
Videro
i cittadini veneziani ribellarsi, stavolta, e capirono che i figli di
chi era stato tanto tempo assediato, non avrebbero più accettato
altri padroni. E per questo non avrebbero temuto di sacrificare la
loro vita.
…Ma
con lo strazio al cuore videro che, nonostante tanta fatica, sul
ponte sventolava la bandiera bianca...
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