Capitolo sesto
La Domenica nel pallone
Il racconto di Samuele
Il più bel gioco del
mondo
“La bala es tonda.”
Helenio Herrera, detto “
el mago”
Fin
da bambino, mi capitava di provare una specie di orgasmo
nell’osservare un pallone a scacchi bianchi e neri roteare e
volteggiare, in un campo verde.
Forse, ciò
accadeva perché me lo avevano insegnato tutti: gli amici a scuola
che non parlavano d’altro, gli uomini per la strada oppure la
causa era che me lo avevano instillato in mente mamma e papà, giorno
dopo giorno, loro che desideravano in maniera maniacale un figlio
calciatore, ben sapendo che, altrimenti, l’unica mia soluzione di
vita, nella mia cittadina in provincia di Bari, sarebbe stata quella,
non entusiasmante, di fare il macellaio o il muratore.
I miei
genitori adoravano e accarezzavano, spesso, l’idea ch’io
diventassi come certi eroi del football, quelle star che guadagnano
miliardi coi calci al pallone.
O come certi
altri giocatori, che i soldi li fanno tramite la pubblicità in
televisione, edulcorando prodotti di grandi multinazionali, scrivendo
o meglio, facendosi scrivere libri, oppure raccontando mediocri
barzellette, ma che fanno ridere perche’ raccontate da uno che ha
la faccia da scemo.
Ed inoltre,
queste celebrità del pallone aiutavano i parenti più prossimi,
procurando da lavorare anche ad ogni loro amico e familiare e
diventando, così, gli uomini più ricchi, influenti e benestanti
del paese.
Forse,
questo amore per il pallone, me lo aveva insegnato la televisione,
che trasmetteva football e palloni a scacchi e classifiche e
commenti e polemiche e moviole e arbitri cornuti e ultras ignoranti
sette giorni su sette.
Eppure, lo
dico davanti a Dio onnipotente e onnisciente, io non so, giunti alla
nostra fine, se mai mi sia piaciuto veramente il gioco del calcio.
Mio padre non
si sarebbe mai perso una partita di pallone, fosse anche stata
dell’ultima serie, di infima importanza, lui la doveva scrutare in
tivù, esaminarla, commentarla, vivisezionarla e dare i voti di
merito ad ogni giocatore, anche il più becero e sconosciuto. E
godeva, in questo stillicidio, piu’ che se avesse scopato miss
Italia.
Assieme ai
suoi amici, passava pomeriggi e serate intere davanti allo schermo,
quando venivano trasmesse le partite di calcio, cioe’ sempre.
Le mogli,
annoiate da quei tristi maschi fanatici footballdipendenti,
preparavano loro deliziosi spuntini e birre sempre alla giusta
temperatura. Mai si sarebbero sognate (ahhhh, le donne di quei
tempi), di interrompere questa sacra liturgia, magari raccontando ai
cari mariti dei loro problemi (e perché mai – si chiedevano i
maschi – le loro donne avrebbero dovuto avere un qualche, minimo,
problema?) o proponendo loro di divertirsi, una volta ogni tanto,
facendo qualcos’altro.
In quel tempo,
se un ragazzo giovane e maschio non avesse manifestato interesse per
il calcio, i maschi adulti della stessa specie si sarebbero
preoccupati molto. Sarebbe stato meglio essersi dichiarati
omosessuali ( cosa che, a quel tempo, rappresentava uno scandalo ed
un’ onta per tutta la famiglia) piuttosto che evitare di
manifestare la passione calcistica, di affermare che il calcio non
gli piaceva manco per niente.
Quando, nei primi
tempi della mia infanzia, non provavo piacere per questo sport
nazionale, venni condotto dallo psicologo. I miei genitori gli
ripetevano che ero svogliato, che non mi comportavo come gli altri
ragazzi. Ingannai agevolmente il professionista dei cervelli,
mentendo ed insinuando una presunta omofilia, una forte
omosessualita’ e così mi lasciarono in pace.
Infatti
quando , dopo tanti dai e dai, mi convinsero ad amare il gioco del
pallone, mio padre affermò, commentando nonche’ concordando con i
suoi furbi vicini:
“Avete visto?
Adesso gli piace il calcio e, perciò, gli piacciono anche le
femmine, pensate – disse con la fierezza del padre ai suoi degni
amici – che ieri ho trovato, nascoste nel suo comodino, alcune
riviste pornografiche. Cose piccanti e intime di donne nude, con
zinne al vento.” Eh, mio padre … Lui sì che la sapeva lunga!
