martedì 5 maggio 2020

" Venezia in catene"


CAPITOLO VII



I DISERTORI





Ma a questo punto, nonostante si cercasse di celare ogni paura attraverso feste e divertimenti, spettacoli e risate, balli e riti orgiastici uno spettro sinistro, quello che precede solo la morte, era giunto a destinazione…
Fame ! Com'era brutto anche il solo pronunciarla, quella parola.
Aveva iniziato, come sempre, a torturare i più disgraziati, gli umili, quelli che a malapena erano riusciti a sopravvivere e che ricchi non erano mai stati. Poi, pian piano, era arrivata a tormentare lo stomaco di coloro i quali, a certe cose innominabili, non erano avvezzi.
La fame è come una malattia non solo fisica, che inizia a minare l'animo, la sicurezza, la fiducia in sé stessi. Chi, prima, era abituato a nuotare nell'oro, reagiva ora, a questa assurda situazione che la città stava vivendo, con molta minor dignità.
Tanti nobili decaduti, come i famosi barnaboti che nessuno ormai avrebbe più potuto aiutare, furono costretti realmente a mangiare l’erba che cresceva nei cortili o tra i masegni e non si vergognavano a manifestare pubblicamente e indecorosamente la propria disperazione. Ma i poveri, quelli della fame endemica dimostravano, quando fosse possibile, maggior forza d’animo.
Chissà qual’ è il vero significato della parola "nobiltà"? In quei giorni, a Venezia, i veri nobili sembrava che fossero proprio loro, gli ultimi, i poveri, i diseredati.

Ogni casa, allora, si trasformò in un laboratorio da fornaio.
Pompeo, che era tornato a lavorare nella tipografia del suo giornale, correggeva bozze e "ispirava" articoli agli altri, visto che di suoi non ne poteva ancora scrivere.
Per quella sede, però, passavano tutte le informazioni che si riuscivano ad ottenere, sia circa la situazione interna, sia di ciò che succedeva fuori dalla laguna, ormai isolata dal resto del mondo.
Compilò il solito conteggio, sempre disgraziatamente sbilanciato in favore di nostra sorella morte.
"Dal 25 al 30 novembre 1813, a Venezia sono nati 56 individui e ne sono morti 172."
Il numero dei decessi dovrà superare, di molto, quello delle nascite, per tutto il periodo del blocco.
Ma ciò che stupiva Pompeo, in realtà, era il fatto, di per sé miracoloso, che continuassero a nascere ancora bambini.
Il numero del 5 dicembre, ormai pronto per la stampa, iniziava, nella pagina della cronaca locale, con queste parole:
"Tutte le famiglie veneziane sono impegnate a sfornare pane, di giorno e di notte. Se ne producono incredibili quantità."
Questo la dice lunga su quanto poco facilmente si abbattessero i veneziani incarcerati in laguna: la voglia sopravvivere esortava tutti, indistintamente a darsi da fare. E tutti i sistemi erano buoni, visto che da quei forni uscirono pagnotte, biscotti pane dolce; tanti alimenti nuovi furono inventati in quel periodo, dolci e salatini che continueranno ad essere di moda anche tra i palati sofisticati di due secoli dopo.
Ma iniziava a mancare la materia prima, perché, nonostante le scorte, la farina stava diventando introvabile.
Anche stavolta, comunque, si riusciva a trovare dei colpevoli; nel numero successivo, ecco la notizia:
"Da oggi, gli abitanti della laguna potranno mangiare solo pane nero (malsano e pesante), l'ingordigia dei fabbricanti fa temere che, in seguito, la qualità sarà peggiore."
D'altronde il governo, con un decreto a data dello stesso giorno, aveva vietato la fabbricazione di pane bianco.

