Il venditore di saggezza
il racconto di Pedro
o la nuova “belle epoque”
Nelle
miti giornate di Primavera, quando il sole tiepidamente scalda il
cuore, ma senza bruciare la pelle, il cielo solitamente si colora
d’un azzurro intenso, molto terso e luminoso, e regalando al
viandante una luce intensa, brillante, meravigliosa.
I turisti, in quel
periodo, accorrono a milioni. Negli anni buoni del turismo e della
pacchia, cioè fino a poco tempo fa, vendere chincaglierie ai
visitatori di Firenze era l’affare che rendeva, ai suoi
commercianti, i più bei utili e facili guadagni e le altre città
del Mondo non reggevano al confronto.
Bastava
solo aprirsi un proprio negozietto, e succedeva quel che avviene
quando si getta il grano ai colombi in piazza: tutti si
precipitavano, spingendosi e scalciando, per acquistare qualche
stupidissimo, pacchiano e inutile manufatto, souvenir o
cianfrusaglia.
Eh sì, erano
assai ricchi i mercanti di Firenze di allora, a cominciare dal
padrone dell’albergo in piazza della Signoria, fino all’ultimo
piccolissimo venditore di ricordini a san Lorenzo. Ognuno, nel suo
grande o nel suo piccolo, era soddisfatto di come andavano le cose.
Pareva fin troppo facile e bello.
Poi giunse la
crisi. Una recessione terribile, orrenda, che fece morire
(commercialmente, ma anche realmente), numerosi miei amici, mentre
molti altri importanti negozi luminosi, storici, dai grandi nomi,
dovettero abbassare le saracinesche, per sempre.
Fu allora
che io, Pedro Aragon, originario per metà della Spagna centrale e
metà dell’Italia meridionale, due lauree, una in Economia e
l’altra in Psicologia, dapprima ricco e famoso commerciante,
consigliere del Sindaco, mediatore culturale, scrittore di romanzi
storici, mi ritrovai, dopo mille vicissitudini, a gestire un piccolo
negozietto di vendita, proprio nel bel centro della città.
L’azienda precedente, che aveva dato lavoro a una ventina di
persone, io la dovetti chiudere quando le spese iniziarono a
superare gli incassi.
Per una
impresa costretta a chiedere soldi alle banche soltanto per poter
pagare le tasse, vuol dire che è arrivata la sua ora. O vuol dire
che, forse, qualcosa non funziona nello Stato, specie quando, le
aziende che falliscono, perché non riescono a onorare i balzelli
loro imposti, cominciano a diventare, giorno dopo giorno, troppo
numerose.
Quel nuovo
lavoro che intrapresi, devo dire, fu oltremodo divertente.
In mezzo
alla strada vendevo certi articoli ( libri antichi, velieri fatti a
mano, quadri d’autore , collane esotiche), che mi permettevano di
guadagnare bene, anche concludendo solo due o tre vendite al giorno
ai clienti di passaggio. Il resto della giornata (perché lì stavo
per molte e molte ore), lo passavo a chiacchierare con tutti quelli
che venivano a trovarmi.
Conoscendo la
mia disponibilità ad ascoltare gli altri e a dare buoni consigli
(che, però, non ero in grado di darmi da solo), molti accorrevano
sotto quella piccola tenda, piena di cose che seducevano,
proponendomi i loro problemi, i loro drammi, i loro ragionamenti, le
loro paure o i iloro incubi peggiori.
Tantissimi erano
i personaggi importanti, cosa di cui Firenze non ha avuto mai
carenza, che passavano di là. Il sindaco stesso, non mancava mai di
salutarmi e, se ero impegnato con un cliente, aspettava
pazientemente.
Il primario
dell’ospedale civile, mio vecchio e buon amico dai tempi degli
studi, si fermava a salutarmi e andavamo sempre a bere il caffè
assieme. Non riuscii mai ad offrirlo io. Un giorno passò di lì
addirittura il presidente del Consiglio dei Ministri Berlusconi con
la sua scorta, mi salutò cordialmente e mi interrogò su un suo
dubbio: cioè chiedendomi se era il caso di dimettersi dal governo e
lasciare il posto ad un altro politico, magari ad un giovane
rampante.
Io gli risposi
che la vita è troppo bella e troppo corta per essere sprecata.