Cominciarono, così, le
interminabili domeniche calcistiche, che iniziano alla mattina con la
consultazione del grande foglio rosa, specializzato in ogni sport e
finiscono in tarda ora davanti alla mitica “Domenica Sportiva”
televisiva.
E poi le trasferte col gruppo
di amici.
I miei studi in
classe, intanto, erano improntati al sei minino garantito, non ci
mettevo molta energia. Le cose che succedevano fuori non mi
intrallazzavano molto, le donne mi piacevano il giusto (avevo una
ragazza con cui si programmavano i giorni per fare l’amore, allora
ci si lavava ognuno a casa sua, ci si cambiava la biancheria intima e
si passava una mezz’oretta insieme … senza tanta esagerazione o
troppa passione.)
La politica,
poi, non mi ha mai destato passione anzi, i giovinastri che
occupavano il centro della città coi fischietti, promuovendo
manifestazioni e contestazioni via via sempre più clamorose, mi
facevano pena. Ammiravo, invece, chi per la politica menava le mani.
Sì è ovvio, perché anche il mio gruppo di tifosi, quando si andava
a vedere le partite in altre città, cercava sempre si scaldarsi coi
pugni. Dobbiamo essere maschi, come ci ha insegnato il nostro codice
sociale e familiare, non delle effeminate mammolette.
Eh sì, erano
proprio immensamente favolose e piene di avventura le trasferte con
gli amici. Seguivamo i nostri beniamini, la squadra del nostro cuore,
con un pullman dipinto coi colori della bandiera del club. Si
iniziava ad urlare alla mattina presto, dopo la colazione, quando il
conducente ancora dormiva. Se mai avessimo incontrato un qualche
pullman coi colori della tifoseria avversaria di quella Domenica,
sarebbe successo il finimondo. Una volta imponemmo al conducente di
speronare un torpedone di “conigli” rossoneri, per fortuna
l’autista, eroicamente, resistette.
Un’altra
domenica, in un derby infuocato, l’unica, vera partita si svolse
negli spalti anziché in campo. Fu una vera e propria guerriglia tra
tifosi avversari e tra tutte le tifoserie insieme, unite contro
polizia e carabinieri. Fummo noi i veri protagonisti, non i
calciatori. Furono chiamate, in quella terribile giornata, anche la
capitaneria di porto e le guardie forestali per sedare gli animi. Ci
furono feriti e si versò molto sangue e la partita di calcio, quella
vera, fu sospesa al trentacinquesimo minuto del secondo tempo.
Ricordo la
testimonianza rilasciata ad una emittente privata, che aveva
raggiunto il nostro gruppo per intervistarci ancora sporchi di sangue
, dal mio compagno Ettore, ultracinquantenne padre di famiglia, che
aveva portato in quella pericolosissima arena il suo ultimogenito, un
bambino di cinque anni, per “formarsi” alla “filosofia” del
calcio, disse:
“Ho notato – disse
parlando di quello che era successo nel’’altra curva, dove ci
furono dei morti - quei criminali sostenitori della squadra nero
azzurra , scagliarsi con veemenza e odio contro i poveri e buoni
tifosi bianco rossi (fatalità erano i colori della nostra squadra) e
aggredirli con ogni sorta di armamento.”
Che cosa avesse visto
lui, in realtà non lo so, poiché ci trovavamo tutti nell’anello
di sotto, quello vicino al campo di gioco e non si poteva guardare
che da lontanissimo ciò che stava succedendo nella curva Nord. Io
vidi solo pazzi scatenati che se le davano di santa ragione,
energumeni esagitati, senza alcun colore addosso che potessero farli
distinguere e che a me parvero, in realtà, tutti uguali. E poi non
avevamo tempo per guardare gli altri, dovevamo pensare alla nostra,
di guerra.
Però, con gli
anni, le cose peggiorarono. Io andai a fare il muratore, un lavoro
duro e senza speranza di carriera. Ero rimasto tra i pochi italiani,
in quel mestiere: arrivavano, di nuovi, solo albanesi e moldavi. Ciò
accrebbe il mio risentimento e rafforzò la mia aggressività
domenicale.
Ma, la storia inizia
soltanto adesso, in questo momento.
Fu allorquando
scoppiò lo scandalo del calcio scommesse ed avvennero quei fatti
truci che tutti conosciamo, che i miei amici ed io decidemmo di
passare all’azione.
