martedì 17 settembre 2019

Il Grande Castello ( 7° Capitolo)


Il venditore di saggezza
il racconto di Pedro
o la nuova “belle epoque”








Nelle miti giornate di Primavera, quando il sole tiepidamente scalda il cuore, ma senza bruciare la pelle, il cielo solitamente si colora d’un azzurro intenso, molto terso e luminoso, e regalando al viandante una luce intensa, brillante, meravigliosa.
I turisti, in quel periodo, accorrono a milioni. Negli anni buoni del turismo e della pacchia, cioè fino a poco tempo fa, vendere chincaglierie ai visitatori di Firenze era l’affare che rendeva, ai suoi commercianti, i più bei utili e facili guadagni e le altre città del Mondo non reggevano al confronto.
Bastava solo aprirsi un proprio negozietto, e succedeva quel che avviene quando si getta il grano ai colombi in piazza: tutti si precipitavano, spingendosi e scalciando, per acquistare qualche stupidissimo, pacchiano e inutile manufatto, souvenir o cianfrusaglia.
Eh sì, erano assai ricchi i mercanti di Firenze di allora, a cominciare dal padrone dell’albergo in piazza della Signoria, fino all’ultimo piccolissimo venditore di ricordini a san Lorenzo. Ognuno, nel suo grande o nel suo piccolo, era soddisfatto di come andavano le cose. Pareva fin troppo facile e bello.
Poi giunse la crisi. Una recessione terribile, orrenda, che fece morire (commercialmente, ma anche realmente), numerosi miei amici, mentre molti altri importanti negozi luminosi, storici, dai grandi nomi, dovettero abbassare le saracinesche, per sempre.
Fu allora che io, Pedro Aragon, originario per metà della Spagna centrale e metà dell’Italia meridionale, due lauree, una in Economia e l’altra in Psicologia, dapprima ricco e famoso commerciante, consigliere del Sindaco, mediatore culturale, scrittore di romanzi storici, mi ritrovai, dopo mille vicissitudini, a gestire un piccolo negozietto di vendita, proprio nel bel centro della città. L’azienda precedente, che aveva dato lavoro a una ventina di persone, io la dovetti chiudere quando le spese iniziarono a superare gli incassi.
Per una impresa costretta a chiedere soldi alle banche soltanto per poter pagare le tasse, vuol dire che è arrivata la sua ora. O vuol dire che, forse, qualcosa non funziona nello Stato, specie quando, le aziende che falliscono, perché non riescono a onorare i balzelli loro imposti, cominciano a diventare, giorno dopo giorno, troppo numerose.
Quel nuovo lavoro che intrapresi, devo dire, fu oltremodo divertente.
In mezzo alla strada vendevo certi articoli ( libri antichi, velieri fatti a mano, quadri d’autore , collane esotiche), che mi permettevano di guadagnare bene, anche concludendo solo due o tre vendite al giorno ai clienti di passaggio. Il resto della giornata (perché lì stavo per molte e molte ore), lo passavo a chiacchierare con tutti quelli che venivano a trovarmi.
Conoscendo la mia disponibilità ad ascoltare gli altri e a dare buoni consigli (che, però, non ero in grado di darmi da solo), molti accorrevano sotto quella piccola tenda, piena di cose che seducevano, proponendomi i loro problemi, i loro drammi, i loro ragionamenti, le loro paure o i iloro incubi peggiori.
Tantissimi erano i personaggi importanti, cosa di cui Firenze non ha avuto mai carenza, che passavano di là. Il sindaco stesso, non mancava mai di salutarmi e, se ero impegnato con un cliente, aspettava pazientemente.
Il primario dell’ospedale civile, mio vecchio e buon amico dai tempi degli studi, si fermava a salutarmi e andavamo sempre a bere il caffè assieme. Non riuscii mai ad offrirlo io. Un giorno passò di lì addirittura il presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi con la sua scorta, mi salutò cordialmente e mi interrogò su un suo dubbio: cioè chiedendomi se era il caso di dimettersi dal governo e lasciare il posto ad un altro politico, magari ad un giovane rampante.
Io gli risposi che la vita è troppo bella e troppo corta per essere sprecata.
Con nostalgia, visto che ormai non c’è più, ricordo le visite frequenti dell mio caro e vecchio amico Aldo, in quel tempo assessore al Comune, esempio di grande genialità e talento artistico, importante esponente di un partito che allora era considerato, con disprezzo ed esagerazione, il partito dei ladri.
Quel mio amico, tormentato da ogni tipo di faccendieri che gli chiedevano in continuazione favori politici e che lui, dall’alto incarico che ricopriva, avrebbe potuto concedere, si inventò un geniale sistema per soddisfarli.
Egli era stato, in gioventù, un discreto pittore ed aveva collezionato qualche decina di dipinti su tela che devo dire, in verità, qualcosa di interessante contenevano, anche se non si può dire che potessero essere dei veri e propri capolavori.
Poi aveva smesso visto che il successo pittorico tardava a venire: in poche parole, non ne aveva piazzato neanche uno, perciò smise di dipingere e si diede alla politica.
Il sistema da lui congegnato era questo: a chi gli chiedeva favori, autorizzazioni speciali, appalti, egli offriva di “comperare” uno dei suoi quadri: avrebbe, così, ottenuto una bella somma di denaro tramite un atto legale e dimostrabile, cioè la cessione del quadro. Nessuno avrebbe mai osato pensare che, quella somma di denaro, potesse definirsi : “tangente.”
Le sue vendite, col tempo, aumentarono considerevolmente e Aldo ottenne, così, due piccioni con una fava: poté continuare, nel tempo, a intascare tangenti senza che nessuno mai avesse nemmeno l’ardire di sospettarlo, tanto meno la guardia di finanza cui, ad ogni controllo, poteva esibire fatture di vendita delle sue opere d’arte. Per secondo vide le quotazioni dei suoi quadri salire alle stelle, visto che, nel Mondo dell’arte, un’ opera è misurata anche dal valore di mercato e un artista è considerato non tanto per le sue qualità, ma per quanti dipinti, e a che prezzi, riesce a piazzare. E siccome vendeva più di ogni altro artista in Italia, per molto tempo fu considerato uno dei massimi maestri del nostro paese dalle varie accademie internazionali.
Sì, caro Aldo, sei stato proprio un esempio di genialità e di spirito artistico italiano che tutto il Mondo ci invidia.
Nelle lunghe giornate passate in quella bancarella, iniziai a pensare ad un libro, come questo, che poi scrissi. Ma dopo un po’, capii anch’io che la vita era troppo corta, e lasciai perdere tutto, per mettermi a fare altre cose.
Certo è che il Mondo, adesso, non è come prima della crisi: allora in giro per il globo ci si andava solo per vivere lussuosamente, li ricordo bene, come fosse solo ieri, quei tempi magnifici …