Con
nostalgia, visto che ormai non c’è più, ricordo le visite
frequenti dell mio caro e vecchio amico Aldo, in quel tempo assessore
al Comune, esempio di grande genialità e talento artistico,
importante esponente di un partito che allora era considerato, con
disprezzo ed esagerazione, il partito dei ladri.
Quel mio
amico, tormentato da ogni tipo di faccendieri che gli chiedevano in
continuazione favori politici e che lui, dall’alto incarico che
ricopriva, avrebbe potuto concedere, si inventò un geniale sistema
per soddisfarli.
Egli era
stato, in gioventù, un discreto pittore ed aveva collezionato
qualche decina di dipinti su tela che devo dire, in verità, qualcosa
di interessante contenevano, anche se non si può dire che potessero
essere dei veri e propri capolavori.
Poi
aveva smesso visto che il successo pittorico tardava a venire: in
poche parole, non ne aveva piazzato neanche uno, perciò smise di
dipingere e si diede alla politica.
Il sistema da
lui congegnato era questo: a chi gli chiedeva favori, autorizzazioni
speciali, appalti, egli offriva di “comperare” uno dei suoi
quadri: avrebbe, così, ottenuto una bella somma di denaro tramite un
atto legale e dimostrabile, cioè la cessione del quadro. Nessuno
avrebbe mai osato pensare che, quella somma di denaro, potesse
definirsi : “tangente.”
Le
sue vendite, col tempo, aumentarono considerevolmente e Aldo ottenne,
così, due piccioni con una fava: poté continuare, nel tempo, a
intascare tangenti senza che nessuno mai avesse nemmeno l’ardire di
sospettarlo, tanto meno la guardia di finanza cui, ad ogni controllo,
poteva esibire fatture di vendita delle sue opere d’arte. Per
secondo vide le quotazioni dei suoi quadri salire alle stelle, visto
che, nel Mondo dell’arte, un’ opera è misurata anche dal valore
di mercato e un artista è considerato non tanto per le sue qualità,
ma per quanti dipinti, e a che prezzi, riesce a piazzare. E siccome
vendeva più di ogni altro artista in Italia, per molto tempo fu
considerato uno dei massimi maestri del nostro paese dalle varie
accademie internazionali.
Sì, caro
Aldo, sei stato proprio un esempio di genialità e di spirito
artistico italiano che tutto il Mondo ci invidia.
Nelle lunghe
giornate passate in quella bancarella, iniziai a pensare ad un libro,
come questo, che poi scrissi. Ma dopo un po’, capii anch’io che
la vita era troppo corta, e lasciai perdere tutto, per mettermi a
fare altre cose.
Certo
è che il Mondo, adesso, non è come prima della crisi: allora in
giro per il globo ci si andava solo per vivere lussuosamente, li
ricordo bene, come fosse solo ieri, quei tempi magnifici …
…
Eh, sì, come erano belli
quegli anni! Correvano, se non ricordo male, gli anni ottanta e
novanta dello scorso secolo anzi, scusate, dello scorso millennio.
Pensate che, quando arrivavi in un bel posto di villeggiatura, in una
grande capitale europea o mondiale, in una spiaggia esotica, eri
sicuro di incontrare, in quella lussuosa vacanza, potevi
scommetterci, un tuo collega fiorentino. A volte si trattava, magari,
dell’immancabile impiegato o del conducente di un taxi, o il tizio
che gestiva un micro banchetto che vendeva frutta e bibite al
mercato, specie ai turisti, e possedeva, perciò, più grano di un
Signor notaio.
Iniziai
a viaggiare da solo ed ero ancora un bambino, avevo poco più di
quattordici anni, cioè quando i miei mi regalarono un motorino di
50 cc. Era giallo canarino, con cromature scintillanti, produceva
rumori extraterrestri, perché era un “due tempi” a scoppio e si
chiamava moto Beta.
Certo, avevo
già cominciato a girare con la bicicletta tanto tempo prima, ma con
un motore sotto il sedere diventai inarrestabile. La cosa che mi
divertiva di più (ed era la più conveniente) era di andare a
“trovare” i parenti in giro per il Mondo, e ne avevo tanti.