L’idea venne ad
Alberto, nullafacente figlio di un potente avvocato che per mesi ci
tempestò con il suo sdegno contro i calciatori, fino ad allora
nostri beniamini.
Dalle sue parole
scoprimmo tutto ad un tratto, che i calciatori erano stronzi ricchi e
viziati, privilegiati e, tutto sommato, teste di minchia.
Ma la nostra
rabbia funesta, il nostro odio sociale represso, scoppiò quando,
proprio per causa del ricchissimo Riccardo Strafazzi (fin allora
amato dai maschi e desiderato dalle femmine) e dei suoi intrallazzi
scandalosi, il più capriccioso tra i giocatori della nostra squadra
del cuore, fummo retrocessi.
Si’ retrocessi,
ricordate? dalla seria A, in serie C.
La nostra squadra che mai era
uscita dalla serie A. Un’onta che non volemmo perdonare al
traditore.
Invece di mettere
in galera lui, quei buonisti dei magistrati italiani e magistrati
sportivi, lo sospesero dal gioco soltanto per tre domeniche: tutto
qui!
E continuarono a
strapagarlo, quel senza palle, mentre retrocessero noi, la nostra
squadra, la nostra vita, nella terza serie.
Fu, quella, la
prima notte in cui smisi di dormire.
“Dobbiamo fare qualcosa,
bisogna agire con veemenza” andava urlando, quotidianamente,
Alberto, il ricco figlio d’avvocato, insinuandosi dentro i nostri
cervelli già abbastanza esacerbati e non molto progrediti o evoluti.
E qualcosa lo
combinammo in quell’estate maledetta, quando decidemmo di punire il
traditore dei nostri ideali, dei nostri colori, della nostra squadra.
La squadra
speciale sabotatori e giustizieri, organizzata perfettamente, venne
formata da me, da Romano Bertini e dal vecchio e caro Ettore, che –
in quel periodo - era già andato in pensione, mentre quel gran
figlio d’ avvocato di Alberto era rimasto ad impartire messaggi di
azione telefonici dalla base (cioè dallo studio di suo padre che,
in quel momento, si trovava in vacanza alle Maldive con la nuova
compagna) da li’ partivano gli ordini.
Identificammo la
villetta dello Strafazzi, una superba costruzione che rappresentava
al meglio i canoni architettonici della new armony, impreziosita da
tutte le nuove ed avanzatissime tecnologie, comprese quelle che,
ufficialmente, ancora non erano state inventate. L’architetto che
la progettò era un americano, certo Mc Brian, che aveva lavorato ai
rifacimenti di alcune stanze della Casa Bianca, ai tempi di Bush, poi
al Cremlino per rifare i pavimenti ed aveva anche progettato,
successivamente i sistemi di sicurezza e di allarme in una
magnificentissima villa ad Arcore, vicino Milano, appartenuta ad un
famoso e potentissimo tifoso di calcio, ex Presidente della squadra
del Milan del quale non ricordo il nome e Presidente di qualche
altra cosa ( ma non so di cosa, mi sembra di un consiglio, io di
politica non me ne intendo).
La villetta
dello Strafazzi appariva seminascosta, per rispettare la privacy del
calciatore, che si sarebbe potuto tuffare nella sua piscina, fatta a
forma di cuore, mentre la bellissima moglie avrebbe potuto
sollazzarsi, sorseggiando un martini, standosene completamente nuda a
bordo vasca. Ma, oltre e nonostante ciò, egli avrebbe potuto godere,
dall’acqua in cui era immerso, di un panorama mozzafiato sulle
colline, sui vigneti e sul mare sottostante. Ci dispiacque per il
grandissimo architetto Mc Brian, fornitore dei suoi servizi ai grandi
della terra, ma noi, in breve tempo, riuscimmo a penetrare i sistemi
di sicurezza, perché Romano Bertini, che nella vita è un fallito,
in materia di elettronica è un genio. In breve violammo l’edificio.
Nel garage interno erano
parcheggiate più di venti auto (la favolosa collezione privata dello
Strafazzi, che si pensava fosse solo una leggenda), sia nuove che
antiche. Scoprimmo subito alcuni pezzi d’epoca, tra cui una
“topolino”, poi la mitica seicento color nocciolina, quindi una
delle prime Volkswagen ed infine una preziosissima Lamborghini.
