venerdì 13 settembre 2019

Il Grande Catello (6° Capitolo)


Capitolo sesto
La Domenica nel pallone
Il racconto di Samuele
Il più bel gioco del mondo




La bala es tonda.”
Helenio Herrera, detto “ el mago”


Fin da bambino, mi capitava di provare una specie di orgasmo nell’osservare un pallone a scacchi bianchi e neri roteare e volteggiare, in un campo verde.
Forse, ciò accadeva perché me lo avevano insegnato tutti: gli amici a scuola che non parlavano d’altro, gli uomini per la strada oppure la causa era che me lo avevano instillato in mente mamma e papà, giorno dopo giorno, loro che desideravano in maniera maniacale un figlio calciatore, ben sapendo che, altrimenti, l’unica mia soluzione di vita, nella mia cittadina in provincia di Bari, sarebbe stata quella, non entusiasmante, di fare il macellaio o il muratore.
I miei genitori adoravano e accarezzavano, spesso, l’idea ch’io diventassi come certi eroi del football, quelle star che guadagnano miliardi coi calci al pallone.
O come certi altri giocatori, che i soldi li fanno tramite la pubblicità in televisione, edulcorando prodotti di grandi multinazionali, scrivendo o meglio, facendosi scrivere libri, oppure raccontando mediocri barzellette, ma che fanno ridere perche’ raccontate da uno che ha la faccia da scemo.
Ed inoltre, queste celebrità del pallone aiutavano i parenti più prossimi, procurando da lavorare anche ad ogni loro amico e familiare e diventando, così, gli uomini più ricchi, influenti e benestanti del paese.
Forse, questo amore per il pallone, me lo aveva insegnato la televisione, che trasmetteva football e palloni a scacchi e classifiche e commenti e polemiche e moviole e arbitri cornuti e ultras ignoranti sette giorni su sette.
Eppure, lo dico davanti a Dio onnipotente e onnisciente, io non so, giunti alla nostra fine, se mai mi sia piaciuto veramente il gioco del calcio.
Mio padre non si sarebbe mai perso una partita di pallone, fosse anche stata dell’ultima serie, di infima importanza, lui la doveva scrutare in tivù, esaminarla, commentarla, vivisezionarla e dare i voti di merito ad ogni giocatore, anche il più becero e sconosciuto. E godeva, in questo stillicidio, piu’ che se avesse scopato miss Italia.
Assieme ai suoi amici, passava pomeriggi e serate intere davanti allo schermo, quando venivano trasmesse le partite di calcio, cioe’ sempre.
Le mogli, annoiate da quei tristi maschi fanatici footballdipendenti, preparavano loro deliziosi spuntini e birre sempre alla giusta temperatura. Mai si sarebbero sognate (ahhhh, le donne di quei tempi), di interrompere questa sacra liturgia, magari raccontando ai cari mariti dei loro problemi (e perché mai – si chiedevano i maschi – le loro donne avrebbero dovuto avere un qualche, minimo, problema?) o proponendo loro di divertirsi, una volta ogni tanto, facendo qualcos’altro.
In quel tempo, se un ragazzo giovane e maschio non avesse manifestato interesse per il calcio, i maschi adulti della stessa specie si sarebbero preoccupati molto. Sarebbe stato meglio essersi dichiarati omosessuali ( cosa che, a quel tempo, rappresentava uno scandalo ed un’ onta per tutta la famiglia) piuttosto che evitare di manifestare la passione calcistica, di affermare che il calcio non gli piaceva manco per niente.
Quando, nei primi tempi della mia infanzia, non provavo piacere per questo sport nazionale, venni condotto dallo psicologo. I miei genitori gli ripetevano che ero svogliato, che non mi comportavo come gli altri ragazzi. Ingannai agevolmente il professionista dei cervelli, mentendo ed insinuando una presunta omofilia, una forte omosessualita’ e così mi lasciarono in pace.
Infatti quando , dopo tanti dai e dai, mi convinsero ad amare il gioco del pallone, mio padre affermò, commentando nonche’ concordando con i suoi furbi vicini:
Avete visto? Adesso gli piace il calcio e, perciò, gli piacciono anche le femmine, pensate – disse con la fierezza del padre ai suoi degni amici – che ieri ho trovato, nascoste nel suo comodino, alcune riviste pornografiche. Cose piccanti e intime di donne nude, con zinne al vento.” Eh, mio padre … Lui sì che la sapeva lunga!


