lunedì 22 giugno 2020

" Venezia in catene" Capitolo XV




Liberazione


L 'aria era dolce nel campiello; colombi, passeri e gabbiani zampettavano quietamente becchettando qua e là ogni sorta di porcherie si trovasse sopra i masegni. E potevano essere anche i resti di qualche disgraziato morto di inedia e di stenti, se la "cooperativa della Misericordia" non fosse lesta (Dio renda grazie a loro) nell' inumare i cadaveri.
Ogni tanto, si poteva vedere in giro un gatto - il "nero" che era appartenuto alla famiglia dei Pavan, completamente consumatasi in questi giorni d'agonia - magro, ma d'una magrezza impossibile da descriversi, che pareva uno scheletrino col pelo, a chiedere, con una umiltà inusuale in una razza, quella dei gatti della Serenissima, tanto nobile e fiera, un piccolissimo obolo, qualcosa da mangiare per sopravvivere almeno a quella giornata.
Faceva una pena enorme vedere un bell’ esemplare di maschio di gatto - figlio di quei felini che, in anni remoti, avevano salvato la città sterminando i terribili ratti neri, portatori del germe della peste - ciondolare senza senso, come se un qualche mago crudele gli avesse tolto il cervello, privandolo della conoscenza dei più elementari codici di comportamento.
Pompeo lo osservava mentre se ne stava seduto sul gradino d'ingresso della sua casa, mantenendo la porta aperta con una gamba, girandosi ogni tanto a scrutare un po’ l'interno dell'abitazione, un po’ guardando fuori, come a scrutare gli incredibili avvenimenti che andavano succedendo.
"I xé drio cavar ea statua de Napoleone..." sentì urlare da qualcuno in lontananza e l'urlo veniva ripetuto da tutti quelli che, via via, lo udivano.
Pompeo prese in braccio il "nero", lo coccolò e il micio rispose alle sue carezze con le fuse. Si strofinò la testa, poi fece capire, umilmente ma chiaramente, che avrebbe gradito qualcosa da mettere sotto i pochi denti che gli erano rimasti. Il ragazzo lo accontentò ragalandogli un pezzo di carne secca che stava masticando di poca voglia. Il gatto reagì con una esplosione di fuse ed un miagolio stridente, il tutto mentre leccava di gusto la carne.
"La statua di Napoleone", pensò. "L'avranno già demolita?"
Già da qualche ora, in verità, girava la voce che il tagliapietra Domenico Fadiga avesse avuto l'ordine di rimuovere la colossale statua di Napoleone collocata in piazzetta, nonchè la sigla "N" in bronzo dorato che era stata posta sopra l'entrata del palazzo Ducale..
Prese in mano il diario ed annotò:

"Anche coloro che si dicono spregiudicati sono costretti a confessare che l'Onnipotente ha voluto porre un confine alle sciagure che da tanto tempo affliggono il Mondo."

E a descrivere l’emozione di quel che successe quel giorno, ci restano i versi del poeta Antonio Piazza:

"Comparsi sulla piazza all'improvviso
un uffizial austriaco ed un inglese,
do anzoli cascai dal paradiso
no podeva tra nù far più sorprese:
tutti correva per vardarli in viso."

Venezia, 19 aprile 1814
Ore sette del mattino.
Due ufficiali dell'esercito austriaco - un tenente ed un maggiore - entrarono in città accompagnati dall'aiutante del vicerè Eugenio; poco dopo giunse, tra la gioia generale, anche un ufficiale inglese.
I veneziani non credevano ai loro occhi: i francesi, sconfitti in tutta Europa, ormai avevano perso la loro arroganza e la loro prepotenza.
Venne consegnato un dispaccio al comandante generale Seras che recitava queste semplici parole:

"Si fa obbligo a tutti i francesi di valicare
le Alpi al più presto e di tornare in Francia."

Il valoroso esercito francese doveva tornare a casa; tutti stavano con la coda tra le gambe.
In quel testo, ad illustrare la strada da percorrere come si fa con i viaggiatori, venivano anche indicati i passi alpini più sicuri per il ritorno, cioè il Monginevro e il Col di Tenda. Gli austriaci, si confermava, s' erano già premurati di assicurare la loro transitabilità.

L'assedio della città di Venezia e della sua laguna, dopo quasi cinque mesi, era finalmente terminato.

In città la felicità era incontenibile. Il cielo era azzurro, l’aria tiepida e pareva, a molti ex assediati, che la vita cominciasse in quel momento. Chissà perché le liberazioni dei popoli avvengono sempre in Primavera, col sole che scalda il cuore.
Ma furono veramente liberati?

Vecio mio” urlò qualcuno in fondo alla piazza.
Pompeo sentì un brivido: in lontananza gli apparve la bella sagoma di suo fratello Giovanni. Da quanto non lo vedeva?
Dopo un breve abbraccio, però, Pompeo dovette dare al fratello la notizia che sua padre era morto. La mamma, poi, nessuno dei due si aspettava più di rivederla.

Cossa ti ga fato in tuto sto tempo?”
Niente fradeo, so sta fora de Venexia a spetarve voialtri, sperando che no morissi.”
La folla correva impazzita di qua e di là, ma i due fratelli non riuscirono a provare né gioia né dolore.
Al molo, sotto la colonna del Todaro, era attraccato un vecchio legno a remi. Aveva una grande cabina, perché un tempo era stato una barca di lusso. Uno dei vetri che la chiudevano era stato infranto.
Il potere, o la disgrazia, che i due possedevano – quello di vedere il futuro - tornò all’improvviso.
Da quel vetro arrivò una forte luce. I fratelli la fissarono come in trance.
Apparve la loro città ancora incatenata.
I nuovi liberatori continuarono a comportarsi come i vecchi padroni, forse peggio, anche perché loro, a differenza dei francesi, non avevano mai parlato di libertà o di eguaglianza. Per loro gli schiavi erano schiavi e basta.
Videro i cittadini veneziani ribellarsi, stavolta, e capirono che i figli di chi era stato tanto tempo assediato, non avrebbero più accettato altri padroni. E per questo non avrebbero temuto di sacrificare la loro vita.
Ma con lo strazio al cuore videro che, nonostante tanta fatica, sul ponte sventolava la bandiera bianca...



Nessun commento:

Posta un commento