E’
molto strana, a volte, la vita, e lo è in modo speciale quando è
del tutto bugiarda.
E la mia
vita falsa lo è stata, credo, da quando sono nato, nella mia
Perugia. Inattendibili sono stati i miei genitori, e l’ho capito
quando mi trovavo in trasmissione, davanti a milioni e milioni di
spettatori, ma l’avrei dovuto immaginare ben prima di allora.
Quello
che dirò della mia esistenza riguarda solo la mia presenza al
programma televisivo il Grande Fratello, il resto è nullità. E’come
se, oltre alla partecipazione a quella trasmissione io, Kevin, non
fossi mai esistito.
Da
tempo immemorabile avevo tentato, con ogni mezzo legale, di entrare a
far parte di quella casa magica, anche se falsa. della periferia
romana.
Ci
provai e ci riprovai per molte volte. Ne seguii in diretta ogni
edizione col massimo rispetto e la massima attenzione. Anzi, andavo
spesso alla ricerca di ogni altra edizione mondiale del Big Brother,
anche se non capivo le altre lingue, perciò provavo a immaginare e
ad inventarmi cosa dicessero i protagonisti. Nello schermo del mio
cellulare, seguivo ventiquattro ore su ventiquattro l’evento,
quando lo trasmettevano in Italia.
Quando non
riuscii a superare i primi, difficilissimi provini, qualcuno mi
propose altri sistemi per andare avanti. Io avrei fatto carte false
per partecipare a quel magnifico gioco e perciò inviai domanda anche
all’estero, ma non ci fu niente da fare. Dovetti accettare, perciò,
quello che accettavano tutti: spesi moltissimo denaro per pagare una
figura professionale famosissima di questi tempi, cioe’ per il mio
Tutor.
Il
Tutor, persona magica, è colui che ti può guidare tra le mille
difficoltà che, inevitabilmente, si incontrano nel lungo viaggio
tra il mondo della realtà e quello, incantato, della tivù: è più
arduo di un viaggio interspaziale e costa moltissimo
(“sai”
- ti dice lui - “bisogna oliare molti meccanismi, oppure “se
l’acqua è poca la papera non galleggia”)
e
perciò io pagai, ma lo feci con gioia e grande speranza (mi
aiutarono, prestandomi soldi, i miei genitori).
Ed arrivò,
dopo tanti sacrifici, il giorno più bello della mia vita.
Era una
mattina di lunedì, quando, ormai meno me lo aspettavo: fu allorché
mi avvisarono di essere stato, finalmente, accettato per partecipare
a quel meraviglioso programma.
Si aprì,
per me, un mondo che prima nemmeno sospettavo potesse esistere al di
fuori della mia fantasia.
E come in una
fiaba, in quel giorno incantato vennero a prelevarmi con un’ auto
bianca e lunga sette metri, cosi che tutti i miei vicini di casa,
vedendomi entrarci con regalità, stramazzarono di invidia; poi mi
trasbordarono in un luogo gremito da decine e decine di ragazzini e
bambine urlanti, che io nemmeno conoscevo, ma che avrei dovuto
salutare come se fossero stati miei amici fraterni. “Ciao Max, ciao
Lorena”, gridavo qua e là – così mi avevano detto di fare gli
autori della trasmissione – e tutti mi salutavano, mi toccavano le
mani e io piangevo. Per l’occasione mi avevano fornito una cipolla
che io avevo inserito nel taschino della giacca. Flash e telecamere,
tutte su di me che, francamente, non avevo combinato alcunché nella
mia vita, né in bene né in male, ma il delirio della folla pareva
quello che, di solito, si riserva ai salvatori della Patria, a chi
inventa nuove medicine, a chi salva tante vite, a chi dona la sua
vita per gli altri, a chi vince un premio Nobel per la fisica o per
la letteratura mentre io, invece … continuavo a salutare
sconosciuti : “Ehi Cinzia, ci sei anche tu? Grazie di essere
venuta.”
Eh sì,
la vita per me, in quei giorni magnifici, fu grandiosa. Essa mi
riservò le emozioni più seducenti . Anche quando fingevano di
punirmi e mi chiudevano in una squallida stanza chiamata “tugurio”
(mi chiusero in quel posto ben sette volte) non appena le telecamere
si erano allontanate, tornavano a prendermi e mi portavano in un
salottino pieno di cibo e passatempi, così io continuavo a far
scorrere la giornata davanti ai giochi elettronici.
Intanto, dagli
studi televisivi, inviavano agli spettatori a casa immagini di
repertorio, come se io fossi lì a soffrire in un carcere: in realtà
ripetevano sempre la stessa scena registrata, in cui mi lamentavo,
soffrivo, urlavo e piangevo: non avrei mai pensato, nella mia vita,
di diventare così fortunato. Nei collegamenti con lo studio,
raccontavo della mia vita e venivo intervistato dalle più importanti
star televisive, giornalistiche e intellettuali . Mi chiedevo sempre,
guardandomi allo specchio: “Ma sono proprio io questo ragazzo?”