Cominciarono, così, le interminabili domeniche calcistiche, che iniziano alla mattina con la consultazione del grande foglio rosa, specializzato in ogni sport e finiscono in tarda ora davanti alla mitica “Domenica Sportiva” televisiva.
E poi le trasferte col gruppo di amici.
I miei studi in classe, intanto, erano improntati al sei minino garantito, non ci mettevo molta energia. Le cose che succedevano fuori non mi intrallazzavano molto, le donne mi piacevano il giusto (avevo una ragazza con cui si programmavano i giorni per fare l’amore, allora ci si lavava ognuno a casa sua, ci si cambiava la biancheria intima e si passava una mezz’oretta insieme … senza tanta esagerazione o troppa passione.)
La politica, poi, non mi ha mai destato passione anzi, i giovinastri che occupavano il centro della città coi fischietti, promuovendo manifestazioni e contestazioni via via sempre più clamorose, mi facevano pena. Ammiravo, invece, chi per la politica menava le mani. Sì è ovvio, perché anche il mio gruppo di tifosi, quando si andava a vedere le partite in altre città, cercava sempre si scaldarsi coi pugni. Dobbiamo essere maschi, come ci ha insegnato il nostro codice sociale e familiare, non delle effeminate mammolette.
Eh sì, erano proprio immensamente favolose e piene di avventura le trasferte con gli amici. Seguivamo i nostri beniamini, la squadra del nostro cuore, con un pullman dipinto coi colori della bandiera del club. Si iniziava ad urlare alla mattina presto, dopo la colazione, quando il conducente ancora dormiva. Se mai avessimo incontrato un qualche pullman coi colori della tifoseria avversaria di quella Domenica, sarebbe successo il finimondo. Una volta imponemmo al conducente di speronare un torpedone di “conigli” rossoneri, per fortuna l’autista, eroicamente, resistette.
Un’altra domenica, in un derby infuocato, l’unica, vera partita si svolse negli spalti anziché in campo. Fu una vera e propria guerriglia tra tifosi avversari e tra tutte le tifoserie insieme, unite contro polizia e carabinieri. Fummo noi i veri protagonisti, non i calciatori. Furono chiamate, in quella terribile giornata, anche la capitaneria di porto e le guardie forestali per sedare gli animi. Ci furono feriti e si versò molto sangue e la partita di calcio, quella vera, fu sospesa al trentacinquesimo minuto del secondo tempo.
Ricordo la testimonianza rilasciata ad una emittente privata, che aveva raggiunto il nostro gruppo per intervistarci ancora sporchi di sangue , dal mio compagno Ettore, ultracinquantenne padre di famiglia, che aveva portato in quella pericolosissima arena il suo ultimogenito, un bambino di cinque anni, per “formarsi” alla “filosofia” del calcio, disse:
Ho notato – disse parlando di quello che era successo nel’’altra curva, dove ci furono dei morti - quei criminali sostenitori della squadra nero azzurra , scagliarsi con veemenza e odio contro i poveri e buoni tifosi bianco rossi (fatalità erano i colori della nostra squadra) e aggredirli con ogni sorta di armamento.”
Che cosa avesse visto lui, in realtà non lo so, poiché ci trovavamo tutti nell’anello di sotto, quello vicino al campo di gioco e non si poteva guardare che da lontanissimo ciò che stava succedendo nella curva Nord. Io vidi solo pazzi scatenati che se le davano di santa ragione, energumeni esagitati, senza alcun colore addosso che potessero farli distinguere e che a me parvero, in realtà, tutti uguali. E poi non avevamo tempo per guardare gli altri, dovevamo pensare alla nostra, di guerra.
Però, con gli anni, le cose peggiorarono. Io andai a fare il muratore, un lavoro duro e senza speranza di carriera. Ero rimasto tra i pochi italiani, in quel mestiere: arrivavano, di nuovi, solo albanesi e moldavi. Ciò accrebbe il mio risentimento e rafforzò la mia aggressività domenicale.
Ma, la storia inizia soltanto adesso, in questo momento.