Nell’altro garage sostava una Mercedes nera che pareva proprio
quella del capo dei nazisti Adolf Hitler. In una terza sala potemmo
ammirare una trentina di favolose motociclette, una Harley americana
dipinta coi colori della bandiera stelle e strisce, la Honda 750, il
bianco Guzzi “V7” che, ai miei tempi, avrei dato l’anima, non
per possederlo - sarebbe stato troppo - ma solo per poterlo guidare
per cinquecento metri. Notai, anche, una potente BMW mille di
cilindrata, agganciato c’era anche il sidecar. Non potei non
sedermici sopra. Ma il bello doveva ancora venire.
Fuori del garage, in una
piazzola esterna, sostava in bella mostra, e ciò ci fermò la saliva
nel palato, una Ferrari f430 spider. Colore blu intenso, era coperta
da una piccola coltre trasparente. La togliemmo e toccammo
voluttuosamente la vettura, scusatemi! volevo dire l’opera d’arte,
come invasati. Davanti al cofano, sulla parte superiore e verso
destra, era segnata da una specie di ammaccatura, però, guardando
bene da vicino, notammo che si trattava di tre segni, come delle
tacche.
Ercole ci disse di aver
saputo, tramite amici, che il calciatore li considerava tre punti di
onore. Uno lo aveva messo quando aveva tamponato un motociclista e
l’aveva fatta franca. Un altro quando aveva investito un vigile che
cercava di fermarlo e si era messo a correre così veloce, che il
poveretto non aveva potuto prendergli il numero di targa e, anche se
sapeva che era lui il colpevole, non aveva potuto farci niente. La
terza tacca, e qui inorridimmo, si disse fosse stata messa lì per
rammentare il grande numero di partite truccate senza che nessuno, né
i tifosi, né i giornalisti, né la federazione gioco calcio, né la
magistratura, se ne fossero accorti. Ci venne la voglia di sfasciare
quella vettura milionaria, ma avremmo fatto troppo casino.
Effettivamente, noi,
eravamo venuti fin là solo per rapire un bambino, il figlio di
Riccardo Strafazzi.
A questo punto del racconto
Ugo e Angelo deglutirono la saliva. Si fecero un muto cenno, come per
dire che avrebbero dovuto rimandare a dopo la discussione, in una
sede separata.
Continuo’,
Se lo sarebbe
ricordato, quello stronzo di Strafazzi, il suo comportamento
arrogante. Lo avremmo fatto piangere come un tacchino.
Qui Samuele si fermò un
momento, come per riflettere.
“E poi cosa è
successo?” Gli chiesero tutti in coro.
Il racconto, allora,
proseguì speditamente.
Sapevamo che lo
strapagato Strafazzi, quella domenica, era impegnato nel campo della
Roma, quindi assai lontano dalla villa. Sapevamo anche, che la sua
strabellissima moglie era impegnata nella famosa trasmissione
televisiva calcistica diretta dalla Simona Ventura, quella che
seguiva pedissequamente la partita, secondo per secondo, e lo avevamo
appurato coi nostri occhi davanti al teleschermo.
La intervistavano in
continuazione la bella e oca moglie del calciatore stronzissimo e
lei, mostrando il bel decolté con seni forse rifatti forse no,
pronunciava, con sicurezza da attrice navigata, ottime e spiritose
battute.
Il piccolo, figlio di
entrambi, si trovava, in quel momento, da solo nella grande villa,
accudito da una cameriera peruviana, bella figliola anche quella, e
nessuno, oltre a lei, si stava occupando della sua sicurezza.
Si dice che i
calciatori guadagnino in base ai gol. Ferlicchi, il nostro attaccante
aveva siglato, nella scorsa stagione calcistica, trentaquattro gol
guadagnando circa un milione di euro ad ogni marcatura. Lo
stramaledetto Strafazzi, guadagnava cinquanta milioni per ogni gol
che facevano gli altri, perché ne aveva messo a segno uno solo,
sbagliando, dentro la sua porta, essendo il portiere della nostra
squadra.
Ma altri milioni
li guadagnava con la pubblicità del gelato “Ciuccia” e
facendoci comprare, a noi tutti, le schede telefoniche della ditta
“Telefoni al vento”, quella che ciuccia un sacco di soldi, a noi
tutti, per ogni SMS e per ogni stramaledetto minuto di telefonate e
di truffaldini scatti alla risposta. Altri soldi li faceva, la
bellissima moglie, cantando in tivù le canzoni di una volta, e tanti
ne prendeva anche la suocera, ancora piacente, cui lo Strafazzi aveva
intestato un negozio, il sexy shop “La linguaccia”, sulla strada
verso Foggia.
