mercoledì 13 maggio 2020

" Venezia in catene" CAPITOLO VIII



Capodanno da Buratti




Dopo l’uscita dell’ultimo numero, la sede del giornale era stata abbandonata: il direttore aveva chiuso tutto senza salutar nessuno e senza avvisare quando si sarebbe stampato, sempre “se” si sarebbe stampato, il numero successivo.
In quei pochi fogli si potevano leggere le solite notizie palesemente false – lo avrebbe capito anche un bambino - riguardanti vittorie esaltanti quanto inesistenti dell’esercito francese, alcune di addirittura trionfali, di città conquistate con valore e tenacia.
In realtà si trattava di una guerra che Napoleone aveva ormai perduto, lo sapevano già tutti nel resto del Mondo, ma a Venezia ancora non lo sapeva nessuno.
Pompeo non poteva più sopportare che venissero celati i terribili patimenti cui ogni cittadino era costretto in maniera tanto infame.
Mentre vagava per le calli senza una meta precisa, si stupì (ma lo stupore, ormai, gli riusciva sempre difficile), vedendo la gioia con cui i suoi concittadini si preparavano a festeggiare – alla grande, come sempre - l'arrivo del nuovo anno.
Una volta giunto a casa prese in mano il diario, che almeno quello lo avrebbe potuto scrivere in libertà e, senza spogliarsi che tanto era freddo anche lì dentro, scrisse una struggente preghiera al cielo:

"Compie il 1813, anno veramente nefasto.
Nel di lui corso fummo flagellati con guerre, tempeste, inondazioni, terremoti, aggravj insopportabili, fallimenti, coscrizioni, ed in fine col blocco.
Si fanno voti al cielo, perché l'imminente 1814 ci sia più propizio.
Ma pur troppo incomincia anch'egli con lo stesso o poco differente apparato di disgrazie.
Il blocco, che ci opprime già da due mesi, viene riguardato come la più grande di ogni altra - speriamo che la mano dell'Onnipossente affretterà la tanto da noi sospirata pace."


Tutte le case erano pavesate a festa, quella sera. Gregorio aveva trovato da qualche parte alcune ghiottonerie e non si capiva come avesse fatto. Il vecchio, col solito sorriso sulle labbra, stava già rifocillandosi. Con la bocca piene disse, rivolto al figlio:
"Magna, magna che el xé bon."
Nel piatto campeggiava una specie di frittella che non dava ad intendere cosa contenesse all'interno, tre uova basotte e alcuni fagioli conditi con del liquido che, a ben sperare, pareva olio di oliva.

Intanto i notabili della città erano tutti riuniti a casa del poeta Buratti.
Buratti era un poeta satirico che componeva versi abbastanza "spinti", dall’ intenso contenuto erotico, tanto da esser considerato un sozzo da alcuni e da altri paragonato al celebre “Baffo”, poeta non meno audace.
Egli era stato invitato, poco tempo prima, ad una cena ufficiale in casa del prefetto della città, anzi del “Prefetto del Dipartimento dell’Adriatico”, cioè il nobile signor Francesco Galvagna, alla presenza di ospiti illustri come il podestà di Venezia, Girolamo Bartolomeo Gradenigo, il commissario generale di polizia Antonio Mulazzani, ufficili del comando francese e varie personalità del mondo letterario.
Non curante della solennità del luogo, a mo' di ringraziamento per quell'invito lesse, davanti a tutti gli invitati, nobiluomini e dame, alcuni sonetti di satira da lui composti.
Dopo un po’ il prefetto, imbarazzatissimo, cercò di dissuaderlo senza riuscirci e lo invitò, perlomeno, a non pubblicare queste facezie ma, pochi giorni dopo, le copie dei versetti avevano già invaso Venezia.
Ma più dell’erotismo faceva male, a chi deteneva il potere, la satira politica. Questi versi risultarono particolarmente duri ai censori:



"Per chi ha visto el rosto infame
della fezza democratica
superar l'ingorda fame
della fezza aristocratica.

Da l'inglese prepotente
xè in caena messo el mar
da la tera no vien zente
no vien roba da magnar

Che zà presto da stanote
un bel zorno spuntarà
e a le barbare so grote
i nemici tornerà."