Dopo
alcune settimane il gioco, con mia somma tristezza, arrivò al suo
traguardo. Io mi piazzai al secondo posto, vinse il mio collega
transessuale, che ottenne il massimo dei voti dal pubblico che votava
al telefono da casa. In realtà non era un transessuale, ma una
bellissima e vera donna, cui avevano imposto questa bugia da
raccontare agli italiani (l’ennesima). Le avevano sistemato, alla
bell’e meglio, un ridicolo rigonfiamento di silicone al pube, che
un giorno lei mi mostrò in segreto, facendomi scoprire, nello stesso
momento, una vulva favolosa. Dopo di ciò pensai di essermi
innamorato di lei, ma questa evenienza non era prevista dal copione.
Non se ne fece nulla.
Il
fattaccio, invece, successe a telecamere spente. L’edizione del
Grande Fratello era finita, tutti se n’erano andati: i macchinisti,
gli operatori, il cameraman, il falso pubblico, gli autori che si
stringevano la mano tra di loro, auto congratulandosi in attesa di
conoscere i dati di ascolto, nonché la bella, bionda e attempata
presentatrice, maniaca sessuale e nevrotica. Io, in quel momento, ero
rientrato nella cameretta per prendere le mie cose, quando mi aveva
preso una dolorosissima colica alla pancia, improvvisamente.
Si dice che,
quei dolori, siano la sindrome per l’ allontanamento, temuto e mai
voluto, da un luogo di cui ti eri innamorato, della tua agognata
terra promessa.
Inconsciamente, non avrei mai
sopportato di partire da quella casa.
E, per una serie di
fortuiti motivi, da quel luogo non mi allontanai più. Mi accorsi, di
essere rimasto chiuso dentro, solo in tarda serata. Andai a dormire
pensando che, l’indomani, si sarebbero accorti di me. Ma nessuno mi
cercò, nemmeno i miei genitori, ed io non riuscii ad evadere da quel
luogo ormai abbandonato da tutti, ma chiuso ermeticamente. Per
fortuna le provviste abbondavano, specie in scatolette e pasta,
mentre l’acqua continuava a sgorgare dai rubinetti. Si accorsero di
me, con grande imbarazzo e divertimento, solo all’apertura
dell’edizione successiva, molti mesi dopo.
Fu
uno scoop televisivo. Gli autori desiderarono farmi partecipare
anche a quella edizione, naturalmente io accettai con tutto il mio
cuore, anche se un po’ ero incazzato per la dimenticanza. Fu lì
che i miei genitori, quelli che non avevano neanche tentato di
rintracciarmi ed erano separati da molti anni, decisero di rimettersi
insieme, naturalmente per finta e allo scopo, con finalità
economiche, di far piangere milioni e milioni di italiani.
Capii,
però, di essere un ragazzo sfortunato, disagiato. Mi prese la
depressione. Portai a termine la seconda edizione con sempre minor
convinzione: orami non mi divertivo più.
Quando guardavo
le coppie di sposi che tenevano i loro bambini per mano, mi veniva da
pensare ai miei crudeli genitori: adesso, riflettendoci, capisco cosa
provo per loro: odio, disprezzo, amarezza e rimpianti.
A volte immagino
che mi sarebbe piaciuto ammazzarli tutti e due. Comincio a capire
quelli che mettono le bombe.
Il
capo lo guardò pensieroso. Pensò che la causa principale degli
omicidi, uxoricidi, infanticidi e tutto il resto dei … cidi, fosse
da imputare a quella terribile malattia, la depressione, che ormai
contagia tutti e che è chiamata “il male misterioso”. Si
scoprirà, in seguito, che la causa di tutti quegli inspiegabili
assassinii contro i propri familiari e contro chi prima si era amato
con il cuore, era dovuta proprio ad un farmaco che veniva prescritto
dai medici a quelli che soffrivano di depressione. Anche se,
all’inizio, pareva che quel rimedio servisse a curare, almeno i
sintomi, della malattia, in realtà trasformava chi la prendeva, in
un vero e proprio omicida. Lo scoprirono alcuni scienziati, mettendo
in rapporto depressione e omicidi.
Pedro
guardava il povero Kevin con tristezza, egli sarebbe potuto essere
suo figlio:
“Ma i tuoi genitori non
hanno mai tentato di capirti seriamente?”
Il ragazzo rispose di no
con un cenno della testa.
In realtà, i suoi
genitori un po’ ci avevano provato a comprendere quel ragazzo tanto
diverso da loro, dai loro tempi, dalla loro mentalità, ma era stato,
come diceva il grande Pierpaolo Pasolini in una sua metafora:
“Al pari di
quell’entomologo, che studia il suo insetto e tenta di conoscerlo,
con freddezza e quasi schifo, disgusto.”
Grande Pasolini, parole
terribili.
Il giovane Kevin continuò.
Uscendo
dalla casa, conobbi molte personalità e partecipai a spettacoli di
chiacchiere (Talk show), di gossip (notizie rosa) e a vari quiz a
premi, il cui ricavato era sempre a scopo benefico. Non vinsi mai
nulla in quei telequiz, perché sapevo poco di cultura generale e non
potei, quindi, fare beneficenza.