Fu allorquando scoppiò lo scandalo del calcio scommesse ed avvennero quei fatti truci che tutti conosciamo, che i miei amici ed io decidemmo di passare all’azione.
L’idea venne ad Alberto, nullafacente figlio di un potente avvocato che per mesi ci tempestò con il suo sdegno contro i calciatori, fino ad allora nostri beniamini.
Dalle sue parole scoprimmo tutto ad un tratto, che i calciatori erano stronzi ricchi e viziati, privilegiati e, tutto sommato, teste di minchia.
Ma la nostra rabbia funesta, il nostro odio sociale represso, scoppiò quando, proprio per causa del ricchissimo Riccardo Strafazzi (fin allora amato dai maschi e desiderato dalle femmine) e dei suoi intrallazzi scandalosi, il più capriccioso tra i giocatori della nostra squadra del cuore, fummo retrocessi.
Si’ retrocessi, ricordate? dalla seria A, in serie C.
La nostra squadra che mai era uscita dalla serie A. Un’onta che non volemmo perdonare al traditore.
Invece di mettere in galera lui, quei buonisti dei magistrati italiani e magistrati sportivi, lo sospesero dal gioco soltanto per tre domeniche: tutto qui!
E continuarono a strapagarlo, quel senza palle, mentre retrocessero noi, la nostra squadra, la nostra vita, nella terza serie.
Fu, quella, la prima notte in cui smisi di dormire.
Dobbiamo fare qualcosa, bisogna agire con veemenza” andava urlando, quotidianamente, Alberto, il ricco figlio d’avvocato, insinuandosi dentro i nostri cervelli già abbastanza esacerbati e non molto progrediti o evoluti.
E qualcosa lo combinammo in quell’estate maledetta, quando decidemmo di punire il traditore dei nostri ideali, dei nostri colori, della nostra squadra.
La squadra speciale sabotatori e giustizieri, organizzata perfettamente, venne formata da me, da Romano Bertini e dal vecchio e caro Ettore, che – in quel periodo - era già andato in pensione, mentre quel gran figlio d’ avvocato di Alberto era rimasto ad impartire messaggi di azione telefonici dalla base (cioè dallo studio di suo padre che, in quel momento, si trovava in vacanza alle Maldive con la nuova compagna) da li’ partivano gli ordini.
Identificammo la villetta dello Strafazzi, una superba costruzione che rappresentava al meglio i canoni architettonici della new armony, impreziosita da tutte le nuove ed avanzatissime tecnologie, comprese quelle che, ufficialmente, ancora non erano state inventate. L’architetto che la progettò era un americano, certo Mc Brian, che aveva lavorato ai rifacimenti di alcune stanze della Casa Bianca, ai tempi di Bush, poi al Cremlino per rifare i pavimenti ed aveva anche progettato, successivamente i sistemi di sicurezza e di allarme in una magnificentissima villa ad Arcore, vicino Milano, appartenuta ad un famoso e potentissimo tifoso di calcio, ex Presidente della squadra del Milan del quale non ricordo il nome e Presidente di qualche altra cosa ( ma non so di cosa, mi sembra di un consiglio, io di politica non me ne intendo).
La villetta dello Strafazzi appariva seminascosta, per rispettare la privacy del calciatore, che si sarebbe potuto tuffare nella sua piscina, fatta a forma di cuore, mentre la bellissima moglie avrebbe potuto sollazzarsi, sorseggiando un martini, standosene completamente nuda a bordo vasca. Ma, oltre e nonostante ciò, egli avrebbe potuto godere, dall’acqua in cui era immerso, di un panorama mozzafiato sulle colline, sui vigneti e sul mare sottostante. Ci dispiacque per il grandissimo architetto Mc Brian, fornitore dei suoi servizi ai grandi della terra, ma noi, in breve tempo, riuscimmo a penetrare i sistemi di sicurezza, perché Romano Bertini, che nella vita è un fallito, in materia di elettronica è un genio. In breve violammo l’edificio.
Nel garage interno erano parcheggiate più di venti auto (la favolosa collezione privata dello Strafazzi, che si pensava fosse solo una leggenda), sia nuove che antiche. Scoprimmo subito alcuni pezzi d’epoca, tra cui una “topolino”, poi la mitica seicento color nocciolina, quindi una delle prime Volkswagen ed infine una preziosissima Lamborghini. Nell’altro garage sostava una Mercedes nera che pareva proprio quella del capo dei nazisti Adolf Hitler. In una terza sala potemmo ammirare una trentina di favolose motociclette, una Harley americana dipinta coi colori della bandiera stelle e strisce, la Honda 750, il bianco Guzzi “V7” che, ai miei tempi, avrei dato l’anima, non per possederlo - sarebbe stato troppo - ma solo per poterlo guidare per cinquecento metri. Notai, anche, una potente BMW mille di cilindrata, agganciato c’era anche il sidecar. Non potei non sedermici sopra. Ma il bello doveva ancora venire.
Fuori del garage, in una piazzola esterna, sostava in bella mostra, e ciò ci fermò la saliva nel palato, una Ferrari f430 spider. Colore blu intenso, era coperta da una piccola coltre trasparente. La togliemmo e toccammo voluttuosamente la vettura, scusatemi! volevo dire l’opera d’arte, come invasati. Davanti al cofano, sulla parte superiore e verso destra, era segnata da una specie di ammaccatura, però, guardando bene da vicino, notammo che si trattava di tre segni, come delle tacche.
Ercole ci disse di aver saputo, tramite amici, che il calciatore li considerava tre punti di onore. Uno lo aveva messo quando aveva tamponato un motociclista e l’aveva fatta franca. Un altro quando aveva investito un vigile che cercava di fermarlo e si era messo a correre così veloce, che il poveretto non aveva potuto prendergli il numero di targa e, anche se sapeva che era lui il colpevole, non aveva potuto farci niente. La terza tacca, e qui inorridimmo, si disse fosse stata messa lì per rammentare il grande numero di partite truccate senza che nessuno, né i tifosi, né i giornalisti, né la federazione gioco calcio, né la magistratura, se ne fossero accorti. Ci venne la voglia di sfasciare quella vettura milionaria, ma avremmo fatto troppo casino.
Effettivamente, noi, eravamo venuti fin là solo per rapire un bambino, il figlio di Riccardo Strafazzi.