Buratti se la prendeva sia con gli inglesi che con Napoleone e Francesco d'Austria e poi con gli aristocratici e i municipalisti: odiava tutti i potenti e gli invasori, li disprezzava e le cose, lui, non le mandava di certo a dire.
Essi erano, a suo modo di vedere, tutti barbari che venivano dalle grotte, persone incivili, feccia, come feccia erano quei suoi concittadini che andavano ad osannare ogni nuovo invasore, pronti a offrire i propri servigi e la propria anima al potente di turno.
Il giorno dopo Buratti venne denunciato dai filo francesi al terribile generale Seras, che lesse i versetti: fu subito arrestato senza tanti complimenti.
Non gli fecero alcun processo, ma venne condannato a trenta sferzate sulla schiena. I suoi aguzzini poi, non contenti, lo bastonarono per molte ore e lo lasciarono alcuni giorni a pane ed acqua, dopo un po’ lo liberarono anche se gli imposero, a mo’ di sicurezza, un poliziotto in casa .
Quel giorno di capodanno quindi, nell’abitazione dell’esimio poeta si riunirono gruppi di amici, di amanti della poesia ma anche del buon vino, cercando di consolarlo e di farlo guarire dalle sue botte, un po’ prendendolo in giro, un po’ facendosi raccontare quel che Buratti sapeva raccontare meglio, perché ciò che amavano di più i suoi ospiti erano le sue novelle erotiche che mai mancavano in quelle riunioni.
Il buon vino, la bella compagnia di dame fresche o meno giovani, ma sempre affascinanti come lo sanno essere qui da noi, stimolarono la memoria del poeta, che narrò una vicenda avvenuta qualche anno prima:
Si era nel tempo in cui a Venezia si viveva mille e una notte, e forse anche di più: quando, cioè, le persone veramente importanti ed anche quelle che lo erano meno, venivano qui a stimolare e a soddisfare la loro libidine, senza guardare all’età o al sesso di chi la soddisfaceva. I signori potevano trovare prostitute (ma non è il termine appropriato per delle bambine), che avevano un età compresa tra i dieci e i sedici anni senza che nessuno, nell’umanità di quel tempo, avesse qualcosa da ridire.
In quei giorni era impossibile muoversi per la zona di San Marco senza incontrare uomini vestiti come donne o dame in età non più adolescente pronte ad importunare giovanotti e gondolieri.
Se le dame si concedevano a tutti, figurarsi se non lo avrebbero fatto per un bell’uomo, per giunta ricco e letterato come Buratti.
Infatti una bella signora, moglie di un ricco mercante della città, lo aveva più volte fermato per la strada e lo aveva provocato con la sua stupenda scollatura che evidenziava un seno prosperoso e bianchissimo.
Un bel giorno il poeta aveva finalmente accettato l’ennesimo invito a seguirla nella di lei casa per “prendere un caffé”.
Dopo di ciò, il racconto del poeta proseguì con particolari imbarazzanti da riportare, quali alcuni tipi di posizioni e di movimenti di labbra ed altre parti del corpo.
Ma ciò che divertì tutti fu quello che successe dopo.
Me ne stavo ignudo sopra di lei – continuò a raccontare – quando sentii chiudere il portone di casa. Fu un attimo, si aprì la porta della camera che avevamo trasformato in alcova, girai il collo e vidi, dietro di me, il marito della dama, che portava un vestito elegantissimo, un cappello a tricorno e, nella mano destra, un grosso bastone molto raffinato che terminava con un manico rotondo in bianco e duro avorio.
Sentii subito – dentro di me - un dolore acutissimo, come un colpo sul dorso, ne provai già la sofferenza e mi mancò il fiato.
Ma la realtà fu ben diversa: l’uomo non fece nulla di tutto ciò. Si tolse galantemente il tricorno, appoggiò il bastone, si sedette lì vicino e ci invitò continuare. Lui avrebbe guardato senza disturbare. Il giorno dopo, vicino al caffé “Quadri”, lo incrociai nuovamente, mentre stavo assieme ad alcuni amici.
Lui si tolse il cappello, fece un inchino e mi disse: “Quando che el vol, el vegna a casa mia, sior.” Tutti i miei amici, che già sapevano la storia, risero assieme a me.”
Dopo alcuni altri racconti, complice il vino buono ed alcune sostanze che il signor Bianchi – farmacista – portava sempre con sé, le dame presenti iniziarono a sbottonarsi i corsetti, i seni bianchi uscirono e si sentì l’odore della loro pelle… e il tutto proseguì con la solita immancabile orgia.
O, almeno, così andavano raccontando quelli che passavano sotto le finestre di quei palazzi patrizi e che dentro non c’erano mai stati…

Pompeo, indifferente al brio che invasava i suoi concittadini, se ne andò nella sua cameretta e si stese sul letto con le mani dietro alla testa. Gli pareva di tenere su il mondo anziché la sua nuca.
Prese sonno senza accorgersi e, almeno gli parve, venne subito svegliato.
"Pompeo, Pompeo, alzati, ghe xé qua 'na bea fia." lo avvisò, con gioia, Gregorio.
Il giovane si stropicciò gli occhi, non si era accorto di aver dormito tante ore e scorse, dietro al padre, il volto angelico della ragazza ebrea.
"Mi avevi promesso di portarmi a fare un giro" disse lei.

Se ne andarono a camminare per la città, mentre sentivano uscire da ogni casa rumori di festa, odori di buon cibo, ben cucinato, canzoni e gridolini. Continuarono a passeggiare: a girare tutta la città basterebbero due ore, ma se la si volesse conoscere in lungo e in largo Venezia, potrebbe non bastare una vita intera.
"E' una cosa da pazzi." Continuava a ripetere il giovane, non rendendosi ancora conto di come l'assedio e la fame non riuscissero a piegare il popolo veneziano: una forza sovrumana che arrivava da chissà dove. Proveniva solo da una inspiegabile gioia di vivere e di divertirsi. Pensò che, certamente, non potevano esistere altri popoli uguali.
"Non pensare troppo", disse la ragazza e Pompeo notò che le sue labbra erano più rosse dell'ultima volta che le aveva viste.
Tra un bacio e l’altro, si snocciolarono i problemi che sempre esistono nel mondo tra chi si ama, ma appartiene a due diverse famiglie, religioni, nazioni. Ma ogni bacio in più allontanava i problemi, e faceva capire ai due che non esistono famiglie, religioni e nazioni, e che un bacio è più importante di un Papa e di un Imperatore.
E, fin ché i loro corpi si stringevano sempre di più, che pareva diventassero un' unica creatura, si sentirono spari e grida in tutta la città, mentre a tratti il cielo si illuminava, creando bagliori surreali che poco avevano di questo mondo, di questa piccola porzione di terra e acqua intristita, umiliata e assediata.
Era scoccata la mezzanotte, iniziava il nuovo anno del Signore mille ottocento e quattordici.

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