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QUANDO RESTAMMO BLOCCATI IN LAGUNA
Di
Pier-Angelo Piccolo
Capitolo
I
Verso Venezia
Un
cielo così limpido, Giovanni, non ricordava di averlo mai notato da
queste parti.
Il
freddo era pungente per colpa della Bora, il vento che dalle steppe
russe porta qui da noi il gelo di quei popoli lontani, facendoci
assaporare un po’ della loro rigida esistenza.
Le
vette alpine, tanto distanti dalla pianura padana, sembrava si
potessero toccare con le dita, quel giorno, mentre si riusciva a
scorgere in lontananza piccolissime abitazioni di montanari.
La strada che da Milano - dove
andava spesso in cerca di comprare qualcosa o vendere
qualcos'altro…insomma a seguire i suoi poveri affari - portava a
Venezia dove era nato, seppur trafficata da molte anime in pena e da
diversi carretti stracarichi, rappresentava ancora un viaggio assai
difficile da compiersi; era un po’ come attraversare quelle foreste
pluviali del continente africano o le terre misteriose, di cui si
parlava molto in quei giorni, al di là dell’Atlantico.
La lunga via si snodava tra
boschi scuri e sinistre paludi, infestata da animali insidiosi,
luridi insetti e uccelli antropofagi (così si raccontava); e poi
ladri astuti, banditi pericolosissimi, truppe sbandate e,
ultimamente, dallo strano esercito dell’Imperatore di Francia, dove
i militari, anziché parlare francese come ci si sarebbe aspettato,
parlavano spesso in piemontese e in milanese, nella lingua degli
emiliani o dei genovesi. C’era anche chi parlava come i personaggi
del Goldoni, i rusteghi o la colombina.
Dei
grandi cambiamenti che stavano avvenendo nella politica dell’Europa,
Giovanni non ci capiva niente: come tutto il popolino egli cercava
solamente di sopravvivere con i suoi commerci ed il suo lavoro.
Da
quando era partito da Milano erano già passati molti giorni; si era
fermato qua e là incontrando mercati, sagre o fiere.
Si
trovava all'incirca a metà del suo cammino quando sentì un rumore
dietro di sé mentre, coi piedi gonfi, trascinava il suo carrettino:
era il frastuono della diligenza, quella che, in sole trentasei ore,
copriva l’intera distanza tra le due città.
Bellissima,
quasi imperiale, piena di viaggiatori che schiamazzavano e trainata
da cavalli giovani e briosi: un servizio di linea molto comodo,
funzionava sempre con regolarità e toccava le città più importanti
come Brescia, Verona, Padova. Egli sognava di salirci, su quella
carrozza, da tanto tempo.
Un
giorno si era informato del costo ed era venuto a sapere che il lusso
gli sarebbe costato la bellezza di cinquantotto lire e ottanta
centesimi, cosa che lui non avrebbe potuto permettersi, anche perché
gli affari non andavano bene come un tempo.
Oltretutto
avrebbe dovuto viaggiare nel “cabriolet”, cioè sul tetto aperto,
perché i posti coperti – riservati a dame e nobiluomini -
costavano molto di più.
Quando
il sonno divenne una tortura, decise di fermarsi: passò la notte
nascosto in un boschetto vicino all'argine del fiume quando già
all'orizzonte si intravedevano le luci fioche di una città;
probabilmente Padova. Prima di dormire si fece il segno della croce:
addormentarsi da quelle parti senza altri compagni che vigilassero il
sonno era un rischio molto, molto grande.
Nel
buio passarono i cavalli coi soldati che andavano verso est e un gran
numero di diligenze. Non se ne accorse neppure, poiché stava
dormendo profondamente, ma dai movimenti inusuali e frenetici si
sarebbe potuto intuire che qualcosa di grosso , verso Venezia, stava
di certo succedendo in quella strana notte dell’anno
milleottocentotredici…
Il
primo sole del mattino, lo svegliò in mezzo ad un cinguettio che
proveniva da un branco di rapaci, o uccelli da rapina, misto allo
stridio dei gabbiani che, dalla foce, avevano risalito qualche corso
d’acqua in cerca di cibo. Il mare era ancora lontano e, pensò
Giovanni con una certa inquietudine, da quelle probabilmente non si
trovava qualcosa da mangiare neanche per loro.
Si
stropicciò gli occhi e proseguì sulla sua strada – ad Est, dove
sorge il sole – che porta alla laguna.
Un
insolita quantità di persone stava giungendo dalla parte opposta e
difficilmente si poteva capire dove volessero arrivare. Si trattava
di donne, uomini, vecchi e un gran numero di bambini. Nella sua
stessa direzione, invece, andavano soltanto militari armati a
cavallo, a piedi, nelle carrozze.