Presso di loro mangiavo, dormivo, mi divertivo, e i miei zii, i miei
cugini, e gli altri che visitavo, mi offrivano vitto, alloggio e
tante coccole gratis. Col tempo cambiai varie motociclette - tra cui
la magnifica Honda CB750, tutta rossa - tanto che, ancora oggi, non
ricordo quante ne possedetti. Ricordo una mitica Guzzi 850T e di
quando attraversai l’Europa. Tra Austria, Svizzera, Germania,
Svezia arrivai in Norvegia e in una fantastica strada tra i fiordi,
proseguii fino al circolo polare artico.
Ma,
quello, fu il mio viaggio di nozze. Con Stella. Io e la mia povera
moglie, che Dio l’abbia in gloria, perché ora è un angelo,
possiamo dire di aver visto, più di una volta, tutti gli splendori,
le bellezze e le bruttezze, le stravaganze e le schifezze del Mondo.
Le città d’arte, le montagne più inaccessibili, i mari più blu e
le isole più remote, i popoli più strani e, certamente, le sette
meraviglie del pianeta.
Mentre
Pedro sta parlando, un rumore fortissimo, il tonfo di qualcosa che
cade a terra, giunge da sopra il soffitto della stanza. Pedro si
arresta, pensa un po’ su, stupito, poi continua, facendo finta di
nulla, a narrare la sua curiosa vicenda personale.
A
proposito di isole remote … ricordo quel viaggio che io e mia
moglie, allora eravamo proprio ricchissimi, progettammo e, poi,
realizzammo a Patonga, l’isola più lontana del Pacifico, quella in
cui il Capodanno arriva un anno dopo, tanto sconosciuta che fu
scoperta solo qualche tempo fa, mediante le nuove tecnologie moderne,
l’invenzione e la messa a punto dei satelliti orbitali e un po’di
fortuna. Ne parlò anche Piero Angela in un suo servizio televisivo
e, per l’occasione, ci spedì il figlio a raccontarcela.
Il semplice
viaggio, ormai, era diventato noioso e banale per noi “turisti
evoluti”, viziati e, a volte, annoiati. C’era sempre il rischio
di incontrare il tuo vicino di casa, era d’obbligo, perciò,
inventarsi sempre qualcosa di nuovo, di originale che avrebbe dovuto
stupire gli altri, amici o no che fossero. La preparammo molto,
quella spedizione decidendo, insieme, che avremmo dovuto scoprire un
luogo per ritrovare noi stessi ed il nostro rapporto matrimoniale,
che stava andando, inesorabilmente, a rotoli.
Quella volta,
l’aeroplano viaggiò due giorni senza fermarsi. Non ero mai stato
tanto tempo in volo: ci portarono da mangiare quindici volte e
gustammo almeno ventisei aperitivi, tra cui diversi martini.
All’arrivo, pensai di dover scendere sulla Luna.
In quella
trasvolata, avevamo attraversato direttamente l’emisfero boreale,
il meridiano di Greenwich, l’equatore, il tropico del Capricorno e
la linea di cambiamento data, senza che mai quell’enorme
apparecchio volante avesse dimostrato intenzione di fermarsi.
Atterrammo in Nuova Zelanda, praticamente dalla parte opposta
dell’Italia se si scavasse un buco nel pianeta. Ma quello non era
altro che il campo base. Un altro aereo molto più piccolo, nel
pomeriggio, ci portò nell’isola di Rarotonga. Ci fermammo in quel
luogo per la notte. Dormimmo in un piccolo alberghetto con l’aria
condizionata e il frigo bar. Il giorno dopo, un altro mezzo
piccolissimo, che volava solo per me, mia moglie ed il comandante, ci
condusse all’ultima base civilizzata, l’isoletta di Tuku-Hiva,
la cui pista di atterraggio era lunga, la misurammo, come il cortile
di casa nostra.
Solo che
il nostro cortile finiva in un fossato, mentre quella pista finiva in
una scogliera: sotto c’era il baratro ed un mare infinito. Fu da lì
che, dopo due giorni di attesa, mangiando ananas e sorseggiando
qualche bevanda dolcissima, arrivò a prenderci un bastimento che
faceva la spola con l’altra isola una volta alla settimana. Ci
imbarcammo nella piccola motonave che trasportava animali vivi e
banane, alla volta di Manioki.
Manioki
è l’ultima isola del pianeta, da quel punto di terra emersa inizia
il resto dell’Universo. Comincia un azzurro oceano illimitato.