Eh, sì, come erano belli quegli anni! Correvano, se non ricordo male, gli anni ottanta e novanta dello scorso secolo anzi, scusate, dello scorso millennio. Pensate che, quando arrivavi in un bel posto di villeggiatura, in una grande capitale europea o mondiale, in una spiaggia esotica, eri sicuro di incontrare, in quella lussuosa vacanza, potevi scommetterci, un tuo collega fiorentino. A volte si trattava, magari, dell’immancabile impiegato o del conducente di un taxi, o il tizio che gestiva un micro banchetto che vendeva frutta e bibite al mercato, specie ai turisti, e possedeva, perciò, più grano di un Signor notaio.
Iniziai a viaggiare da solo ed ero ancora un bambino, avevo poco più di quattordici anni, cioè quando i miei mi regalarono un motorino di 50 cc. Era giallo canarino, con cromature scintillanti, produceva rumori extraterrestri, perché era un “due tempi” a scoppio e si chiamava moto Beta.
Certo, avevo già cominciato a girare con la bicicletta tanto tempo prima, ma con un motore sotto il sedere diventai inarrestabile. La cosa che mi divertiva di più (ed era la più conveniente) era di andare a “trovare” i parenti in giro per il Mondo, e ne avevo tanti. Presso di loro mangiavo, dormivo, mi divertivo, e i miei zii, i miei cugini, e gli altri che visitavo, mi offrivano vitto, alloggio e tante coccole gratis. Col tempo cambiai varie motociclette - tra cui la magnifica Honda CB750, tutta rossa - tanto che, ancora oggi, non ricordo quante ne possedetti. Ricordo una mitica Guzzi 850T e di quando attraversai l’Europa. Tra Austria, Svizzera, Germania, Svezia arrivai in Norvegia e in una fantastica strada tra i fiordi, proseguii fino al circolo polare artico.
Ma, quello, fu il mio viaggio di nozze. Con Stella. Io e la mia povera moglie, che Dio l’abbia in gloria, perché ora è un angelo, possiamo dire di aver visto, più di una volta, tutti gli splendori, le bellezze e le bruttezze, le stravaganze e le schifezze del Mondo. Le città d’arte, le montagne più inaccessibili, i mari più blu e le isole più remote, i popoli più strani e, certamente, le sette meraviglie del pianeta.


