lunedì 23 settembre 2019

Il Grande Castello ( 8°Capitolo )


E’ molto strana, a volte, la vita, e lo è in modo speciale quando è del tutto bugiarda.
E la mia vita falsa lo è stata, credo, da quando sono nato, nella mia Perugia. Inattendibili sono stati i miei genitori, e l’ho capito quando mi trovavo in trasmissione, davanti a milioni e milioni di spettatori, ma l’avrei dovuto immaginare ben prima di allora.
Quello che dirò della mia esistenza riguarda solo la mia presenza al programma televisivo il Grande Fratello, il resto è nullità. E’come se, oltre alla partecipazione a quella trasmissione io, Kevin, non fossi mai esistito.
Da tempo immemorabile avevo tentato, con ogni mezzo legale, di entrare a far parte di quella casa magica, anche se falsa. della periferia romana.
Ci provai e ci riprovai per molte volte. Ne seguii in diretta ogni edizione col massimo rispetto e la massima attenzione. Anzi, andavo spesso alla ricerca di ogni altra edizione mondiale del Big Brother, anche se non capivo le altre lingue, perciò provavo a immaginare e ad inventarmi cosa dicessero i protagonisti. Nello schermo del mio cellulare, seguivo ventiquattro ore su ventiquattro l’evento, quando lo trasmettevano in Italia.
Quando non riuscii a superare i primi, difficilissimi provini, qualcuno mi propose altri sistemi per andare avanti. Io avrei fatto carte false per partecipare a quel magnifico gioco e perciò inviai domanda anche all’estero, ma non ci fu niente da fare. Dovetti accettare, perciò, quello che accettavano tutti: spesi moltissimo denaro per pagare una figura professionale famosissima di questi tempi, cioe’ per il mio Tutor.
Il Tutor, persona magica, è colui che ti può guidare tra le mille difficoltà che, inevitabilmente, si incontrano nel lungo viaggio tra il mondo della realtà e quello, incantato, della tivù: è più arduo di un viaggio interspaziale e costa moltissimo
(“sai” - ti dice lui - “bisogna oliare molti meccanismi, oppure “se l’acqua è poca la papera non galleggia”)
e perciò io pagai, ma lo feci con gioia e grande speranza (mi aiutarono, prestandomi soldi, i miei genitori).
Ed arrivò, dopo tanti sacrifici, il giorno più bello della mia vita.
Era una mattina di lunedì, quando, ormai meno me lo aspettavo: fu allorché mi avvisarono di essere stato, finalmente, accettato per partecipare a quel meraviglioso programma.
Si aprì, per me, un mondo che prima nemmeno sospettavo potesse esistere al di fuori della mia fantasia.
E come in una fiaba, in quel giorno incantato vennero a prelevarmi con un’ auto bianca e lunga sette metri, cosi che tutti i miei vicini di casa, vedendomi entrarci con regalità, stramazzarono di invidia; poi mi trasbordarono in un luogo gremito da decine e decine di ragazzini e bambine urlanti, che io nemmeno conoscevo, ma che avrei dovuto salutare come se fossero stati miei amici fraterni. “Ciao Max, ciao Lorena”, gridavo qua e là – così mi avevano detto di fare gli autori della trasmissione – e tutti mi salutavano, mi toccavano le mani e io piangevo. Per l’occasione mi avevano fornito una cipolla che io avevo inserito nel taschino della giacca. Flash e telecamere, tutte su di me che, francamente, non avevo combinato alcunché nella mia vita, né in bene né in male, ma il delirio della folla pareva quello che, di solito, si riserva ai salvatori della Patria, a chi inventa nuove medicine, a chi salva tante vite, a chi dona la sua vita per gli altri, a chi vince un premio Nobel per la fisica o per la letteratura mentre io, invece … continuavo a salutare sconosciuti : “Ehi Cinzia, ci sei anche tu? Grazie di essere venuta.”