Al mattino dell'8 dicembre, nella redazione del giornale, giunse la notizia che la polizia aveva arrestato tre militari italiani - arruolati nell'esercito francese - considerati disertori, assieme a due battellanti che li avevano aiutati a fuggire.
Pompeo storse la bocca in un sorriso sforzato. Gli faceva piacere sapere che, a quel punto, le diserzioni si stavano moltiplicando. Sapeva anche che molti uomini erano riusciti a fuggire, consegnandosi a inglesi ed austriaci o, semplicemente, tornando alle loro case. la maggior parte erano italiani che, di combattere per la Francia, ormai ben poco gli interessava.
Però il giornale era autorizzato a dare la notizia solo quando i disertori venivano catturati. Non si doveva "minare" il morale della truppa, se mai ce ne fosse stato bisogno, perciò il direttore aveva avuto l'ordine di non menzionare mai le infinite fughe riuscite.
Ma, nello stesso foglio, veniva riportata con enfasi la notizia che le pene per i disertori erano durissime, che chi fosse stato trovato a vendere vestiti borghesi ai militari l'avrebbe pagata cara, che i battellieri trovati a trasportare disertori sarebbero stati messi a morte.
E la notizia che Pompeo dovette correggere e far pubblicare, quattro giorni dopo, fu proprio quella che parlava della pena inflitta a chi aiutava a scappare, prima ancora che ai disertori:
"Venezia 12 dicembre 1813, i due battellanti che hanno aiutato tre militari dell'esercito francese a disertare, sono stati fucilati questa mattina. Avevano 18 e 21 anni."
Ormai, nonostante le reazioni terribili, le diserzioni erano divenute inarrestabili.
Per far fronte a tutte queste fughe, necessitavano sempre nuove leve. Il giorno 15, giunse la notizia che venticinque detenuti per reati comuni, vennero scarcerati dalla casa di correzione ed avviati a servire, immaginiamo con quanto zelo, l'artiglieria di marina.
Uno dei disertori catturati era un giovane di ventitre anni, figlio di un noto avvocato bolognese. Forse per questo i due barcaroli che lo avevano aiutato a fuggire (erano due gondolieri), erano già stati giustiziati qualche giorno prima. Egli aveva creduto di servire l’esercito della rivoluzione, che avrebbe portato la democrazia tra i popoli, mentre gli altri due commilitoni erano stati coartati dalle leggi di leva. Quando aveva capito che razza di rivoluzionario fosse il signor Napoleone Bonaparte, imperatore più imperialista degli imperatori dell’impero centrale, alla faccia di libertè egalitè e fraternitè, peggiore degli zar e del crucco, aveva convinto anche gli altri due ad andarsene…tanto ormai era tutto finito.
In fin dei conti, qualche mese prima - anche se a Venezia ancora non era arrivata la notizia - Napoleone era stato sconfitto a Lipsia dalle potenze coalizzate ed ormai la sua fine era vicina.
Il ragazzo avrebbe voluto raggiungere la sua famiglia a Bologna, e gli sarebbe bastato uscire da Venezia per trovare la libertà: poche vogate fino ai margini della laguna. Ma fu catturato dal suo stesso esercito, e non c’è nulla di più spietato – lo insegnerà la Storia più avanti – di un esercito in rotta, con generali falliti e per questo più cattivi, con sergenti e marescialli che hanno sete di sangue prima di terminare la loro guerra perduta. E venga la pena di morte per i disertori, specialmente per chi fugge dalle guerre sbagliate.
I tre giovani vennero fucilati all’alba, in una città in cui si stava morendo di freddo e di inedia, il giorno 17.
Pompeo era in tipografia, un piccolo locale dove si scriveva, si decideva, si stampava, in campiello dei Meloni al numero civico 1373, dopo il campo san Silvestro.
Il signor Graziosi, direttore e padrone, visibilmente imbarazzato, dovette avvisare i suoi collaboratori che, di lavoro, ce ne sarebbe stato molto meno. Le poste si erano "arenate", e di notizie ne giungevano sempre meno. Diede l'incarico di pubblicare, in testa al numero del 22 dicembre, questo avvertimento:

"Gli editori, visto l'arenamento delle poste, ritengono opportuno pubblicare il giornale solo due volte alla settimana, in luogo delle tre uscite settimanali, almeno fino a che non si riapra il libero corso dei corrieri."

Il termine "corrieri" rievocò, al giovane, ricordi ch'egli credeva caduti in un oblio definitivo. In quell'istante, gli vennero in mente le gite compiute a piedi e, quando le cose andavano meglio, in carrozza, nell'entroterra e nelle magnifiche cittadine venete, Asolo, Castelfranco o in quelle lungo la costa d'Istria, come la splendida Parenzo. Viaggiare, negli ultimi tempi, era diventato sempre più difficile, ma qualche giro, assieme al padre e al fratello Giovanni, lo aveva ancora potuto fare.
Adesso che stava richiuso in laguna, gli sembrava di vivere in un carcere di grandi dimensioni, assieme ad altre decine di migliaia di detenuti: ancora di più, come è ovvio tra le persone normali, sognava di potersi muovere liberamente, di andare lontano.
Uscì, camminò sulla riva del vin, lungo il canal grande in vista del ponte di Rialto.
Stette a lungo ad osservare i gabbiani, liberi, che volavano un po' in acqua e un po' nel cielo. Anche loro erano morti di fame ma, pensò, essi non dovevano pagare le colpe, orrende, degli uomini.
Forse per quel motivo Dio Misericordioso li aveva dotati di grandi ali.
Arrivò la vigilia di Natale, la situazione s'era fatta, per tutti indistintamente, disperata.
Almeno così la pensava Pompeo ma, aggirandosi guardingo per la città, dovette ben presto ricredersi. Tornò a casa e segnò, nel suo diario:

"24 dicembre, Se fosse arrivato uno straniero non avrebbe creduto che la città è in stato di blocco, il buon umore è impresso sulle facce della gente, si è speso e mangiato secondo il costume degli altri Natali. I negozi sono pieni di grascie e ghiottonerie e si è gozzovigliato come se tutto stesse andando bene. I teatri hanno registrato il pienone ogni sera. sono aperti il san Moisè ed il san Benedetto."

"Mah...- pensò sconsolato – forse è meglio così, agitarsi e piangere non ha mai risolto nulla…però, un po’ di incoscienza in meno ci farebbe bene.”
Il 28 uscì il giornale e, per l’anno 1813, sarebbe stata l’ultima volta.
Mentre se ne tornava a casa scorse, in lontananza, la figura piacevole di Myriam, la ragazza del ghetto, che scherzava divertita con alcuni soldati francesi. Ebbe un tuffo al cuore. Immaginò, forse malignando, ciò che la ragazza avrebbe concesso loro. Forse, sarebbero andati tutti in qualche posto nascosto ed avrebbero fatto le porcherie.
Senza averne diritto si sentì male, quasi da impazzire, e capì quanta importanza potesse avere per lui quella ragazza figlia di un popolo tanto differente…ma quanto grande fosse questa differenza non gli riusciva ancora di calcolare.




















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