Il racconto fu interrotto
da Tutti, coralmente
“E il bambino?”
Samuele proseguì la
narrazione
.
Bhaaa, quel
giorno eravamo intenzionati di tenerlo sotto sequestro, fino a che
non avessimo convinto i giudici a sbattere Strafazzi in gattabuia e a
far promuovere nuovamente la nostra squadra del cuore, stavolta per
sempre, in seria A. I nostri piani erano quelli. La garanzia di stare
sempre in serie A, in ogni caso.
Penetrammo, attraverso i
garage, al primo piano, poi alla stanza da letto e, infine, nella
cameretta del bambino dove intuimmo esserci una televisione accesa.
La balia stava tranquillamente seduta in poltrona, in comoda posa,
mentre leggeva un fotoromanzo peruviano, accarezzandosi da sola i
lunghissimi e neri capelli, di tanto in tanto. Quando ci vide restò
paralizzata dal terrore. Il piccolino dormiva ancora ed era
bellissimo. La ragazza si tolse l’accappatoio rosso che la
avvolgeva e si mostrò nuda ad Ercole, offrendosi per esser
violentata da lui, purché risparmiassimo il bambino. Ma Ercole, con
gagliardia, affermò che era venuto per una grande missione e che non
si sarebbe fermato per una donna, anche se stupenda. Si limitò a
palpeggiarle il seno e il sedere.
Però, quest’ultimo
gesto osceno, lo fece da sopra l’accappatoio. Uscimmo dal terrazzo
che dava sulla collinetta e fummo fuori col bambino in braccio:
missione compiuta. Eravamo disposti a tutto, anche a ammazzarlo, quel
povero bambino. Ma poi, fatti pochi passi, Egli si svegliò e
cominciò a piangere. Dapprima fui infastidito, poi tutti provammo
pena.
“Ma cosa stiamo
facendo?” Ci chiedemmo tra di noi. Uccidiamo gli innocenti come ha
fatto Erode, solo per colpa di un cretino che gioca a pallone e
imbroglia il Mondo intero? Ercole allora, riprese il bimbo tra le sue
forti braccia, infilò la strada al contrario e tornò a porgerlo su
quelle della bella peruviana, terrorizzata e ansimante. La passammo
quasi tutti liscia. Di me nessuno sospettò né allora né adesso, di
Romano Bertini men che meno. Il figlio d’avvocato sta bene e se la
passa alla grande.
Solo il povero e
buon Ercole pagò per tutti noi, perché commise il bruttissimo
errore, quando tornò a portare il bambino nella casa dello
Strafazzi, di lasciare il suo numero di telefono alla ragazza
peruviana che, appena arrivò la Polizia, lo consegnò come unico
indizio.
E’ ancora in carcere,
quella tempra d’uomo, ma non ha mai parlato, né mai parlerà.
Da quel giorno, nessuno di
noi volle più sentir parlare di calcio, per tutti gli anni che ci
rimarranno da vivere.
Finito quest’altro,
ennesimo, racconto bizzarro, Angelo e Ugo, andando a prendere altre
provviste in cucina, convennero che Samuele si doveva considerare il
maggior sospettato, almeno fino a quell’istante. “Con una testa
di coccio così – pensarono entrambi – sarebbe capace di
qualsiasi cosa.”
Ma ancora non avevano sentito
gli altri.
Gli ospiti ripresero fiato.
Certo, queste storie sono parecchio dure da digerire, quasi più
pesanti dei cibi che vengono preparati nelle grandi cucine del
castello.
Gli anziani, Ugo e Angelo,
tornarono in salone. Tenevano alti, sopra la testa, due immensi
vassoi. Uno, quello col pollo in forno, bagnato alla birra canadese,
speziato con odori indonesiani e profumatissimo, era contornato da
patate ben abbrustolite e fagioli di Lamon, tra i migliori al mondo.
L’altro vassoio, poi,
presentava una serie di leccornie, tra le quali un caciotta di
formaggio latteria di Treviso, una fetta di Asiago e formaggi
francesi, piu’ un’insalata di verdure e pomodori con del Feta
greco e mais, contornato dalle banane cotte al vapore con miele e
vino rosso, e della bresaola valdostana molto stagionata.
“Pedro – disse Ugo con
voce sonante – ora tocca a te, se vuoi. Prima, però, serviti in
abbondanza.”
Egli rispose gia’ con la
bocca piena e col mento bagnato di vari sughi.
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