Eh sì, la vita per me, in quei giorni magnifici, fu grandiosa. Essa mi riservò le emozioni più seducenti . Anche quando fingevano di punirmi e mi chiudevano in una squallida stanza chiamata “tugurio” (mi chiusero in quel posto ben sette volte) non appena le telecamere si erano allontanate, tornavano a prendermi e mi portavano in un salottino pieno di cibo e passatempi, così io continuavo a far scorrere la giornata davanti ai giochi elettronici.
Intanto, dagli studi televisivi, inviavano agli spettatori a casa immagini di repertorio, come se io fossi lì a soffrire in un carcere: in realtà ripetevano sempre la stessa scena registrata, in cui mi lamentavo, soffrivo, urlavo e piangevo: non avrei mai pensato, nella mia vita, di diventare così fortunato. Nei collegamenti con lo studio, raccontavo della mia vita e venivo intervistato dalle più importanti star televisive, giornalistiche e intellettuali . Mi chiedevo sempre, guardandomi allo specchio: “Ma sono proprio io questo ragazzo?”
Dopo alcune settimane il gioco, con mia somma tristezza, arrivò al suo traguardo. Io mi piazzai al secondo posto, vinse il mio collega transessuale, che ottenne il massimo dei voti dal pubblico che votava al telefono da casa. In realtà non era un transessuale, ma una bellissima e vera donna, cui avevano imposto questa bugia da raccontare agli italiani (l’ennesima). Le avevano sistemato, alla bell’e meglio, un ridicolo rigonfiamento di silicone al pube, che un giorno lei mi mostrò in segreto, facendomi scoprire, nello stesso momento, una vulva favolosa. Dopo di ciò pensai di essermi innamorato di lei, ma questa evenienza non era prevista dal copione. Non se ne fece nulla.
Il fattaccio, invece, successe a telecamere spente. L’edizione del Grande Fratello era finita, tutti se n’erano andati: i macchinisti, gli operatori, il cameraman, il falso pubblico, gli autori che si stringevano la mano tra di loro, auto congratulandosi in attesa di conoscere i dati di ascolto, nonché la bella, bionda e attempata presentatrice, maniaca sessuale e nevrotica. Io, in quel momento, ero rientrato nella cameretta per prendere le mie cose, quando mi aveva preso una dolorosissima colica alla pancia, improvvisamente.
Si dice che, quei dolori, siano la sindrome per l’ allontanamento, temuto e mai voluto, da un luogo di cui ti eri innamorato, della tua agognata terra promessa.
Inconsciamente, non avrei mai sopportato di partire da quella casa.
E, per una serie di fortuiti motivi, da quel luogo non mi allontanai più. Mi accorsi, di essere rimasto chiuso dentro, solo in tarda serata. Andai a dormire pensando che, l’indomani, si sarebbero accorti di me. Ma nessuno mi cercò, nemmeno i miei genitori, ed io non riuscii ad evadere da quel luogo ormai abbandonato da tutti, ma chiuso ermeticamente. Per fortuna le provviste abbondavano, specie in scatolette e pasta, mentre l’acqua continuava a sgorgare dai rubinetti. Si accorsero di me, con grande imbarazzo e divertimento, solo all’apertura dell’edizione successiva, molti mesi dopo.
Fu uno scoop televisivo. Gli autori desiderarono farmi partecipare anche a quella edizione, naturalmente io accettai con tutto il mio cuore, anche se un po’ ero incazzato per la dimenticanza. Fu lì che i miei genitori, quelli che non avevano neanche tentato di rintracciarmi ed erano separati da molti anni, decisero di rimettersi insieme, naturalmente per finta e allo scopo, con finalità economiche, di far piangere milioni e milioni di italiani.
Capii, però, di essere un ragazzo sfortunato, disagiato. Mi prese la depressione. Portai a termine la seconda edizione con sempre minor convinzione: orami non mi divertivo più.
Quando guardavo le coppie di sposi che tenevano i loro bambini per mano, mi veniva da pensare ai miei crudeli genitori: adesso, riflettendoci, capisco cosa provo per loro: odio, disprezzo, amarezza e rimpianti.
A volte immagino che mi sarebbe piaciuto ammazzarli tutti e due. Comincio a capire quelli che mettono le bombe.


