venerdì 24 aprile 2020

" Venezia in Catene" Capitolo quarto


CAPITOLO iv

LAGUNA INCATENATA



A i primi giorni di Ottobre, l'ospedale dei santi Giovanni e Paolo, il più grande della città, contava all'incirca settecento ammalati.
Ma, da allora, ne erano continuati ad arrivare tanti, sempre di più, e si trattava specialmente militari feriti, squartati, moribondi.
Anche se nessuno lo voleva ammettere, tanto meno i giornali, l'esercito di Napoleone, in giro per l'Europa, era in piena disfatta.
Pompeo lavorava alla tipografia del "Giornale dipartimentale Adriatico", unico foglio permesso dal governo francese, che aveva precedentemente abolito tutti gli altri giornali (tramite il decreto vicereale del 27 novembre 1811), permettendo solo la stampa di un giornale unico per ogni dipartimento (tutta Italia era stata divisa, dai francesi, in dipartimenti), e quello dell' "Adriatico", che dava il nome al giornale, era il dipartimento cui faceva capo Venezia.
Il primo numero di quel giornale era uscito il 17 marzo del 1812 ed era il risultato della fusione coatta di due precedenti fogli, il "Quotidiano veneto" di Antonio Caminer, e "Notizie dal mondo" di Antonio Graziosi; entrambi i giornali contavano cinquecento abbonati.
Precedentemente usciva, anche, il Nuovo postiglione, di proprietà dell'abate Pietro Fracasso, che dovette chiudere definitivamente: contava solo duecentottanta abbonati.
Un abbonamento annuale costava diciotto lire. Dopo tutti questi cambiamenti, però, il numero di lettori non ebbe alcun calo.
Pompeo, che aveva buoni studi e sapeva scrivere, continuava ancora, ogni tanto, a preparare degli articoli che però, per prudenza del direttore nei confronti dell'autorità costituita, non vennero mai pubblicati.
Ultimamente, perciò, abbandonato suo malgrado il mestiere di giornalista, egli lavorava in tipografia, ma le occasioni di avere informazioni di prima mano non gli vennero mai a mancare.
La sua “specialità” erano i dati statistici: ogni giorno calcolava e pubblicava in un angolo del giornale, e lo farà per molto, i numeri dei morti a Venezia e di quelli che nascevano

Il giorno 14 di ottobre, il numero dei ricoverati in ospedale era salito a più di duemila persone.
Il governatore aveva fatto affiggere dei bandi in cui si chiedeva alla popolazione di collaborare e di fornire "sfilacci", cioè bende, pezze per i feriti.
Comandante della città era, a quel tempo, il terribile generale Seras, che molti veneziani avrebbero lietamente voluto veder galleggiare pel canale, assieme alle salme dei topi di fogna.
Mentre alcune barche, piene di militari dell'esercito napoleonico feriti e morenti, continuavano a svuotare il loro triste carico davanti al molo dell'ospedale, Pompeo si fermò vicino ad un gruppo di individui che stava discutendo, animatamente, della situazione:
"Arrivano da tutte le parti del Veneto, hanno squarci nel corpo, ferite mai viste prima"
"Eh sì, le armi che si fabbricano sono sempre più potenti."
"Ogni giorno sperimentano qualche nuova diavoleria."
"E' vero, ora gettano le bombe dall'alto degli aerostati direttamente sopra le case dove la gente sta mangiando o dormendo."
"Hanno inventato un cannone che spara palle grandi come la cupola della basilica."
"EEEHH".
"Tu le spari più grosse ancora."
Sembravano più divertiti che preoccupati, i veneziani.
Pompeo, allora, non poté non intervenire.
"Ormai l'esercito è in disfatta, i campi del Veneto e del Friuli sono pieni di soldati morti. Buoni soltanto per concimare il terreno."
"E per fare il vino buono."
Disse qualcuno, ridendo.
"Ma cossa ridete, cretini. Lì in mezzo ghe xé anche i nostri" affermò.
Ciò zittì i chiacchieroni.
Tutti si fecero più seri.

