CAPITOLO
VII
I
DISERTORI
Ma
a questo punto, nonostante si cercasse di celare ogni paura
attraverso feste e divertimenti, spettacoli e risate, balli e riti
orgiastici uno spettro sinistro, quello che precede solo la morte,
era giunto a destinazione…
Fame
! Com'era brutto anche il solo pronunciarla, quella parola.
Aveva
iniziato, come sempre, a torturare i più disgraziati, gli umili,
quelli che a malapena erano riusciti a sopravvivere e che ricchi non
erano mai stati. Poi, pian piano, era arrivata a tormentare lo
stomaco di coloro i quali, a certe cose innominabili, non erano
avvezzi.
La
fame è come una malattia non solo fisica, che inizia a minare
l'animo, la sicurezza, la fiducia in sé stessi. Chi, prima, era
abituato a nuotare nell'oro, reagiva ora, a questa assurda situazione
che la città stava vivendo, con molta minor dignità.
Tanti
nobili decaduti, come i famosi barnaboti che nessuno ormai avrebbe
più potuto aiutare, furono costretti realmente a mangiare l’erba
che cresceva nei cortili o tra i masegni e non si vergognavano a
manifestare pubblicamente e indecorosamente la propria disperazione.
Ma i poveri, quelli della fame endemica dimostravano, quando fosse
possibile, maggior forza d’animo.
Chissà
qual’ è il vero significato della parola "nobiltà"? In
quei giorni, a Venezia, i veri nobili sembrava che fossero proprio
loro, gli ultimi, i poveri, i diseredati.
Ogni
casa, allora, si trasformò in un laboratorio da fornaio.
Pompeo,
che era tornato a lavorare nella tipografia del suo giornale,
correggeva bozze e "ispirava" articoli agli altri, visto
che di suoi non ne poteva ancora scrivere.
Per
quella sede, però, passavano tutte le informazioni che si riuscivano
ad ottenere, sia circa la situazione interna, sia di ciò che
succedeva fuori dalla laguna, ormai isolata dal resto del mondo.
Compilò
il solito conteggio, sempre disgraziatamente sbilanciato in favore di
nostra sorella morte.
"Dal
25 al 30 novembre 1813, a Venezia sono nati 56 individui e ne sono
morti 172."
Il
numero dei decessi dovrà superare, di molto, quello delle nascite,
per tutto il periodo del blocco.
Ma
ciò che stupiva Pompeo, in realtà, era il fatto, di per sé
miracoloso, che continuassero a nascere ancora bambini.
Il
numero del 5 dicembre, ormai pronto per la stampa, iniziava, nella
pagina della cronaca locale, con queste parole:
"Tutte
le famiglie veneziane sono impegnate a sfornare pane, di giorno e di
notte. Se ne producono incredibili quantità."
Questo
la dice lunga su quanto poco facilmente si abbattessero i veneziani
incarcerati in laguna: la voglia sopravvivere esortava tutti,
indistintamente a darsi da fare. E tutti i sistemi erano buoni, visto
che da quei forni uscirono pagnotte, biscotti pane dolce; tanti
alimenti nuovi furono inventati in quel periodo, dolci e salatini che
continueranno ad essere di moda anche tra i palati sofisticati di due
secoli dopo.
Ma
iniziava a mancare la materia prima, perché, nonostante le scorte,
la farina stava diventando introvabile.
Anche
stavolta, comunque, si riusciva a trovare dei colpevoli; nel numero
successivo, ecco la notizia:
"Da
oggi, gli abitanti della laguna potranno mangiare solo pane nero
(malsano e pesante), l'ingordigia dei fabbricanti fa temere che, in
seguito, la qualità sarà peggiore."
D'altronde
il governo, con un decreto a data dello stesso giorno, aveva vietato
la fabbricazione di pane bianco.
Al
mattino dell'8 dicembre, nella redazione del giornale, giunse la
notizia che la polizia aveva arrestato tre militari italiani -
arruolati nell'esercito francese - considerati disertori, assieme a
due battellanti che li avevano aiutati a fuggire.
Pompeo
storse la bocca in un sorriso sforzato. Gli faceva piacere sapere
che, a quel punto, le diserzioni si stavano moltiplicando. Sapeva
anche che molti uomini erano riusciti a fuggire, consegnandosi a
inglesi ed austriaci o, semplicemente, tornando alle loro case. la
maggior parte erano italiani che, di combattere per la Francia, ormai
ben poco gli interessava.
Però
il giornale era autorizzato a dare la notizia solo quando i disertori
venivano catturati. Non si doveva "minare" il morale della
truppa, se mai ce ne fosse stato bisogno, perciò il direttore aveva
avuto l'ordine di non menzionare mai le infinite fughe riuscite.
Ma,
nello stesso foglio, veniva riportata con enfasi la notizia che le
pene per i disertori erano durissime, che chi fosse stato trovato a
vendere vestiti borghesi ai militari l'avrebbe pagata cara, che i
battellieri trovati a trasportare disertori sarebbero stati messi a
morte.
E
la notizia che Pompeo dovette correggere e far pubblicare, quattro
giorni dopo, fu proprio quella che parlava della pena inflitta a chi
aiutava a scappare, prima ancora che ai disertori:
"Venezia
12 dicembre 1813, i due battellanti che hanno aiutato tre militari
dell'esercito francese a disertare, sono stati fucilati questa
mattina. Avevano 18 e 21 anni."
Ormai,
nonostante le reazioni terribili, le diserzioni erano divenute
inarrestabili.
