ULTIMO
CARNEVALE
Il
ventidue del mese di febbraio era de “marti grasso”,
ultimo
giorno di carnevale.
Un
vento fortissimo sferzava le calli e urlava lungo le rive mentre,
sopra l'acqua, le onde increspate si muovevano adagio, con lentezza
sempre maggiore, come se una forza terribile e sconosciuta imponesse
loro di fermarsi e di rimanere lì, come surreali e inquietanti
sculture di ghiaccio. Il termometro segnava ormai cinque gradi sotto
lo zero e la laguna, agli occhi di chi si azzardava ad osservarla da
vicino, andava trasformandosi, pian piano, in una lastra verde, quasi
trasparente.
Sembrava
di vivere in una città strana – e già per sé Venezia era strana
– che d’un tratto s’era venuta a trovare non più
nell’Adriatico, ma immersa nel mare polare, come se un’
incantesimo l’ avesse trasportata al Nord per punire ancor più i
suoi abitanti.
Secondo
le ultime notizie, il cappellano militare della fregata "La
Piave" ed un agente contabile, “sono
stati
arrestati
per aver tenuto discorsi "contrari alla pubblica tranquillità”.
Evidentemente
spie e orecchi indiscreti abbondavano in città, tra osterie e case
da gioco.
Al
famosissimo ballo della "Cavalchina", che avrebbe dovuto
chiudere i festeggiamenti del carnevale c'erano -qualcuno lamentava –
“solamente” trecento persone. Pompeo annotò nel suo diario che
alle cinque del pomeriggio già le porte del locale erano chiuse.
Tutti
se n'erano già tornati a casa: e pensare che di solito, negli anni
passati quel ballo tanto atteso durava l'intera notte e anche di più.
Ma
di motivi per divertirsi ce n'erano sempre meno: i bisati, cioè le
anguille, spesso l'unica fonte di sostentamento per i più poveri,
erano diventati introvabili. I canali erano ormai ghiacciati, perciò
impossibile diventava il rifornirsi direttamente, come i cittadini
avevano sempre fatto. Diminuivano anche le razioni fornite ai
militari, il vino iniziava a mancare sensibilmente.
Fu
così che il buon Stefano Monsignori, patriarca di Venezia in queste
ore tragiche, concesse magnanimamente l'indulto:
“la
popolazione della laguna – disse - potrà astenersi dal digiuno di
Quaresima, date le terribili condizioni in cui sta versando.” Dio
perdonerà loro se non osserveranno il digiuno perché lo vogliono,
ma perché non possono fare altrimenti.
Tra
le poche notizie che giungevano al giornale, non mancava mai quella
relativa a furti o ruberie. Il 27 febbraio, Sul giornale veneziano si
trovò a pubblicata questa notizia:
"Due
ladri, dopo aver rubato olio d'oliva in un negozio, hanno lasciato
cadere alcune gocce per la strada da una bottiglia difettosa. E'
stato perciò facile, per la polizia, scoprire la loro abitazione,
dove sono stati trovati tanti altri effetti rubati. Al momento
dell'arresto uno di loro è stato identificato per un personaggio che
da anni si spacciava, mentendo, per pazzo, cosicché nessuno avrebbe
mai sospettato di lui".
Ma
quel numero del Giornale Dipartimentale era uscito con una grave
premessa:
"Nella
mancanza di notizie sicure non cessiamo d'informare il pubblico di
quelle che si possono indirettamente ottenere e che si raccolgono
dalle stampe fattesi in città circonvicine".
Riuscire
ancora a pubblicare un giornale, in quelle condizioni, era certamente
un miracolo. Le notizie che arrivavano dal fronte della guerra erano
vecchie; le battaglie di cui si scriveva erano avvenute tra il 10 ed
il 18 febbraio. Il cronista parlava di esito incerto ma, a quel
tempo, già la situazione per i francesi era precipitata.
Per
fortuna c'erano ancora in giro tante teste matte ed allora di
qualcosa si poteva parlare.
Pompeo,
tra il tragico ed il divertito, il giorno 4 di marzo annotò sul suo
diario la vicenda di un nobil’ uomo che ancora non voleva rendersi
conto della situazione:
“Quattordici
persone si erano recate stamane, per vari motivi, da Venezia fino a
Trieste, Dio solo sa con quante difficoltà da superare. Tra costoro
c'era anche il famosissimo Conte Girardini di Lendinara. Una volta
giunti al porto, però, non vengono fatti scendere, perché chi
governa Trieste (gli austriaci) ha l'ordine di non fare entrare in
città passeggeri provenienti da una città occupata dai nemici
francesi.”
Il
tragico venne dopo. Al loro ritorno in laguna, infatti, il comandante
militare del Lido non concesse loro il permesso di rientrare in
città. Perciò, nonostante imperversasse una burrasca ed il freddo
fosse insopportabile, i malcapitati viaggiatori se ne dovettero stare
dentro la barca, ancorata al largo, coperti solo da alcune stuoie, in
attesa del loro destino. Si sa che
“Molti
loro amici si mobilitarono al più presto per aiutarli",
cercando
di salvare la loro vita in pericolo solo per motivi burocratico
doganali.
E
visto che la gente aveva ancora voglia di ridere, scherzare e
divertirsi (e questo preoccupava l'odiato comandante Seras), il
governo escogitò un espediente per far diventare tutti seri: una
nuova tassa.
Seras,
che, come ci tramanda Pompeo, “era
un
soldataccio
senza cuore, senza alcuna pietà per i cittadini sottomessi”,
impose un salasso di un milione e mezzo di franchi francesi, da
pagarsi entro diciotto giorni dalla pubblicazione del bando. Ottenne
un effetto prodigioso: non si ballò più e non si andò più in
maschera.
Fu
una estorsione vera e propria, ma egli colse due piccioni con una
fava: ottenne lo scopo di calmare gli animi e rimpinguò le sue
casse: Venezia diventò un deserto, mentre Seras divenne l’ incubo
dei veneziani.
"La
rigida stagione, poi
- commentò nel suo scritto, Pompeo - aiutò
il governatore".
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