El gà ragion, caspita” Disse uno di loro.
Un giovane che, fino ad allora, era rimasto zitto ad ascoltare quelle panzane, intervenne:
Mio cugino – disse il giovane - mi ha spedito una lettera dalla Russia, datata novembre 1812. Quasi un anno fa... è arrivata l'altro giorno... un anno di tempo ci è voluto."
"E cossa el diseva?"
"Robe tremende, teribili: parlava di gelo, un oceano di neve, morti congelati e diavoli cosacchi, sui loro cavalli d'inferno, che torturavano i morenti."
"E' tornato?"
"Ancora no."
Gli uomini si guardarono tra di loro poi, comprendendo dagli altri sguardi che tutti pensavano, ormai, che quel ragazzo non sarebbe tornato più, cambiarono discorso.
Anche la Russia pretendeva di conquistare, quel piccolo còrso”, pensò tra sé Pompeo.
Napoleone, credendosi invincibile, era partito nel giugno del 1812 alla conquista di quegli immensi territori che chissà, nella sua mente, cosa avrebbero potuto fruttare.
A giugno, di solito, nelle regioni boreali è ancora caldo, ma per avvicinarsi a Mosca bisogna passare per Minsk, Solensk e poi ci vogliono mesi... luglio, agosto e poi settembre. E lì, nella steppa, faceva già freddo.
Ottobre, poi, non è più bella stagione in territori quasi sub polari. La pioggia aveva infangato le strade. I gloriosi cannoni napoleonici si erano miseramente impantanati nella melma.
Una volta arrivati a Mosca, i conquistatori non avevano trovato nessuno, ma proprio nessuno: solo case abbandonate, compreso il palazzo del governo.
Poi, a causa di mani misteriose, la città era iniziata a bruciare. A Napoleone e ai suoi legionari, avidi, ormai, solo di bottino, non era rimasto in tasca che l'inverno russo.
Fu così che, visto che non restava altro da fare, i francesi si decisero di ritornare, lentamente, verso casa. Ma una coltre di neve aveva ricoperto la strada del ritorno.
E lì, sotto un cielo livido, era iniziata la mattanza.
Nonostante fossero passati molti mesi da quella disfatta, da quel massacro di giovani, tra cui molti italiani e veneziani, i giornali non riportavano, al proposito, quasi niente. Quei fogli favorevoli al regime e osannanti il dittatore non parlavano che di "sconfitte temporanee" e di "inevitabili riscosse", ma i giochi, ormai erano compiuti, lo diceva la presenza dei militari feriti ed il loro quotidiano aumentare.
Nel Giornale per cui lavorava Pompeo pareva che il tempo si fosse fermato all'apogeo di Napoleone, proprio ai tempi del suo massimo splendore.

Ma la realtà era ben diversa:
L’avvocato Soriani, persona stimata in città, ricevette un giorno una lettera terribile: gliel' aveva inviata un suo nipote ventenne, un giovane idealista che aveva seguito Napoleone, come tanti giovani europei, perchè credeva che le idee di libertà e di democrazia si potessero esportare con la rivoluzione in ogni parte del Mondo. Probabilmente egli, a quel punto, era già morto, ma se fosse stato ancora vivo, a quanto pare, avrebbe già cambiato idea: parlava, in questa missiva, del disastro avvenuto al ponte sul fiume Beresina, mentre gli uomini dell'esercito di Napoleone fuggivano, terrorizzati dal gelo e pungolati dai feroci cosacchi, nella terribile ritirata seguita alla “conquista” di Mosca. Di tutti quegli uomini partiti con ardore (erano in seicentomila), ne tornarono a casa cinquemila.
L'avvocato, visibilmente scosso, anche perché, di quelle vicende ben poco si sapeva e chi sapeva taceva, la stava leggendo davanti ad alcuni avventori, al bar dal Todaro, in piazza san Marco, La missiva riportava queste meste parole:

