Era
pieno di francesi con la faccia da campagnoli, anche se qualcuno non
era francese, ma fingeva di esserlo. Chissà poi cosa si credevano di
fare.
Soldati
prepotenti, come tutti i soldati del Mondo. Questi, anzi, erano ancor
peggiori, perché avevano dietro di loro fior di filosofi e di
intellettuali che li istigavano, convincendoli di essere dalla parte
della ragione, della giustizia, della verità ad ogni costo.
Ma
quando mai, nella storia degli uomini, un soldato ha ammazzato e
scannato senza credere di essere dalla parte della verità?
C'era
un tempo in cui, addirittura, qualcuno ammazzava i suoi simili in
nome di Dio, come se il Padreterno non avesse altro da fare che
creare esseri perfetti per farli poi banalmente squartare da altri
esseri umani.
E
tutto ciò in suo nome, per giunta.
Pompeo
pensò che avrebbero dovuto prestare attenzione nel muovere i loro
passi in una città millenaria, le cui pietre da calpestare
contenevano, ognuna di esse, una storia da raccontare, così come
c’era da aver timoroso rispetto per tutto ciò che si vedeva
attorno.
Mentre
pensava a queste cose, egli si accorse che due di loro, grezzi
contadini col cappellaccio portato di traverso e l'uniforme lurida,
stavano importunando Myriam, la nipote del rabbino, una ragazza che
egli aveva conosciuto durante una festa al ghetto ebraico della
città, in cui lui, cattolico, era stato invitato per caso.
"Ciao
Myriam, cossa xe che no va?"
le
chiese immediatamente.
I
soldati lo guardarono male, ma subito se ne andarono per la loro
strada.
"Ciao…."
rispose
lei con quella voce dolcissima che, molto tempo prima, lo aveva
turbato, procurandogli un misto di curiosità, di stupore e di
qualcosa d'altro ch'egli non aveva saputo spiegarsi.
"Sempre
così, co 'sti francesi, vero?"
"Sì,
certo, non si può più camminare, grazie per esser intervenuto.
"Par
carità, piasser mio, cara Myriam, servo vostro."
"A
rivederse."
"Sì,
a presto."
Pompeo
sapeva che, a molte ragazze, non dispiaceva di esser fatte oggetto di
desiderio da parte dei soldati. Molti di loro, in effetti, erano
giovani e carini. Tra di loro, poi, c'erano anche giovani provenienti
da altre città della penisola italiana, costretti a far parte
dell'esercito di Napoleone, che aveva conquistato le loro terre ed
aveva imposto, per la prima volta nella storia dell'umanità, la leva
obbligatoria.
E
questi figli degli stati italiani, nonostante portassero la stessa
divisa, erano di gran lunga più galanti dei francesi.
Mentre
guardava la stupenda ragazza ebrea, dai capelli nerissimi,
allontanarsi col suo fagotto di roba da lavare, pensò con un certo
fastidio se mai lei avesse ceduto alle avance di qualcuno. Poi cercò
di non pensarci più.
"Caro
Pompeo, come sta andando?"
"Roberto
Lulli? Qual buon vento?"
Costui
era un amico e collega di Pompeo, che aveva scritto anche un libro.
Nativo di Firenze, aveva trascorso gran parte della sua vita e della
sua carriera nella città di san Marco. Neppure in momenti difficili
come quelli che stavan passando, l'aveva potuta abbandonare.
“Spira
un vento molto brutto, fratello. Per le nostra pancia e per le nostre
idee.”
Egli
aveva creduto per un po’, come tanti altri giovani, alle idee di
libertà e di democrazia portate avanti dal dittatore còrso. Ora
anche lui era in pieno subbuglio.
“Cossa
ti vol far?” gli chiese pleonasticamente il giovane veneziano.
“Niente,
niente. Sto pensando a quelli che sono andati a morire in giro per
l’Europa e che ora si stanno ritirando in ordine sparso. Anch’io
avrei dovuto andare a combattere ma, grazie a Dio, ho questa gamba
zoppa.”
“Cambierà…tornerà
tutto come prima:”
“Prima
quando? – chiese Lulli, facendo capire quanta confusione regnava
nelle menti di chi stava assistendo a cambiamenti repentini quanto
mai, nella Storia, erano avvenuti – Prima io credevo in Dio e ci
hanno insegnato a non crederci più. Credevo nella rivoluzione e ora
non ne esiste più nemmeno il ricordo. Penso a chi ha combattuto
dapprima in nome dei suoi ideali, dopo soltanto per il bottino di
guerra (che almeno quello gli rimaneva), e adesso si trova, senza né
arte né parte, impantanato nella steppa o ferito molto gravemente
sul greto di qualche fiume e ha davanti a sé solo la prospettiva
della morte: bestemmiando Dio, sé stesso e chi lo ha indottrinato,
morendo senza conforto alcuno.”
Pompeo
lo salutò fraternamente, mentre pensava alla strana figura
responsabile di tutto ciò che stava avvenendo al mondo. L’Imperatore
de francesi: ma chi era in realtà costui? Il castigo di Dio? Un
demone venuto a inorgoglirci prima e a punirci poi? Chi lo sa,
neppure i posteri lo sapranno.