Mentre Pedro sta parlando, un rumore fortissimo, il tonfo di qualcosa che cade a terra, giunge da sopra il soffitto della stanza. Pedro si arresta, pensa un po’ su, stupito, poi continua, facendo finta di nulla, a narrare la sua curiosa vicenda personale.


A proposito di isole remote … ricordo quel viaggio che io e mia moglie, allora eravamo proprio ricchissimi, progettammo e, poi, realizzammo a Patonga, l’isola più lontana del Pacifico, quella in cui il Capodanno arriva un anno dopo, tanto sconosciuta che fu scoperta solo qualche tempo fa, mediante le nuove tecnologie moderne, l’invenzione e la messa a punto dei satelliti orbitali e un po’di fortuna. Ne parlò anche Piero Angela in un suo servizio televisivo e, per l’occasione, ci spedì il figlio a raccontarcela.
Il semplice viaggio, ormai, era diventato noioso e banale per noi “turisti evoluti”, viziati e, a volte, annoiati. C’era sempre il rischio di incontrare il tuo vicino di casa, era d’obbligo, perciò, inventarsi sempre qualcosa di nuovo, di originale che avrebbe dovuto stupire gli altri, amici o no che fossero. La preparammo molto, quella spedizione decidendo, insieme, che avremmo dovuto scoprire un luogo per ritrovare noi stessi ed il nostro rapporto matrimoniale, che stava andando, inesorabilmente, a rotoli.
Quella volta, l’aeroplano viaggiò due giorni senza fermarsi. Non ero mai stato tanto tempo in volo: ci portarono da mangiare quindici volte e gustammo almeno ventisei aperitivi, tra cui diversi martini. All’arrivo, pensai di dover scendere sulla Luna.
In quella trasvolata, avevamo attraversato direttamente l’emisfero boreale, il meridiano di Greenwich, l’equatore, il tropico del Capricorno e la linea di cambiamento data, senza che mai quell’enorme apparecchio volante avesse dimostrato intenzione di fermarsi. Atterrammo in Nuova Zelanda, praticamente dalla parte opposta dell’Italia se si scavasse un buco nel pianeta. Ma quello non era altro che il campo base. Un altro aereo molto più piccolo, nel pomeriggio, ci portò nell’isola di Rarotonga. Ci fermammo in quel luogo per la notte. Dormimmo in un piccolo alberghetto con l’aria condizionata e il frigo bar. Il giorno dopo, un altro mezzo piccolissimo, che volava solo per me, mia moglie ed il comandante, ci condusse all’ultima base civilizzata, l’isoletta di Tuku-Hiva, la cui pista di atterraggio era lunga, la misurammo, come il cortile di casa nostra.
Solo che il nostro cortile finiva in un fossato, mentre quella pista finiva in una scogliera: sotto c’era il baratro ed un mare infinito. Fu da lì che, dopo due giorni di attesa, mangiando ananas e sorseggiando qualche bevanda dolcissima, arrivò a prenderci un bastimento che faceva la spola con l’altra isola una volta alla settimana. Ci imbarcammo nella piccola motonave che trasportava animali vivi e banane, alla volta di Manioki.
Manioki è l’ultima isola del pianeta, da quel punto di terra emersa inizia il resto dell’Universo. Comincia un azzurro oceano illimitato.
E, proprio da questa isola, abitata da pochissimi e strani individui, partiva una imbarcazione con propulsione a remi: cioè la forza di due indigeni - le cui caratteristiche somatiche ingannerebbero ogni studioso di scienze etniche antropologiche - i quali, in sole dodici ore di voga, ci avrebbero portato alla nostra mèta finale, all’obbiettivo del nostro lunghissimo viaggio: la stupenda, minuscola e preziosa isola di Patonga.