Mi
intervistarono su molti giornali, anche testate molto famose,
nonostante non avessi niente da affermare, da rivelare, né qualcosa
che potesse interessare gli altri.
Fu
in quei giorni che conobbi un attore americano più depresso di me.
Da più di trentacinque anni, l’artista interpretava il ruolo del
cattivo in una soap opera quotidiana, nonostante il suo carattere
fosse stato allegro e buonissimo. Era bellissimo e attraente, le sue
mascelle erano quadrate, che ricordavano un po’ Clark Kent,
Superman. Aveva cominciato come per gioco, in quel tempo lontano, e
non l’avevano più lasciato uscire a sviluppare e vivere respirando
la sua esistenza reale.
Era rimasto
intrappolato, come me, in un lavoro bello, sì, ma che non lo
lasciava altre uscite. Passava il suo tempo negli studios
di Los Angeles, dove tutti i santi giorni, compreso Natale, recitava
con gli altri attori una parte che non era la sua. Erano trascorse
diecimila cinquecento sei puntate.
Dopo molta prigionia, gli
autori avevano deciso di mandarlo in Italia per una breve vacanza, un
po’ per cercare di fargli passare il cattivo umore che lo avviliva
da molti anni, ma anche per fargli recitare uno spot pubblicitario,
proprio assieme a me. Si trattava, in quel caso, della pubblicità di
una famosissima bibita, da abbinare, secondo i registi che offrivano
i consigli per gli acquisti, all’abbonamento ad una nota compagnia
telefonica.
Si
svolgeva così: io avrei dovuto fingere, in quello spot, di
telefonare, felice, affermando che ogni chiamata costa meno di un
tronchetto di liquirizia, mentre il mio collega americano beveva di
gusto la bibita frizzante e ghiacciata. Poi, tutti e due assieme,
dovevamo abbracciarci, darci il cinque, menare un finto pugno come
rudi cow boy e, poi, ridere fino a scompisciarci. Non so se le
vendite fossero aumentate dopo la nostra interpretazione, ma io ci
guadagnai qualcosa.
Seppi che, la sera stessa,
dopo che ci eravamo salutati, prima di salire a bordo dell’aereo
che lo avrebbe dovuto riportare negli States,
stanco di quelle falsità, stanco di quella trappola, stanco di
quella esistenza falsa, si era tolto la vita.
Avvenne,
il suicidio, a Milano in una lussuosissima stanza d’albergo. Furono
costretti a farlo morire anche nella soap opera, cioè a far morire
il personaggio che il mio povero amico aveva interpretato, e quella
morte fu, di sicuro, la più reale.
Da quel giorno mi rifiutai non
solo di lavorarci, ma anche di guardarla, questa stramaledetta
televisione. Noi facciamo solo divertire gli altri e gli altri si
divertono e godono con le nostre disgrazie.
“Anche
la tua storia è molto triste, Kevin” osservò Roberto.
“Già
– continuò Ugo - chi lo direbbe che tutti i lustrini che si vedono
in tivù, tutte le luci e i sorrisi sulla bocca degli attori, possano
essere tanto falsi?”
In
realtà Ugo lo sapeva benissimo e in lui c’era una vena di
ipocrisia, ma lo disse lo stesso. Si appartò, poi, assieme ad Angelo
per fare il punto della situazione.
“Che
dici, Angelo? Ti pare che quel tipo possa essere tanto pericoloso da
riuscire ad ammazzare qualcuno?”
“Peggio,
Ugo, peggio. Per me questo è pericolosissimo e perciò dobbiamo
seguirlo attentamente. Bisogna vagliare ogni ipotesi. Cerchiamo di
valutare bene le sue parole e, soprattutto, il suo pessimo stato
d’animo. In quello stato di crisi, un individuo potrebbe commettere
qualsiasi sciocchezza.
Kevin,
sia per quanto aveva raccontato, sia per il suo modo un po’
stravagante di muoversi, di guardare gli altri, come se fosse preda
di qualche sostanza tossica, venne considerato dai due investigatori
improvvisati, ma non troppo ingenui, come il maggior sospettato.
Angelo, bisogna
capirlo, era dotato di un grande acume, oltre a conoscere bene il
castello, la vita e la psicologia degli uomini, aveva un sesto senso
che lo guidava direttamente a comprendere la realtà. Più che
parlare con Ugo delle sue indagini, preferiva tenersele tutte in
mente, ed elaborarle silenziosamente e ciò lo conduceva sempre alla
soluzione. Anche se, dobbiamo dirlo, il caso che stava seguendo
stavolta, si prospettava molto, ma molto controverso.
Per
attenuare un po’ la fatica degli organi digerenti, Ugo servì, alla
temperatura ideale, un buon sgroppino al limone in una caraffa e lo
versò nei calici. Un liquore digestivo e dolcissimo che rese gli
ospiti più allegri.
“Tu,
Gionni, che cosa ci racconti di bello?”
Il
giovane, dalla poca e rossastra barba, finì di sorseggiare la
gustosa bevanda, si soffiò il naso ed iniziò la sua narrazione,
mentre i rumori misteriosi si facevano sempre più cupi e più
vicini.
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