Napoleone
quando ancora non era imperatore, ma un generale della rivoluzione e
si stava avvicinando alla decadente Venezia, sua preda ambitissima,
per poterla sbranare tranquillamente, scrisse in una lettera al
"Direttorio", che governava da Parigi tutta la Francia,
queste parole:
"Di
tutti i popoli d'Italia,
il
veneziano è quello che ci odia di più",
e
non sbagliava di certo.
Ora
che erano passati quasi venti anni da quella volta, l'odio non era
diminuito, semmai, dopo gli ultimi avvenimenti, si era moltiplicato.
Un odio assai ricambiato da Napoleone per una città considerata,
probabilmente a torto, il simbolo dell'antico regime.
In
quel tempo - era il 1797 - mentre il generale francese si stava
avvicinando alle terre di san Marco che, allora, andavano dalle valli
bergamasche alle isole dell'Egeo, Venezia era già alla fine e i suoi
nobili non pensavano nemmeno ad una qualche difesa da opporre
all'esercito invincibile.
Napoleone,
vero genio della guerra, aveva inviato emissari in tutto il
territorio allo scopo di promuovere lo "spirito pubblico",
cioè per avvicinare il popolo agli ideali della Rivoluzione
Francese.
Pompeo
non era che un bambino, allora, ma suo padre glielo aveva raccontato
molto bene: quegli uomini, perfetti strumenti di guerra psicologica,
avevano fomentato, a Venezia e nel Veneto, odii e divisioni. I poveri
avevano iniziato ad odiare i patrizi, le fazioni andarono
contrapponendosi tra di loro sempre più violentemente. La millenaria
unità della serenissima terminò malamente. Si arrivò a dividersi,
dopo secoli di orgoglio indipendentistico, tra filoaustriaci e
filofrancesi.
Mentre
camminava per le callette strettissime, si accorse che era arrivato
a odiare il rumore dei tacchi delle truppe occupanti sui masegni,
ché pareva lo facessero quasi per dispetto.
Pensò
che i veneziani nulla avevano fatto per difendersi, mentre sulle
montagne...
...Eh
sì, sulle montagne, in quel 1797, i francesi avevano trovato filo da
torcere.
Mentre
si avviavano speditamente a conquistare la città dei Dogi, i
napoleonici non avrebbero immaginato mai, neppur minimamente, di
trovarsi davanti un esercito di montanari, valligiani, contadini,
disposti a tutto pur di difendersi da una soldataglia arruffona e
arrogante.
Fu
così che, armati di forconi e di bastoni, i poveri abitanti della
valcamonica, della valtrompia, della valsabbia e delle valli e dei
contadi vicini, dispersero e umiliarono l'esercito più forte del
mondo, quello che si avviava a conquistare l'Europa intera.
E
non riuscivano ad andarne fuori, i francesi, con quei diavoli
arrabbiatissimi.
Napoleone
minacciò il doge friulano, Ludovico Manin, di mettere a ferro e a
fuoco la città di san Marco se non avesse dato ordine a quegli
ossessi di fermarsi, ché gli stavano distruggendo gli uomini
migliori.
Il
doge dovette arrendersi e, per evitare altri spargimenti di sangue,
ché già ce n'erano stati troppi, intimò a quella gente tanto
riconoscente e fedele di fermarsi.
Non
poté dimenticare che, in moltissimi casi, furono proprio i popolani
più poveri, i villici, i montanari a salvare la Patria: successe
anche all'inizio del '500, quando la Repubblica era stata attaccata
da una coalizione capeggiata nientepopodimeno che dal papa Giulio II,
monarca dispotico e intollerante.
Anche
in quei giorni, al grido di "viva san Marco", quel popolo
povero e fiero si era difeso con grande accanimento. E quella volta
aveva salvato la Repubblica.
Pompeo
pensò a loro, ai "campagnoli" tanto diversi dai cittadini
veneziani, con compassione e molta pena.
Erano
i figli dei contadini poveri e dignitosi, quelli che i ricchi ed i
borghesi deridevano e definivano ignoranti e bigotti. Forse era vero,
ma i figli dei ricchi borghesi che avevano sposato la causa della
rivoluzione, che avevano studiato i libri di Voltaire e avevano preso
le armi, ora le stavano usando contro di loro, e non riuscivano ad
averne ragione.
Il
12 Maggio del 1797 i francesi entrarono in città e i veneziani non
mossero un dito.
Erano
passati, in pochi minuti, mille e trecento anni di indipendenza.
Gli
schiavoni , soldati che venivano dalle coste dell’ Est e che furono
per molto tempo al servizio della Serenissima, presenti in città,
difesero Venezia con tenacia.
Ma
altri di loro approfittarono del caos per saccheggiare le case e fare
bottino.
Qualche
cittadino più colto pensò che i francesi avrebbero portato le
libertà democratiche, quelle che moltissimi, sinceramente e a
ragione, desideravano ardentemente.
Ma
Napoleone non era che un dittatore come ce ne furono tanti e come ce
ne saranno ancora… e della libertà altrui se ne fregava
bellamente.
Aveva
già venduto Venezia agli austriaci – buoni quelli - dopo averla
"liberata" di qualche tonnellata di opere d'arte.
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