I due autoctoni, che non parlavano la nostra lingua, né altre lingue conosciute dell’emisfero occidentale, ci fecero gentilmente sbarcare su quel minuscolo fazzoletto di sabbia bianca in mezzo all’Oceano, ci osservarono con uno strano sguardo, ci salutarono e, ridacchiando, ci lasciarono tutti soli (sarebbero tornati soltanto due giorni dopo a riprenderci), pronunciando soltanto due parole inquietanti: “Taliani, ciao amici taliani”. Lo dissero mentre chinavano il capo e continuavano a ridacchiare. Chissà, forse ci volevano prendere in giro o quello era il loro modo di essere cortesi? Con noi tenemmo solo un piccolo sacchetto in materiale biodegradabile (in quell’isola non era ammessa la plastica), con dentro il minimo di cibo e, in più, acqua per sopravvivere. Per due lunghi giorni, non avremmo dovuto più vedere le sembianze di un altro essere umano.
Ma l’imponderabile accade sempre quando meno te lo aspetti. Il giorno dopo, infatti, che già eravamo presi dal fascino di quel posto incredibile e le nostre meditazioni era giunte a livelli impensabili prima, accadde qualcosa di strano. Stavamo riposando le nostre membra, quasi addormentati dopo aver praticato un meraviglioso Tantra, io e mia moglie, che ci aveva regalato piaceri sessuali e gioie difficili da spiegare ai comuni mortali. Il godimento che può regalare, ad un essere umano, questa pratica erotico- religiosa, è qualcosa di sconvolgente e di appagante in tutti i sensi.
Per arrivare all’apice del benessere fisico e spirituale, però, occorrono molte cose: un grande affiatamento tra i due partner, cosa che io e mia moglie stavamo perdendo nella caotica società moderna. Fu proprio quel motivo che ci aveva spinti a rifugiarci in un’isola sperduta in mezzo all’oceano, perché da soli, io e lei, in mezzo all’infinito, avremmo potuto ristabilire il nostro equilibrio cosmico, nonché il nostro rapporto amoroso sessuale e ritrovare la pace con noi stessi. E ciò che provammo in quelle posizioni, in quei sospiri, non riuscirò mai a renderlo esplicito con le mie semplici e banali parole.
Ci tenevamo ancora abbracciati, molto stretti sotto la capanna di foglie di palma, unica costruzione dell’isola ed unico materiale ammesso in quell’ultimo lembo di terra incontaminata, quando un sinistro ed agghiacciante mugolio arrivò da dietro di noi. In quel mentre il sole si oscurò. Io e mia moglie ci guardammo. Lei pensò:
Può essere solo la rabbia del dio Nettuno, questo orribile latrato”.
Pensammo ad uno tsunami, considerando che le nostre vite dovessero finire là.
Si sbagliava, ci sbagliavamo entrambi: ruotammo la testa di cento ottanta gradi e vedemmo stagliarsi davanti a noi l’immensa siluette della nave “Costa Strafavolosa”, ultimissima nata tra le grandi motonavi da crociera, centoquattordicimila cinquecento tonnellate di stazza, lunga trecento e diciotto metri, alta più della torre campanaria, diciassette ponti e cinquemila i passeggeri.
D’un tratto tornammo alla realtà dei tempi moderni. L’enorme mostro marino (e pensare che l’abbiamo costruito noi italiani, nei nostri cantieri di Marghera e Monfalcone), attraccò a venti metri dalla riva, una spiaggia bianca che non ne misurava molti di più, vomitò circa tremila persone urlanti e sbraitanti che si tuffarono nelle limpide acque sottostanti. I duemila rimasti a bordo salutavano rumorosamente quelli che erano in mare e, intanto, mangiavano snack e bevevano coca, lanciando di sotto le cartine e le lattine che li contenevano.
Lo spasso pacchiano durò poche ore poi, sempre latrando e mugolando , l’enorme nave ripartì, lasciando dietro di sé un silenzio irreale ed un pantano galleggiante, formato dai resti di cibo, orina, melma, escrementi, plastica, nylon, contenitori di succhi di frutta, carte, preservativi usati, marciume.
Ne fummo stravolti e, più di noi, ne fu stravolto l’ecosistema.