E, proprio da questa isola,
abitata da pochissimi e strani individui, partiva una imbarcazione
con propulsione a remi: cioè la forza di due indigeni - le cui
caratteristiche somatiche ingannerebbero ogni studioso di scienze
etniche antropologiche - i quali, in sole dodici ore di voga, ci
avrebbero portato alla nostra mèta finale, all’obbiettivo del
nostro lunghissimo viaggio: la stupenda, minuscola e preziosa isola
di Patonga.
I due
autoctoni, che non parlavano la nostra lingua, né altre lingue
conosciute dell’emisfero occidentale, ci fecero gentilmente
sbarcare su quel minuscolo fazzoletto di sabbia bianca in mezzo
all’Oceano, ci osservarono con uno strano sguardo, ci salutarono e,
ridacchiando, ci lasciarono tutti soli (sarebbero tornati soltanto
due giorni dopo a riprenderci), pronunciando soltanto due parole
inquietanti: “Taliani, ciao amici taliani”. Lo dissero mentre
chinavano il capo e continuavano a ridacchiare. Chissà, forse ci
volevano prendere in giro o quello era il loro modo di essere
cortesi? Con noi tenemmo solo un piccolo sacchetto in materiale
biodegradabile (in quell’isola non era ammessa la plastica), con
dentro il minimo di cibo e, in più, acqua per sopravvivere. Per due
lunghi giorni, non avremmo dovuto più vedere le sembianze di un
altro essere umano.
Ma
l’imponderabile accade sempre quando meno te lo aspetti. Il giorno
dopo, infatti, che già eravamo presi dal fascino di quel posto
incredibile e le nostre meditazioni era giunte a livelli impensabili
prima, accadde qualcosa di strano. Stavamo riposando le nostre
membra, quasi addormentati dopo aver praticato un meraviglioso
Tantra, io e mia moglie, che ci aveva regalato piaceri sessuali e
gioie difficili da spiegare ai comuni mortali. Il godimento che può
regalare, ad un essere umano, questa pratica erotico- religiosa, è
qualcosa di sconvolgente e di appagante in tutti i sensi.
Per
arrivare all’apice del benessere fisico e spirituale, però,
occorrono molte cose: un grande affiatamento tra i due partner, cosa
che io e mia moglie stavamo perdendo nella caotica società moderna.
Fu proprio quel motivo che ci aveva spinti a rifugiarci in un’isola
sperduta in mezzo all’oceano, perché da soli, io e lei, in mezzo
all’infinito, avremmo potuto ristabilire il nostro equilibrio
cosmico, nonché il nostro rapporto amoroso sessuale e ritrovare la
pace con noi stessi. E ciò che provammo in quelle posizioni, in quei
sospiri, non riuscirò mai a renderlo esplicito con le mie semplici e
banali parole.
Ci
tenevamo ancora abbracciati, molto stretti sotto la capanna di foglie
di palma, unica costruzione dell’isola ed unico materiale ammesso
in quell’ultimo lembo di terra incontaminata, quando un sinistro
ed agghiacciante mugolio arrivò da dietro di noi. In quel mentre il
sole si oscurò. Io e mia moglie ci guardammo. Lei pensò:
“Può
essere solo la rabbia del dio Nettuno, questo orribile latrato”.
Pensammo ad uno tsunami,
considerando che le nostre vite dovessero finire là.
Si
sbagliava, ci sbagliavamo entrambi: ruotammo la testa di cento
ottanta gradi e vedemmo stagliarsi davanti a noi l’immensa siluette
della nave “Costa Strafavolosa”, ultimissima nata tra le grandi
motonavi da crociera, centoquattordicimila cinquecento tonnellate di
stazza, lunga trecento e diciotto metri, alta più della torre
campanaria, diciassette ponti e cinquemila i passeggeri.
D’un
tratto tornammo alla realtà dei tempi moderni. L’enorme mostro
marino (e pensare che l’abbiamo costruito noi italiani, nei nostri
cantieri di Marghera e Monfalcone), attraccò a venti metri dalla
riva, una spiaggia bianca che non ne misurava molti di più, vomitò
circa tremila persone urlanti e sbraitanti che si tuffarono nelle
limpide acque sottostanti. I duemila rimasti a bordo salutavano
rumorosamente quelli che erano in mare e, intanto, mangiavano snack e
bevevano coca, lanciando di sotto le cartine e le lattine che li
contenevano.
