domenica 17 maggio 2020

" Venezia in catene " CAPITOLO IX




CHIOGGIOTTI





Le diserzioni in massa, tra i militari di presidio a Venezia, aumentavano in maniera impressionante, tanto che, con l'inizio del nuovo anno, si faticò a tenerne nota.
Pompeo era avvisato costantemente: si aprivano in continuazione nuovi buchi tra chi doveva controllare i confini della città. A volte erano le stesse guardie a fuggire e a darsi al nemico. Ma, nel suo giornale, certe notizie non si potevano di certo pubblicare. Il numero del 3 gennaio, uscito in ritardo, ne parlava appena, anche se la pubblicazione di ordinanze severissime contro i disertori, faceva capire chiaramente che il problema, per il governo francese della città, era enorme.
Dall’altra parte della laguna, verso Sud, nella città gemella di Venezia, Chioggia, stava intanto succedendo un fatto che aveva dell’incredibile.
In quei giorni, infatti, gli abitanti di Chioggia erano soliti venire fino a Venezia per vendere le loro derrate alimentari, perché ne ricavavano assai maggior guadagno che se le avessero vendute nella propria città, perché a Venezia erano sempre stati più ricchi e anche perché a Chioggia erano tutti pescatori e con la storia del blocco navale nessuno poteva più andare al lavoro nel mare, unico sostentamento delle proprie famiglie.
Era una speculazione dannosissima, perché, in poco tempo, avrebbe sì riempito le tasche degli speculatori, ma avrebbe ridotto Chioggia alla fame; brutto destino per quei poveri chioggioti: morir di fame con le tasche piene di soldi.
Fu così che il prefetto di Chioggia, il nobile signor Baldassaroni, tentò in maniera intelligente di fermare questa scemenza con un decreto in cui si vietava di vendere alcunché a Venezia.
Ma tale gesto non piacque al governatore Seras tanto feroce quanto ignorante, che non aveva autorizzato quella misura e che annullò il decreto, affermando che il commercio tra le due città, entrambe bloccate, doveva continuare.
Accadde allora, inevitabilmente, che i clodiensi, o chioggiotti come li chiamavano i veneziani, si trovarono, in brevissimo tempo, senza generi di prima necessità. Questa incresciosa situazione scatenò un tumulto di popolo ( proprio lo stesso popolo che aveva cercato di far soldi speculando a Venezia), in cui non mancarono botte e violenze e che venne bloccato soltanto dalla promessa di Seras, che non sapeva più che pesci pigliare (e non c’erano più neanche pesci), che sarebbe stata portata un pochina di farina da Venezia a Chioggia.
Ciò bastò a calmare gli animi.

Era soltanto il 6 gennaio e già Venezia pensava, nonostante tutto, al carnevale. Il governo fece sapere che era permesso portare le maschere, a meno che, i travestimenti, non fossero stati contrari alla morale e irrispettosi dell'autorità costituita, della religione, dei costumi.
In tipografia il giornale era quasi pronto, Pompeo stava preparando l'articolo riguardante il carnevale. In pratica, egli doveva limitarsi a pubblicare l'ordinanza del governo così come gli veniva passata: erano vietati gli spari e l'uso di rocchette e fuochi artificiali (che tanto, per capodanno, ne erano stati utilizzati a sufficienza), e per chi girava armato, creava tumulti o commetteva atti indecenti in maschera (e gli atti indecenti non mancavano mai, specie se si era in maschera), scattava l'arresto immediato e l'obbligo di smascherarsi davanti al poliziotto (cosa che avrebbe fatto accapponare la pelle ai Dogi della serenissima, nei tempi in cui il diritto di maschera era considerato quasi una cosa sacra, come il diritto di andare a messa).
Se il reo poi, apparteneva ad una delle classi chiamate alla leva, sarebbe incorso nelle pene stabilite per i renitenti.
Tutto qui: il "giornalista" Pompeo non avrebbe dovuto aggiungere altro a queste notizie-ordinanze che giungevano dal governo. E sì che di cose da dire ne avrebbe avute molte.

"Xé sciopà el tifo" annunciò una voce concitata alla porta della tipografia.
"Qua a Venexia?"
"Sì, all'ospedal."
In tutti gli ospedali cittadini, era scoppiato il terribile morbo.
Era successo che alcuni giovani militari di presidio, non abituati alle fatiche della guerra o alle notti di guardia, avevano iniziato ad accusare un marasma alla pancia, che presto degenerò in una malattia più terribile, il tifo, appunto. Gli ospedali che già erano infetti e sozzi, erano carichi di ammalati ed il loro numero aumentava costantemente. Il morbo sorprese anche medici ed infermieri. Venne istituito un ospedale in sacca san Biagio allo scopo di isolare quelli che erano stati infettati dalla malattia.
La tragica lista dei morti, che il Giornale dipartimentale Adriatico pubblicava costantemente, si stava gonfiando in modo spaventoso.
Pompeo guardò fuori dalla finestra e vide che, lentamente, era iniziata a cadere la prima neve.

Attraverso il chiarore nitido che usciva dalla vetrata, gli parve di scorgere movimenti di esseri umani, simili alle migrazioni degli animali, in cerca di cibo e di acqua. Vide milioni di persone, in un futuro non molto lontano, disperate e umiliate, anche se sotto la loro terra nascondevano tesori. Come i chioggiotti anche i popoli di domani dovranno svendere i loro patrimoni e le loro ricchezze senza ricavarne di che vivere, trovandosi a morire di fame per far arricchire i loro Napoleoni e i loro Seras.

Passò di là una donna, la Guerrina, quella che vendeva la frutta a Rialto assieme a sua sorella Lucia, che lo avvisò:
"Va a casa, Pompeo, che tò papà sta tanto e tanto mal."

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