A questo punto del racconto Ugo e Angelo deglutirono la saliva. Si fecero un muto cenno, come per dire che avrebbero dovuto rimandare a dopo la discussione, in una sede separata.




Continuo’,
Se lo sarebbe ricordato, quello stronzo di Strafazzi, il suo comportamento arrogante. Lo avremmo fatto piangere come un tacchino.
Qui Samuele si fermò un momento, come per riflettere.
E poi cosa è successo?” Gli chiesero tutti in coro.
Il racconto, allora, proseguì speditamente.


Sapevamo che lo strapagato Strafazzi, quella domenica, era impegnato nel campo della Roma, quindi assai lontano dalla villa. Sapevamo anche, che la sua strabellissima moglie era impegnata nella famosa trasmissione televisiva calcistica diretta dalla Simona Ventura, quella che seguiva pedissequamente la partita, secondo per secondo, e lo avevamo appurato coi nostri occhi davanti al teleschermo.
La intervistavano in continuazione la bella e oca moglie del calciatore stronzissimo e lei, mostrando il bel decolté con seni forse rifatti forse no, pronunciava, con sicurezza da attrice navigata, ottime e spiritose battute.
Il piccolo, figlio di entrambi, si trovava, in quel momento, da solo nella grande villa, accudito da una cameriera peruviana, bella figliola anche quella, e nessuno, oltre a lei, si stava occupando della sua sicurezza.
Si dice che i calciatori guadagnino in base ai gol. Ferlicchi, il nostro attaccante aveva siglato, nella scorsa stagione calcistica, trentaquattro gol guadagnando circa un milione di euro ad ogni marcatura. Lo stramaledetto Strafazzi, guadagnava cinquanta milioni per ogni gol che facevano gli altri, perché ne aveva messo a segno uno solo, sbagliando, dentro la sua porta, essendo il portiere della nostra squadra.
Ma altri milioni li guadagnava con la pubblicità del gelato “Ciuccia” e facendoci comprare, a noi tutti, le schede telefoniche della ditta “Telefoni al vento”, quella che ciuccia un sacco di soldi, a noi tutti, per ogni SMS e per ogni stramaledetto minuto di telefonate e di truffaldini scatti alla risposta. Altri soldi li faceva, la bellissima moglie, cantando in tivù le canzoni di una volta, e tanti ne prendeva anche la suocera, ancora piacente, cui lo Strafazzi aveva intestato un negozio, il sexy shop “La linguaccia”, sulla strada verso Foggia.
Il racconto fu interrotto da Tutti, coralmente
E il bambino?”
Samuele proseguì la narrazione
.
Bhaaa, quel giorno eravamo intenzionati di tenerlo sotto sequestro, fino a che non avessimo convinto i giudici a sbattere Strafazzi in gattabuia e a far promuovere nuovamente la nostra squadra del cuore, stavolta per sempre, in seria A. I nostri piani erano quelli. La garanzia di stare sempre in serie A, in ogni caso.