Per
far fronte a tutte queste fughe, necessitavano sempre nuove leve. Il
giorno 15, giunse la notizia che venticinque detenuti per reati
comuni, vennero scarcerati dalla casa di correzione ed avviati a
servire, immaginiamo con quanto zelo, l'artiglieria di marina.
Uno
dei disertori catturati era un giovane di ventitre anni, figlio di un
noto avvocato bolognese. Forse per questo i due barcaroli che lo
avevano aiutato a fuggire (erano due gondolieri), erano già stati
giustiziati qualche giorno prima. Egli aveva creduto di servire
l’esercito della rivoluzione, che avrebbe portato la democrazia tra
i popoli, mentre gli altri due commilitoni erano stati coartati dalle
leggi di leva. Quando aveva capito che razza di rivoluzionario fosse
il signor Napoleone Bonaparte, imperatore più imperialista degli
imperatori dell’impero centrale, alla faccia di libertè egalitè e
fraternitè, peggiore degli zar e del crucco, aveva convinto anche
gli altri due ad andarsene…tanto ormai era tutto finito.
In
fin dei conti, qualche mese prima - anche se a Venezia ancora non era
arrivata la notizia - Napoleone era stato sconfitto a Lipsia dalle
potenze coalizzate ed ormai la sua fine era vicina.
Il
ragazzo avrebbe voluto raggiungere la sua famiglia a Bologna, e gli
sarebbe bastato uscire da Venezia per trovare la libertà: poche
vogate fino ai margini della laguna. Ma fu catturato dal suo stesso
esercito, e non c’è nulla di più spietato – lo insegnerà la
Storia più avanti – di un esercito in rotta, con generali falliti
e per questo più cattivi, con sergenti e marescialli che hanno sete
di sangue prima di terminare la loro guerra perduta. E venga la pena
di morte per i disertori, specialmente per chi fugge dalle guerre
sbagliate.
I
tre giovani vennero fucilati all’alba, in una città in cui si
stava morendo di freddo e di inedia, il giorno 17.
Pompeo
era
in tipografia, un piccolo locale dove si scriveva, si decideva, si
stampava, in campiello dei Meloni al numero civico 1373, dopo il
campo san Silvestro.
Il
signor Graziosi, direttore e padrone, visibilmente imbarazzato,
dovette avvisare i suoi collaboratori che, di lavoro, ce ne sarebbe
stato molto meno. Le poste si erano "arenate", e di notizie
ne giungevano sempre meno. Diede l'incarico di pubblicare, in testa
al numero del 22 dicembre, questo avvertimento:
"Gli
editori, visto l'arenamento delle poste, ritengono opportuno
pubblicare il giornale solo due volte alla
settimana,
in luogo delle tre uscite settimanali, almeno fino a che non si
riapra il libero corso dei corrieri."
Il
termine "corrieri" rievocò, al giovane, ricordi ch'egli
credeva caduti in un oblio definitivo. In quell'istante, gli vennero
in mente le gite compiute a piedi e, quando le cose andavano meglio,
in carrozza, nell'entroterra e nelle magnifiche cittadine venete,
Asolo, Castelfranco o in quelle lungo la costa d'Istria, come la
splendida Parenzo. Viaggiare, negli ultimi tempi, era diventato
sempre più difficile, ma qualche giro, assieme al padre e al
fratello Giovanni, lo aveva ancora potuto fare.
Adesso
che stava richiuso in laguna, gli sembrava di vivere in un carcere di
grandi dimensioni, assieme ad altre decine di migliaia di detenuti:
ancora di più, come è ovvio tra le persone normali, sognava di
potersi muovere liberamente, di andare lontano.
Uscì,
camminò sulla riva del vin, lungo il canal grande in vista del
ponte di Rialto.
Stette
a lungo ad osservare i gabbiani, liberi, che volavano un po' in acqua
e un po' nel cielo. Anche loro erano morti di fame ma, pensò, essi
non dovevano pagare le colpe, orrende, degli uomini.
Forse
per quel motivo Dio Misericordioso li aveva dotati di grandi ali.
Arrivò
la vigilia di Natale, la situazione s'era fatta, per tutti
indistintamente, disperata.
Almeno
così la pensava Pompeo ma, aggirandosi guardingo per la città,
dovette ben presto ricredersi. Tornò a casa e segnò, nel suo
diario:
"24
dicembre, Se fosse arrivato uno straniero non avrebbe creduto che la
città è in stato di blocco, il buon umore è impresso sulle facce
della gente, si è speso e mangiato secondo il costume degli altri
Natali. I negozi sono pieni di grascie e ghiottonerie e si è
gozzovigliato come se tutto stesse andando bene. I teatri hanno
registrato il pienone ogni sera. sono aperti il san Moisè ed il san
Benedetto."
"Mah...-
pensò sconsolato – forse è meglio così, agitarsi e piangere non
ha mai risolto nulla…però, un po’ di incoscienza in meno ci
farebbe bene.”
Il
28 uscì il giornale e, per l’anno 1813, sarebbe stata l’ultima
volta.
Mentre
se ne tornava a casa scorse, in lontananza, la figura piacevole di
Myriam, la ragazza del ghetto, che scherzava divertita con alcuni
soldati francesi. Ebbe un tuffo al cuore. Immaginò, forse
malignando, ciò che la ragazza avrebbe concesso loro. Forse,
sarebbero andati tutti in qualche posto nascosto ed avrebbero fatto
le porcherie.
Senza
averne diritto si sentì male, quasi da impazzire, e capì quanta
importanza potesse avere per lui quella ragazza figlia di un popolo
tanto differente…ma quanto grande fosse questa differenza non gli
riusciva ancora di calcolare.
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