LAGUNA
INCATENATA
A
i
primi giorni di Ottobre, l'ospedale dei santi Giovanni e Paolo, il
più grande della città, contava all'incirca settecento ammalati.
Ma,
da allora, ne erano continuati ad arrivare tanti, sempre di più, e
si trattava specialmente militari feriti, squartati, moribondi.
Anche
se nessuno lo voleva ammettere, tanto meno i giornali, l'esercito di
Napoleone, in giro per l'Europa, era in piena disfatta.
Pompeo
lavorava alla tipografia del "Giornale dipartimentale
Adriatico", unico foglio permesso dal governo francese, che
aveva precedentemente abolito tutti gli altri giornali (tramite il
decreto vicereale del 27 novembre 1811), permettendo solo la stampa
di un giornale unico per ogni dipartimento (tutta Italia era stata
divisa, dai francesi, in dipartimenti), e quello dell' "Adriatico",
che dava il nome al giornale, era il dipartimento cui faceva capo
Venezia.
Il
primo numero di quel giornale era uscito il 17 marzo del 1812 ed era
il risultato della fusione coatta di due precedenti fogli, il
"Quotidiano veneto" di Antonio Caminer, e "Notizie dal
mondo" di Antonio Graziosi; entrambi i giornali contavano
cinquecento abbonati.
Precedentemente
usciva, anche, il Nuovo postiglione, di proprietà dell'abate Pietro
Fracasso, che dovette chiudere definitivamente: contava solo
duecentottanta abbonati.
Un
abbonamento annuale costava diciotto lire. Dopo tutti questi
cambiamenti, però, il numero di lettori non ebbe alcun calo.
Pompeo,
che aveva buoni studi e sapeva scrivere, continuava ancora, ogni
tanto, a preparare degli articoli che però, per prudenza del
direttore nei confronti dell'autorità costituita, non vennero mai
pubblicati.
Ultimamente,
perciò, abbandonato suo malgrado il mestiere di giornalista, egli
lavorava in tipografia, ma le occasioni di avere informazioni di
prima mano non gli vennero mai a mancare.
La
sua “specialità” erano i dati statistici: ogni giorno calcolava
e pubblicava in un angolo del giornale, e lo farà per molto, i
numeri dei morti a Venezia e di quelli che nascevano
Il
giorno 14 di ottobre, il numero dei ricoverati in ospedale era salito
a più di duemila persone.
Il
governatore aveva fatto affiggere dei bandi in cui si chiedeva alla
popolazione di collaborare e di fornire "sfilacci", cioè
bende, pezze per i feriti.
Comandante
della città era, a quel tempo, il terribile generale Seras, che
molti veneziani avrebbero lietamente voluto veder galleggiare pel
canale, assieme alle salme dei topi di fogna.
Mentre
alcune barche, piene di militari dell'esercito napoleonico feriti e
morenti, continuavano a svuotare il loro triste carico davanti al
molo dell'ospedale, Pompeo si fermò vicino ad un gruppo di individui
che stava discutendo, animatamente, della situazione:
"Arrivano
da tutte le parti del Veneto, hanno squarci nel corpo, ferite mai
viste prima"
"Eh
sì, le armi che si fabbricano sono sempre più potenti."
"Ogni
giorno sperimentano qualche nuova diavoleria."
"E'
vero, ora gettano le bombe dall'alto degli aerostati direttamente
sopra le case dove la gente sta mangiando o dormendo."
"Hanno
inventato un cannone che spara palle grandi come la cupola della
basilica."
"EEEHH".
"Tu
le spari più grosse ancora."
Sembravano
più divertiti che preoccupati, i veneziani.
Pompeo,
allora, non poté non intervenire.
"Ormai
l'esercito è in disfatta, i campi del Veneto e del Friuli sono pieni
di soldati morti. Buoni soltanto per concimare il terreno."
"E
per fare il vino buono."
Disse
qualcuno, ridendo.
"Ma
cossa ridete, cretini. Lì in mezzo ghe xé anche i nostri"
affermò.
Ciò
zittì i chiacchieroni.
Tutti
si fecero più seri.
“El
gà ragion, caspita” Disse uno di loro.