Il capo lo guardò pensieroso. Pensò che la causa principale degli omicidi, uxoricidi, infanticidi e tutto il resto dei … cidi, fosse da imputare a quella terribile malattia, la depressione, che ormai contagia tutti e che è chiamata “il male misterioso”. Si scoprirà, in seguito, che la causa di tutti quegli inspiegabili assassinii contro i propri familiari e contro chi prima si era amato con il cuore, era dovuta proprio ad un farmaco che veniva prescritto dai medici a quelli che soffrivano di depressione. Anche se, all’inizio, pareva che quel rimedio servisse a curare, almeno i sintomi, della malattia, in realtà trasformava chi la prendeva, in un vero e proprio omicida. Lo scoprirono alcuni scienziati, mettendo in rapporto depressione e omicidi.


Pedro guardava il povero Kevin con tristezza, egli sarebbe potuto essere suo figlio:
Ma i tuoi genitori non hanno mai tentato di capirti seriamente?”
Il ragazzo rispose di no con un cenno della testa.
In realtà, i suoi genitori un po’ ci avevano provato a comprendere quel ragazzo tanto diverso da loro, dai loro tempi, dalla loro mentalità, ma era stato, come diceva il grande Pierpaolo Pasolini in una sua metafora:
Al pari di quell’entomologo, che studia il suo insetto e tenta di conoscerlo, con freddezza e quasi schifo, disgusto.”
Grande Pasolini, parole terribili.
Il giovane Kevin continuò.
Uscendo dalla casa, conobbi molte personalità e partecipai a spettacoli di chiacchiere (Talk show), di gossip (notizie rosa) e a vari quiz a premi, il cui ricavato era sempre a scopo benefico. Non vinsi mai nulla in quei telequiz, perché sapevo poco di cultura generale e non potei, quindi, fare beneficenza.
Mi intervistarono su molti giornali, anche testate molto famose, nonostante non avessi niente da affermare, da rivelare, né qualcosa che potesse interessare gli altri.
Fu in quei giorni che conobbi un attore americano più depresso di me. Da più di trentacinque anni, l’artista interpretava il ruolo del cattivo in una soap opera quotidiana, nonostante il suo carattere fosse stato allegro e buonissimo. Era bellissimo e attraente, le sue mascelle erano quadrate, che ricordavano un po’ Clark Kent, Superman. Aveva cominciato come per gioco, in quel tempo lontano, e non l’avevano più lasciato uscire a sviluppare e vivere respirando la sua esistenza reale.
Era rimasto intrappolato, come me, in un lavoro bello, sì, ma che non lo lasciava altre uscite. Passava il suo tempo negli studios di Los Angeles, dove tutti i santi giorni, compreso Natale, recitava con gli altri attori una parte che non era la sua. Erano trascorse diecimila cinquecento sei puntate.
Dopo molta prigionia, gli autori avevano deciso di mandarlo in Italia per una breve vacanza, un po’ per cercare di fargli passare il cattivo umore che lo avviliva da molti anni, ma anche per fargli recitare uno spot pubblicitario, proprio assieme a me. Si trattava, in quel caso, della pubblicità di una famosissima bibita, da abbinare, secondo i registi che offrivano i consigli per gli acquisti, all’abbonamento ad una nota compagnia telefonica.
Si svolgeva così: io avrei dovuto fingere, in quello spot, di telefonare, felice, affermando che ogni chiamata costa meno di un tronchetto di liquirizia, mentre il mio collega americano beveva di gusto la bibita frizzante e ghiacciata. Poi, tutti e due assieme, dovevamo abbracciarci, darci il cinque, menare un finto pugno come rudi cow boy e, poi, ridere fino a scompisciarci. Non so se le vendite fossero aumentate dopo la nostra interpretazione, ma io ci guadagnai qualcosa.
Seppi che, la sera stessa, dopo che ci eravamo salutati, prima di salire a bordo dell’aereo che lo avrebbe dovuto riportare negli States, stanco di quelle falsità, stanco di quella trappola, stanco di quella esistenza falsa, si era tolto la vita.
Avvenne, il suicidio, a Milano in una lussuosissima stanza d’albergo. Furono costretti a farlo morire anche nella soap opera, cioè a far morire il personaggio che il mio povero amico aveva interpretato, e quella morte fu, di sicuro, la più reale.
Da quel giorno mi rifiutai non solo di lavorarci, ma anche di guardarla, questa stramaledetta televisione. Noi facciamo solo divertire gli altri e gli altri si divertono e godono con le nostre disgrazie.
Anche la tua storia è molto triste, Kevin” osservò Roberto.
Già – continuò Ugo - chi lo direbbe che tutti i lustrini che si vedono in tivù, tutte le luci e i sorrisi sulla bocca degli attori, possano essere tanto falsi?”
In realtà Ugo lo sapeva benissimo e in lui c’era una vena di ipocrisia, ma lo disse lo stesso. Si appartò, poi, assieme ad Angelo per fare il punto della situazione.
Che dici, Angelo? Ti pare che quel tipo possa essere tanto pericoloso da riuscire ad ammazzare qualcuno?”
Peggio, Ugo, peggio. Per me questo è pericolosissimo e perciò dobbiamo seguirlo attentamente. Bisogna vagliare ogni ipotesi. Cerchiamo di valutare bene le sue parole e, soprattutto, il suo pessimo stato d’animo. In quello stato di crisi, un individuo potrebbe commettere qualsiasi sciocchezza.
Kevin, sia per quanto aveva raccontato, sia per il suo modo un po’ stravagante di muoversi, di guardare gli altri, come se fosse preda di qualche sostanza tossica, venne considerato dai due investigatori improvvisati, ma non troppo ingenui, come il maggior sospettato.
Angelo, bisogna capirlo, era dotato di un grande acume, oltre a conoscere bene il castello, la vita e la psicologia degli uomini, aveva un sesto senso che lo guidava direttamente a comprendere la realtà. Più che parlare con Ugo delle sue indagini, preferiva tenersele tutte in mente, ed elaborarle silenziosamente e ciò lo conduceva sempre alla soluzione. Anche se, dobbiamo dirlo, il caso che stava seguendo stavolta, si prospettava molto, ma molto controverso.
Per attenuare un po’ la fatica degli organi digerenti, Ugo servì, alla temperatura ideale, un buon sgroppino al limone in una caraffa e lo versò nei calici. Un liquore digestivo e dolcissimo che rese gli ospiti più allegri.
Tu, Gionni, che cosa ci racconti di bello?”
Il giovane, dalla poca e rossastra barba, finì di sorseggiare la gustosa bevanda, si soffiò il naso ed iniziò la sua narrazione, mentre i rumori misteriosi si facevano sempre più cupi e più vicini.



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