Quando tornarono gli indigeni in canoa a riprenderci, dopo aver visto il disastro, urlarono sbigottiti ed arrabbiati, rigorosamente nella loro lingua:
Taliani!!!! Ma che cassio avete combinato?”
Questi erano i bei tempi.
Poi divenni stanco di lavorare e viaggiare, abbandonato da mia moglie e dalla sua anima, depresso, la crisi economica che strangolava, cominciai ad invecchiare. Mi prese una orribile depressione. Non riuscivo ad andare con altre donne e, in un momento in cui incontrai una ragazza che ci stava, non feci nulla. Avevo provato a prendere una medicina che risolve tutti i guai, ma con me aveva un ben strano effetto: siccome il danno era solo psicosomatico, mi produceva tutti gli effetti collaterali che c’erano scritti sul foglietto illustrativo, il cosiddetto “bugiardino”, cioè mal di testa, secchezza delle labbra, dolori ai reni, la vista che si annebbiava e altre trenta sofferenze inenarrabili, unico effetto che non sortiva era quello di far alzare il mio …
A Pedro non servì terminare la frase perché tutti avevano compreso.


E poi cari amici, è solo questione di testa. Non servono le medicine a curare la psiche.
Allora, dopo molto tormento, decisi di dedicarmi alla ricerca storica ed alla lettura. Abbandonai tutto, anche il banco che mi dava un reddito e mi ritirai.
In una grande biblioteca nel centro storico della mia città, iniziarono i miei studi e la mia apnea letteraria. Produssi molti scritti e pubblicai un volume. Ma non smisi di studiare.
Fu ad un certo momento, che venni a conoscenza della leggenda che riguardava questo castello. Un gruppo di persone, nel pomeriggio di qualche giorno fa, mi presentò alcuni strani ed enigmatici scritti, dicendo che avevano letto il mio libro, e perciò li volevano affidare alla mia conoscenza. La prima cosa che notai, è che, quei signori, portavano tutti gli occhiali da sole, cosa ch’io giudicai eccentrica, specie se si sta all’interno di una vecchia e oscura biblioteca.
Di che leggenda si tratta?” Gli chiese Angelo.
Quella del fantasma.” Rispose
Ma qui non esiste alcun fantasma.”
Sì, mi sono informato fin troppo bene, ho studiato quegli antichi documenti che mi sono stati forniti, e che sono stati rinvenuti in maniera misteriosa e vi racconterò tutto di lui (anzi, di lei, perché del fantasma di una donna si tratta).”
Il racconto proseguì, anche se Angelo, a quel punto, dava segni visibili ed evidenti di nervosismo.
Correva l’anno 1797, le truppe vittoriose del Generale francese Napoleone Bonaparte, deciso ad esportare la rivoluzione francese nel mondo come noi, adesso, esportiamo la Democrazia, correvano in lungo e in largo la penisola italica, conquistando, occupando, depredando e, nel contempo, arruolando nelle loro fila tanti giovani ragazzi che vivevano in questi posti. La gloriosa e millenaria Repubblica Serenissima di Venezia, era caduta proprio in quei giorni e proprio grazie al Bonaparte, suo acerrimo nemico, che considerava Venezia e le sue istituzioni un retaggio del passato.
Fu in questo contesto, che si svolse la tristissima vicenda della contessina Ignazia, figlia di Palmira e Aristofane, la quale, essendo imparentata coi conti proprietari del castello, lo stava abitando assieme alla sua famiglia.


I rumori provenienti da sopra, che tanto hanno disturbato per tutto il racconto, all’inizio di questa parte della narrazione, sembrarono accentuarsi. La sensazione era che qualcuno camminasse nervosamente in soffitta, e sarebbe stata una camminata realmente strana e convulsa. Pedro, dimostrandosi un ottimo oratore, continuò a narrare senza battere ciglio, per non spaventare i presenti e non perdere il filo del discorso.