Un
giovane che, fino ad allora, era rimasto zitto ad ascoltare quelle
panzane, intervenne:
“Mio
cugino – disse il giovane - mi ha spedito una lettera dalla Russia,
datata novembre 1812. Quasi un anno fa... è arrivata l'altro
giorno... un anno di tempo ci è voluto."
"E
cossa el diseva?"
"Robe
tremende, teribili: parlava di gelo, un oceano di neve, morti
congelati e diavoli cosacchi, sui loro cavalli d'inferno, che
torturavano i morenti."
"E'
tornato?"
"Ancora
no."
Gli
uomini si guardarono tra di loro poi, comprendendo dagli altri
sguardi che tutti pensavano, ormai, che quel ragazzo non sarebbe
tornato più, cambiarono discorso.
“Anche
la Russia pretendeva di conquistare, quel piccolo còrso”, pensò
tra sé Pompeo.
Napoleone,
credendosi invincibile, era partito nel giugno del 1812 alla
conquista di quegli immensi territori che chissà, nella sua mente,
cosa avrebbero potuto fruttare.
A
giugno, di solito, nelle regioni boreali è ancora caldo, ma per
avvicinarsi a Mosca bisogna passare per Minsk, Solensk e poi ci
vogliono mesi... luglio, agosto e poi settembre. E lì, nella steppa,
faceva già freddo.
Ottobre,
poi, non è più bella stagione in territori quasi sub polari. La
pioggia aveva infangato le strade. I gloriosi cannoni napoleonici si
erano miseramente impantanati nella melma.
Una
volta arrivati a Mosca, i conquistatori non avevano trovato nessuno,
ma proprio nessuno: solo case abbandonate, compreso il palazzo del
governo.
Poi,
a causa di mani misteriose, la città era iniziata a bruciare. A
Napoleone e ai suoi legionari, avidi, ormai, solo di bottino, non era
rimasto in tasca che l'inverno russo.
Fu
così che, visto che non restava altro da fare, i francesi si
decisero di ritornare, lentamente, verso casa. Ma una coltre di neve
aveva ricoperto la strada del ritorno.
E
lì, sotto un cielo livido, era iniziata la mattanza.
Nonostante
fossero passati molti mesi da quella disfatta, da quel massacro di
giovani, tra cui molti italiani e veneziani, i giornali non
riportavano, al proposito, quasi niente. Quei fogli favorevoli al
regime e osannanti il dittatore non parlavano che di "sconfitte
temporanee" e di "inevitabili riscosse", ma i giochi,
ormai erano compiuti, lo diceva la presenza dei militari feriti ed il
loro quotidiano aumentare.
Nel
Giornale per cui lavorava Pompeo pareva che il tempo si fosse fermato
all'apogeo di Napoleone, proprio ai tempi del suo massimo splendore.
Ma
la realtà era ben diversa:
L’avvocato
Soriani, persona stimata in città, ricevette un giorno una lettera
terribile: gliel' aveva inviata un suo nipote ventenne, un giovane
idealista che aveva seguito Napoleone, come tanti giovani europei,
perchè credeva che le idee di libertà e di democrazia si potessero
esportare con la rivoluzione in ogni parte del Mondo. Probabilmente
egli, a quel punto, era già morto, ma se fosse stato ancora vivo, a
quanto pare, avrebbe già cambiato idea: parlava, in questa missiva,
del disastro avvenuto al ponte sul fiume Beresina, mentre gli uomini
dell'esercito di Napoleone fuggivano, terrorizzati dal gelo e
pungolati dai feroci cosacchi, nella terribile ritirata seguita alla
“conquista” di Mosca. Di tutti quegli uomini partiti con ardore
(erano in seicentomila), ne tornarono a casa cinquemila.
L'avvocato,
visibilmente scosso, anche perché, di quelle vicende ben poco si
sapeva e chi sapeva taceva, la stava leggendo davanti ad alcuni
avventori, al bar dal Todaro, in piazza san Marco, La missiva
riportava queste meste parole:
"...sul
ponte si erano affollati i soldati, confusi disordinati, gettando
gli altri nel fiume quelli che avevano la forza di urtare. Coloro che
sopraggiungevano calpestavano i caduti, i carri si rovesciavano sulla
folla, mentre una fila immensa di disperati, lunga chilometri e
chilometri, spingeva da dietro nella speranza di attraversare il
ponte che avrebbe permesso loro di sperare di continuare a vivere.