Lo spasso
pacchiano durò poche ore poi, sempre latrando e mugolando , l’enorme
nave ripartì, lasciando dietro di sé un silenzio irreale ed un
pantano galleggiante, formato dai resti di cibo, orina, melma,
escrementi, plastica, nylon, contenitori di succhi di frutta, carte,
preservativi usati, marciume.
Ne
fummo stravolti e, più di noi, ne fu stravolto l’ecosistema.
Quando tornarono
gli indigeni in canoa a riprenderci, dopo aver visto il disastro,
urlarono sbigottiti ed arrabbiati, rigorosamente nella loro lingua:
“Taliani!!!!
Ma che cassio avete combinato?”
Questi erano i bei tempi.
Poi
divenni stanco di lavorare e viaggiare, abbandonato da mia moglie e
dalla sua anima, depresso, la crisi economica che strangolava,
cominciai ad invecchiare. Mi prese una orribile depressione. Non
riuscivo ad andare con altre donne e, in un momento in cui incontrai
una ragazza che ci stava, non feci nulla. Avevo provato a prendere
una medicina che risolve tutti i guai, ma con me aveva un ben strano
effetto: siccome il danno era solo psicosomatico, mi produceva tutti
gli effetti collaterali che c’erano scritti sul foglietto
illustrativo, il cosiddetto “bugiardino”, cioè mal di testa,
secchezza delle labbra, dolori ai reni, la vista che si annebbiava e
altre trenta sofferenze inenarrabili, unico effetto che non sortiva
era quello di far alzare il mio …
A
Pedro non servì terminare la frase perché tutti avevano compreso.
E
poi cari amici, è solo questione di testa. Non servono le medicine a
curare la psiche.
Allora,
dopo molto tormento, decisi di dedicarmi alla ricerca storica ed alla
lettura. Abbandonai tutto, anche il banco che mi dava un reddito e mi
ritirai.
In
una grande biblioteca nel centro storico della mia città,
iniziarono i miei studi e la mia apnea letteraria. Produssi molti
scritti e pubblicai un volume. Ma non smisi di studiare.
Fu
ad un certo momento, che venni a conoscenza della leggenda che
riguardava questo castello. Un gruppo di persone, nel pomeriggio di
qualche giorno fa, mi presentò alcuni strani ed enigmatici scritti,
dicendo che avevano letto il mio libro, e perciò li volevano
affidare alla mia conoscenza. La prima cosa che notai, è che, quei
signori, portavano tutti gli occhiali da sole, cosa ch’io giudicai
eccentrica, specie se si sta all’interno di una vecchia e oscura
biblioteca.
“Di
che leggenda si tratta?” Gli chiese Angelo.
“Quella
del fantasma.” Rispose
“Ma
qui non esiste alcun fantasma.”
“Sì,
mi sono informato fin troppo bene, ho studiato quegli antichi
documenti che mi sono stati forniti, e che sono stati rinvenuti in
maniera misteriosa e vi racconterò tutto di lui (anzi, di lei,
perché del fantasma di una donna si tratta).”
Il
racconto proseguì, anche se Angelo, a quel punto, dava segni
visibili ed evidenti di nervosismo.
Correva
l’anno 1797, le truppe vittoriose del Generale francese Napoleone
Bonaparte, deciso ad esportare la rivoluzione francese nel mondo come
noi, adesso, esportiamo la Democrazia, correvano in lungo e in largo
la penisola italica, conquistando, occupando, depredando e, nel
contempo, arruolando nelle loro fila tanti giovani ragazzi che
vivevano in questi posti. La gloriosa e millenaria Repubblica
Serenissima di Venezia, era caduta proprio in quei giorni e proprio
grazie al Bonaparte, suo acerrimo nemico, che considerava Venezia e
le sue istituzioni un retaggio del passato.
Fu
in questo contesto, che si svolse la tristissima vicenda della
contessina Ignazia, figlia di Palmira e Aristofane, la quale, essendo
imparentata coi conti proprietari del castello, lo stava abitando
assieme alla sua famiglia.
I
rumori provenienti da sopra, che tanto hanno disturbato per tutto il
racconto, all’inizio di questa parte della narrazione, sembrarono
accentuarsi. La sensazione era che qualcuno camminasse nervosamente
in soffitta, e sarebbe stata una camminata realmente strana e
convulsa. Pedro, dimostrandosi un ottimo oratore, continuò a narrare
senza battere ciglio, per non spaventare i presenti e non perdere il
filo del discorso.