Tali conti, erano un po’ amici della defunta Repubblica del leone alato e un pochino, però, le erano rivali. I dogi veneziani erano soliti imperare su tutto e a lasciare poco spazio e poco potere ai nobili delle zone circostanti, tutto sommato, però, avevano convissuto bene. Ma, con l’arrivo dei francesi, la vita degli aristocratici divenne un vero e proprio incubo. Quando giunse al castello una delegazione di soldati napoleonici a prenderne possesso, Il conte non poté contrapporre alcuna resistenza, come d’altronde nessuna resistenza contrappose Venezia al Bonaparte, troppo forte, di una potenza inaudita. L’odio verso i francesi era grande, ma la giovane Ignazia, che poco si intendeva di guerre e di politica, si innamorò e perse la testa per un giovane ufficiale napoleonico che, subito, condivise con lei il bellissimo, meraviglioso sentimento.
Era difficile nascondere quell’amore con un soldato del reggimento che occupava, militarmente, il castello. Questa situazione durò poco tempo, ma la contessina fece in tempo a rimanere incinta. La relazione non sconfinferava molto né ai familiari di Ignazia, né ai comandanti francesi. Il giovanotto fu presto rispedito nella sua casa oltralpe, a Marsiglia e Ignazia, che aveva manifestato e minacciato più volte la volontà di scappare, venne rinchiusa nella rocca, proprio quella lì in alto che possiamo ammirare dal finestrone (il ragazzo la indicò col dito agli ospiti) . Siccome nessuno sapeva della sua dolce (e tragica) attesa, non le venne dato alcun aiuto e, quando fu il momento di partorire lo fece da sola. Ma il parto andò male: nel momento in cui intervenne la servente (che le stava portando qualcosa da mangiare e la trovò agonizzante), era già troppo tardi. La cameriera vide che, mentre il piccolino non pareva respirare e non dava segni di vita, la donna era, anche lei, quasi giunta alla fine delle sue sofferenze. Questa le morì tra le braccia, maledicendo, con rabbia, tutta la sua famiglia e tutte le coppie di sposi che avrebbero potuto essere felici, assieme, in quel castello, affinché non trovassero mai pace né felicità.


A questo punto del racconto venne interrotto bruscamente da Angelo, il quale dimostrava di non farcela più ad ascoltarlo, e che smentì questa leggenda definendola assurda e priva di ogni fondamento.


Non ho mai sentito una storia del genere. Che razza di documenti hai consultato?” Disse Angelo, aggiungendo altri improperi contro Pedro, che non batté ciglio e continuò la sua narrazione dei fatti, tranquillamente.
Di più non sappiamo, però la vita delle famiglie, da allora, divenne più difficile a san Salvatore e molte unioni di coppie che abitavano questo castello, rischiarono di sfaldarsi. La presenza di un fantasma, probabilmente lo spirito della disperata Ignazia, si è più volte rivelata nelle stanze di questo maniero , subito dopo tali apparizioni seguivano lutti, divorzi o il manifestarsi di una follia misteriosa, che andava a condannare almeno uno dei due coniugi, dapprima felici. Si tratta di un male sconosciuto che molti chiamano depressione.
Angelo non sopportò più questo modo di raccontare le bugie: “ Voglio sentir parlare delle vostre vite, delle vostre storie, non me ne frega niente delle fantomatiche e incredibili leggende.” Poi si diresse, molto triste e adirato, verso la cucina.
Dopo un po’ ne uscì Ugo e offrì ai presenti del salame di casata, soppressa con o senza aglio, a preferenza degli ospiti, carciofini in olio di oliva e del pane tostato. Guardò verso la dispensa per sincerarsi se ci fosse rimasto ancora del vino bianco o se fosse d’uopo andare a rifornirsene in cantina. Vi trovo’ anche della carne di cinghiale speziata.
Angelo, mogio, tornò tra il gruppo riunito, e comodamente sdraiato sui bei divani di pelle, e sentenziò con voce possente:
Kevin, adesso tocca a te, cerca di parlare solo della tua vita e non raccontarci fregnacce.”
Kevin, timidamente, iniziò il suo resoconto.

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