"...sul ponte si erano affollati i soldati, confusi disordinati, gettando gli altri nel fiume quelli che avevano la forza di urtare. Coloro che sopraggiungevano calpestavano i caduti, i carri si rovesciavano sulla folla, mentre una fila immensa di disperati, lunga chilometri e chilometri, spingeva da dietro nella speranza di attraversare il ponte che avrebbe permesso loro di sperare di continuare a vivere. Chi non ci fosse riuscito sarebbe stato preda dei russi che stavano giungendo, provvisti, ben pasciuti, avvezzi al freddo polare e con l'entusiasmo di chi salva la patria. Ed essi giunsero quando solo una parte dell'esercito aveva attraversato la Beresina. Una volta passato l'imperatore Napoleone, però, si decise di dar fuoco al ponte, onde evitare il rischio che questi potesse venir catturato. Tra i poveri disgraziati rimasti al di là del ponte c'era chi bestemmiava e chi gemeva, chi era preso dalle convulsioni, chi si lanciava nel fiume sperando di bilanciarsi tra i massi di ghiaccio, chi si lanciava nelle fiamme del ponte. Ogni cosa sarebbe stata migliore che cadere nelle mani dei russi. I cosacchi erano già pronti colle picche e i ferri che accecavano gli occhi.
Intanto, in una slitta trainata da cavalli velocissimi, Napoleone si era messo in salvo.
Ma ormai sapeva che il destino si stava compiendo..."

La lettura di questa lettera, ascoltata anche da agenti della propaganda napoleonici, costò al padrone del bar "al Todaro", due giorni di chiusura del locale, perché, riportava la sentenza: “in quel bar si mormorava contro la Francia.”
E proprio nei giorni di ottobre del 1813, a Lipsia, nella battaglia delle nazioni, dove tutti i nemici della Francia si erano coalizzati, si stava decidendo l'atto finale.
I veneziani ancora non lo sapevano ma potevano immaginarlo. L'esercito austriaco era già penetrato nel veneto e si avvicinava alla città.
Venezia, ormai era in stato d'assedio.
Pompeo vide scendere, dal campanile di piazza san Marco, Giovanni Rallo, ex gondoliere, ora telegrafista. Il campanile era stato attrezzato con quattro trasmettitori, uno per ogni angolo. Gianni, che era sceso un attimo per andare a salutare la morosa, era la persona più informata di Venezia.
"Novità?" chiese Pompeo.
"Niente, niente - rispose Giovanni, mentre aveva iniziato a baciare con accanimento la sua ragazza, senza perdere un minuto - Forte Marghera è armato ed è iniziata la resistenza, gli austriaci hanno passato l'Isonzo, queste le ultime notizie."
"Ah, e questo sarebbe niente?"
Continuò Pompeo.
"Che altro ti vol che te diga?"
"Ma...non so..."
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non potè insistere a disturbare Giovanni, visto che quello se ne stava già fin troppo indaffarato con la bella morettina.
Proprio mentre rientrava in casa, senza aver trovato niente da mangiare, incontrò Guido, che lavorava al porto e faceva, ogni tanto, il pescatore. Pareva trafelato.
"Dove ti va, de corsa?"
"Le catene, le catene... hanno incatenato il porto, Madonna Santa, semo rovinati."
"Le catene? Chi le ha messe?"
"Il governatore Seras le ha fatte mettere, ormai le navi inglesi sono vicinissime....scusa, devo correre."
I porti del Lido, di Chioggia e di Malamocco erano stati incatenati e, come non sarebbero potute entrare le navi nemiche, così non sarebbero potuti uscire i pescherecci, con buona pace del pescato.
Pompeo capì che, ormai, ben poco cibo e poca mercanzia sarebbero passati per Venezia.
Ritornò verso san Marco e vide che moltissima gente stava dirigendosi verso la basilica.
Il patriarca, Monsignor Stefano Bonsignori, aveva deciso di esporre l'immagine della vergine, affinché il popolo accorresse a pregarla. Ciò avveniva nei periodi di peggior calamità, e di calamità simili se ne erano registrate poche in questi ultimi mille anni.

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