Tali
conti, erano un po’ amici della defunta Repubblica del leone alato
e un pochino, però, le erano rivali. I dogi veneziani erano soliti
imperare su tutto e a lasciare poco spazio e poco potere ai nobili
delle zone circostanti, tutto sommato, però, avevano convissuto
bene. Ma, con l’arrivo dei francesi, la vita degli aristocratici
divenne un vero e proprio incubo. Quando giunse al castello una
delegazione di soldati napoleonici a prenderne possesso, Il conte non
poté contrapporre alcuna resistenza, come d’altronde nessuna
resistenza contrappose Venezia al Bonaparte, troppo forte, di una
potenza inaudita. L’odio verso i francesi era grande, ma la giovane
Ignazia, che poco si intendeva di guerre e di politica, si innamorò
e perse la testa per un giovane ufficiale napoleonico che, subito,
condivise con lei il bellissimo, meraviglioso sentimento.
Era
difficile nascondere quell’amore con un soldato del reggimento che
occupava, militarmente, il castello. Questa situazione durò poco
tempo, ma la contessina fece in tempo a rimanere incinta. La
relazione non sconfinferava molto né ai familiari di Ignazia, né ai
comandanti francesi. Il giovanotto fu presto rispedito nella sua casa
oltralpe, a Marsiglia e Ignazia, che aveva manifestato e minacciato
più volte la volontà di scappare, venne rinchiusa nella rocca,
proprio quella lì in alto che possiamo ammirare dal finestrone (il
ragazzo la indicò col dito agli ospiti) . Siccome nessuno sapeva
della sua dolce (e tragica) attesa, non le venne dato alcun aiuto e,
quando fu il momento di partorire lo fece da sola. Ma il parto andò
male: nel momento in cui intervenne la servente (che le stava
portando qualcosa da mangiare e la trovò agonizzante), era già
troppo tardi. La cameriera vide che, mentre il piccolino non pareva
respirare e non dava segni di vita, la donna era, anche lei, quasi
giunta alla fine delle sue sofferenze. Questa le morì tra le
braccia, maledicendo, con rabbia, tutta la sua famiglia e tutte le
coppie di sposi che avrebbero potuto essere felici, assieme, in quel
castello, affinché non trovassero mai pace né felicità.
A
questo punto del racconto venne interrotto bruscamente da Angelo, il
quale dimostrava di non farcela più ad ascoltarlo, e che smentì
questa leggenda definendola assurda e priva di ogni fondamento.
“Non
ho mai sentito una storia del genere. Che razza di documenti hai
consultato?” Disse Angelo, aggiungendo altri improperi contro
Pedro, che non batté ciglio e continuò la sua narrazione dei fatti,
tranquillamente.
Di
più non sappiamo, però la vita delle famiglie, da allora, divenne
più difficile a san Salvatore e molte unioni di coppie che abitavano
questo castello, rischiarono di sfaldarsi. La presenza di un
fantasma, probabilmente lo spirito della disperata Ignazia, si è più
volte rivelata nelle stanze di questo maniero , subito dopo tali
apparizioni seguivano lutti, divorzi o il manifestarsi di una
follia misteriosa, che andava a condannare almeno uno dei due
coniugi, dapprima felici. Si tratta di un male sconosciuto che molti
chiamano depressione.
Angelo
non sopportò più questo modo di raccontare le bugie: “
Voglio sentir parlare delle vostre vite, delle vostre storie, non me
ne frega niente delle fantomatiche e incredibili leggende.” Poi si
diresse, molto triste e adirato, verso la cucina.
Dopo
un po’ ne uscì Ugo e offrì ai presenti del salame di casata,
soppressa con o senza aglio, a preferenza degli ospiti, carciofini in
olio di oliva e del pane tostato. Guardò verso la dispensa per
sincerarsi se ci fosse rimasto ancora del vino bianco o se fosse
d’uopo andare a rifornirsene in cantina. Vi trovo’ anche della
carne di cinghiale speziata.
Angelo,
mogio, tornò tra il gruppo riunito, e comodamente sdraiato sui bei
divani di pelle, e sentenziò con voce possente:
“Kevin,
adesso tocca a te, cerca di parlare solo della tua vita e non
raccontarci fregnacce.”
Kevin,
timidamente, iniziò il suo resoconto.