Penetrammo, attraverso i garage, al primo piano, poi alla stanza da letto e, infine, nella cameretta del bambino dove intuimmo esserci una televisione accesa. La balia stava tranquillamente seduta in poltrona, in comoda posa, mentre leggeva un fotoromanzo peruviano, accarezzandosi da sola i lunghissimi e neri capelli, di tanto in tanto. Quando ci vide restò paralizzata dal terrore. Il piccolino dormiva ancora ed era bellissimo. La ragazza si tolse l’accappatoio rosso che la avvolgeva e si mostrò nuda ad Ercole, offrendosi per esser violentata da lui, purché risparmiassimo il bambino. Ma Ercole, con gagliardia, affermò che era venuto per una grande missione e che non si sarebbe fermato per una donna, anche se stupenda. Si limitò a palpeggiarle il seno e il sedere.
Però, quest’ultimo gesto osceno, lo fece da sopra l’accappatoio. Uscimmo dal terrazzo che dava sulla collinetta e fummo fuori col bambino in braccio: missione compiuta. Eravamo disposti a tutto, anche a ammazzarlo, quel povero bambino. Ma poi, fatti pochi passi, Egli si svegliò e cominciò a piangere. Dapprima fui infastidito, poi tutti provammo pena.
Ma cosa stiamo facendo?” Ci chiedemmo tra di noi. Uccidiamo gli innocenti come ha fatto Erode, solo per colpa di un cretino che gioca a pallone e imbroglia il Mondo intero? Ercole allora, riprese il bimbo tra le sue forti braccia, infilò la strada al contrario e tornò a porgerlo su quelle della bella peruviana, terrorizzata e ansimante. La passammo quasi tutti liscia. Di me nessuno sospettò né allora né adesso, di Romano Bertini men che meno. Il figlio d’avvocato sta bene e se la passa alla grande.
Solo il povero e buon Ercole pagò per tutti noi, perché commise il bruttissimo errore, quando tornò a portare il bambino nella casa dello Strafazzi, di lasciare il suo numero di telefono alla ragazza peruviana che, appena arrivò la Polizia, lo consegnò come unico indizio.
E’ ancora in carcere, quella tempra d’uomo, ma non ha mai parlato, né mai parlerà.
Da quel giorno, nessuno di noi volle più sentir parlare di calcio, per tutti gli anni che ci rimarranno da vivere.
Finito quest’altro, ennesimo, racconto bizzarro, Angelo e Ugo, andando a prendere altre provviste in cucina, convennero che Samuele si doveva considerare il maggior sospettato, almeno fino a quell’istante. “Con una testa di coccio così – pensarono entrambi – sarebbe capace di qualsiasi cosa.”
Ma ancora non avevano sentito gli altri.
Gli ospiti ripresero fiato. Certo, queste storie sono parecchio dure da digerire, quasi più pesanti dei cibi che vengono preparati nelle grandi cucine del castello.
Gli anziani, Ugo e Angelo, tornarono in salone. Tenevano alti, sopra la testa, due immensi vassoi. Uno, quello col pollo in forno, bagnato alla birra canadese, speziato con odori indonesiani e profumatissimo, era contornato da patate ben abbrustolite e fagioli di Lamon, tra i migliori al mondo.
L’altro vassoio, poi, presentava una serie di leccornie, tra le quali un caciotta di formaggio latteria di Treviso, una fetta di Asiago e formaggi francesi, piu’ un’insalata di verdure e pomodori con del Feta greco e mais, contornato dalle banane cotte al vapore con miele e vino rosso, e della bresaola valdostana molto stagionata.
Pedro – disse Ugo con voce sonante – ora tocca a te, se vuoi. Prima, però, serviti in abbondanza.”
Egli rispose gia’ con la bocca piena e col mento bagnato di vari sughi.













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