Chi non ci fosse riuscito sarebbe stato preda dei russi che stavano
giungendo, provvisti, ben pasciuti, avvezzi al freddo polare e con
l'entusiasmo di chi salva la patria. Ed essi giunsero quando solo una
parte dell'esercito aveva attraversato la Beresina. Una volta passato
l'imperatore Napoleone, però, si decise di dar fuoco al ponte, onde
evitare il rischio che questi potesse venir catturato. Tra i poveri
disgraziati rimasti al di là del ponte c'era chi bestemmiava e chi
gemeva, chi era preso dalle convulsioni, chi si lanciava nel fiume
sperando di bilanciarsi tra i massi di ghiaccio, chi si lanciava
nelle fiamme del ponte. Ogni cosa sarebbe stata migliore che cadere
nelle mani dei russi. I cosacchi erano già pronti colle picche e i
ferri che accecavano gli occhi.
Intanto,
in una slitta trainata da cavalli velocissimi, Napoleone si era messo
in salvo.
Ma
ormai sapeva che il destino si stava compiendo..."
La
lettura di questa lettera, ascoltata anche da agenti della propaganda
napoleonici, costò al padrone del bar "al Todaro", due
giorni di chiusura del locale, perché, riportava la sentenza: “in
quel bar si mormorava contro
la
Francia.”
E
proprio nei giorni di ottobre del 1813, a Lipsia, nella battaglia
delle nazioni, dove tutti i nemici della Francia si erano coalizzati,
si stava decidendo l'atto finale.
I
veneziani ancora non lo sapevano ma potevano immaginarlo. L'esercito
austriaco era già penetrato nel veneto e si avvicinava alla città.
Venezia,
ormai era in stato d'assedio.
Pompeo
vide scendere, dal campanile di piazza san Marco, Giovanni Rallo, ex
gondoliere, ora telegrafista. Il campanile era stato attrezzato con
quattro trasmettitori, uno per ogni angolo. Gianni, che era sceso un
attimo per andare a salutare la morosa, era la persona più informata
di Venezia.
"Novità?"
chiese Pompeo.
"Niente,
niente - rispose Giovanni, mentre aveva iniziato a baciare con
accanimento la sua ragazza, senza perdere un minuto - Forte Marghera
è armato ed è iniziata la resistenza, gli austriaci hanno passato
l'Isonzo, queste le ultime notizie."
"Ah,
e questo sarebbe niente?"
Continuò
Pompeo.
"Che
altro ti vol che te diga?"
"Ma...non
so..."
Avrebbe
voluto aggiungere qualcosa, ma non potè insistere a disturbare
Giovanni, visto che quello se ne stava già fin troppo indaffarato
con la bella morettina.
Proprio
mentre rientrava in casa, senza aver trovato niente da mangiare,
incontrò Guido, che lavorava al porto e faceva, ogni tanto, il
pescatore. Pareva trafelato.
"Dove
ti va, de corsa?"
"Le
catene, le catene... hanno incatenato il porto, Madonna Santa, semo
rovinati."
"Le
catene? Chi le ha messe?"
"Il
governatore Seras le ha fatte mettere, ormai le navi inglesi sono
vicinissime....scusa, devo correre."
I
porti del Lido, di Chioggia e di Malamocco erano stati incatenati e,
come non sarebbero potute entrare le navi nemiche, così non
sarebbero potuti uscire i pescherecci, con buona pace del pescato.
Pompeo
capì che, ormai, ben poco cibo e poca mercanzia sarebbero passati
per Venezia.
Ritornò
verso san Marco e vide che moltissima gente stava dirigendosi verso
la basilica.
Il
patriarca, Monsignor Stefano Bonsignori, aveva deciso di esporre
l'immagine della vergine, affinché il popolo accorresse a pregarla.
Ciò avveniva nei periodi di peggior calamità, e di calamità simili
se ne erano registrate poche in questi ultimi mille anni.
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