Capì
che qualcosa di grave era successo proprio nella sua città nell’
udire, dietro di lui, due militari di un esercito straniero che non
conosceva, ma che parlavano nel dialetto delle valli bergamasche,
lamentarsi che non sapevano nuotare e che la sola vicinanza del mare
a loro, uomini di montagna, metteva addosso una gran paura.
“State
andando a Venezia?” gli chiese voltandosi.
“Dovremmo
andarci, sì. Così ci hanno comandato - gli risposero - ma forse, da
quel che abbiamo sentito raccontare, non ci arriveremo mai.”
Vide
che i loro volti erano tesi, come se si stessero chiedendo che cosa
ci stavano a fare in quella situazione.
Giovanni allungò il passo
tanto che le ruote del suo carretto iniziarono a lamentarsi
cigolando. Dopo aver passato Padova tentò di imbarcarsi sul
burchiello o su qualche altro natante che raggiungesse Venezia, ma
non trovò alcuna imbarcazione, né addetti al trasporto fluviale.
Allora percorse la strada che
costeggia il fiume, passando attraverso palazzi e ville da sogno,
forse le più belle del mondo, dove solitamente si trastullavano in
ozii letterari, oppure orgiastici, ricconi e nobili veneti.
Giunse
a Fusina, in vista di Venezia, ma alcuni militari, stavolta
austriaci, lo fermarono prima.
Gli
chiesero in tedesco, una lingua a lui poco conosciuta, di mostrargli
i documenti.
“Devo
andare a casa mia” rispose, ma i militari continuavano a
trattenerlo. Da un battello attraccato sul fiume lì vicino, scese un
altro militare. Stavolta si trattava di un ufficiale inglese.
“Ma
da dove caspita arriva tutta sta gente mata?” Si chiese tra sé.
L’ufficiale si fece
comprendere benissimo da Giovanni, forse perché parlava italiano o
forse perché Giovanni capiva bene l’inglese, ma egli era così
confuso che non si accorse nemmeno in che lingua stessero
conversando.
“Venezia
è bloccata da qualche giorno – affermò serio l’ufficiale – I
am sorry"
Giovanni,
costernato, si girò verso la linea del mare e guardò con malinconia
gli splendidi campanili affioranti della sua strana città
sull'acqua.
“I
venexiani bloccati? Ma come?”
“No
possibile entrare, no enter, mister.”
Si
mise quasi a piangere pensando a suo padre Gregorio, ormai
vecchissimo, che di certo lo stava aspettando per poter finalmente
mangiare qualcosa, a sua madre sempre ubriaca e a suo fratello Pompeo
che, invece di lavorare come sarebbe stato giusto fare, perdeva tempo
a scrivere qualcosa su di un giornale che pochissimi sapevano
leggere.
Così
Giovanni si accorse che, in una fredda giornata di fine novembre
Venezia era, d’un tratto, diventata irraggiungibile: lo era da
qualche giorno e per un qualche evento così misterioso che nessuno,
né i militari di guardia né le persone assiepate lungo la riva che
da Fusina guarda alla città, sapeva darsi una risposta. Correvano
voci disparate: qualcuno parlava di una pestilenza che aveva invaso
le isole portata dai topi delle navi, qualcun altro accennava ad una
rivolta, altre voci favoleggiavano scontri tra due imperi…i cui
eserciti si stavano fronteggiando proprio lì.
Per
saperlo però, bisogna proprio entrare in città, meglio se qualche
giorno innanzi.
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Giovanni
andò a riposarsi in una vecchia casa matta che poco prima i militari
avevano abbandonato, non si capiva se erano stati gli inglesi, i
francesi, gli austriaci o chi altri. Vide un vetro rotto da cui
arrivavano, a saperli guardare, dei segnali luminosi. Ci mise il naso
vicino e vide formarsi delle figure. Era, questa, una capacità che
egli possedeva in comune con suo fratello Pompeo, ma non sapevano
come l’avevano guadagnata, se di guadagno si può parlare. Comunque
la conserveranno per tutta la vita.
Gli
apparvero figure provenienti dal futuro: rivide la strada ch'egli
aveva appena percorso, faticosamente e in più giorni, trasformarsi
in una strada dritta dritta, col pavimento liscio e dal colore quasi
nero. Sopra vi correvano delle vetture coloratissime, ma senza
cavalli, che andavamo a velocità incredibile.
“Correndo
così – pensò il giovane – possono arrivare da Milano a Venezia
in poche ore”.
Immaginò,
cedendo al sonno, che non avrebbe mai più rivisto la sua città, suo
padre né, tanto meno sua madre già malandata tanto e tanto tempo
prima. In parte aveva ragione.
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