mercoledì 27 maggio 2020

" Venezia in catene" Capitolo XI




ULTIMO CARNEVALE



Il ventidue del mese di febbraio era de “marti grasso”, ultimo giorno di carnevale.
Un vento fortissimo sferzava le calli e urlava lungo le rive mentre, sopra l'acqua, le onde increspate si muovevano adagio, con lentezza sempre maggiore, come se una forza terribile e sconosciuta imponesse loro di fermarsi e di rimanere lì, come surreali e inquietanti sculture di ghiaccio. Il termometro segnava ormai cinque gradi sotto lo zero e la laguna, agli occhi di chi si azzardava ad osservarla da vicino, andava trasformandosi, pian piano, in una lastra verde, quasi trasparente.
Sembrava di vivere in una città strana – e già per sé Venezia era strana – che d’un tratto s’era venuta a trovare non più nell’Adriatico, ma immersa nel mare polare, come se un’ incantesimo l’ avesse trasportata al Nord per punire ancor più i suoi abitanti.
Secondo le ultime notizie, il cappellano militare della fregata "La Piave" ed un agente contabile, “sono stati arrestati per aver tenuto discorsi "contrari alla pubblica tranquillità”.
Evidentemente spie e orecchi indiscreti abbondavano in città, tra osterie e case da gioco.
Al famosissimo ballo della "Cavalchina", che avrebbe dovuto chiudere i festeggiamenti del carnevale c'erano -qualcuno lamentava – “solamente” trecento persone. Pompeo annotò nel suo diario che alle cinque del pomeriggio già le porte del locale erano chiuse.
Tutti se n'erano già tornati a casa: e pensare che di solito, negli anni passati quel ballo tanto atteso durava l'intera notte e anche di più.
Ma di motivi per divertirsi ce n'erano sempre meno: i bisati, cioè le anguille, spesso l'unica fonte di sostentamento per i più poveri, erano diventati introvabili. I canali erano ormai ghiacciati, perciò impossibile diventava il rifornirsi direttamente, come i cittadini avevano sempre fatto. Diminuivano anche le razioni fornite ai militari, il vino iniziava a mancare sensibilmente.
Fu così che il buon Stefano Monsignori, patriarca di Venezia in queste ore tragiche, concesse magnanimamente l'indulto:
la popolazione della laguna – disse - potrà astenersi dal digiuno di Quaresima, date le terribili condizioni in cui sta versando.” Dio perdonerà loro se non osserveranno il digiuno perché lo vogliono, ma perché non possono fare altrimenti.



Tra le poche notizie che giungevano al giornale, non mancava mai quella relativa a furti o ruberie. Il 27 febbraio, Sul giornale veneziano si trovò a pubblicata questa notizia:
"Due ladri, dopo aver rubato olio d'oliva in un negozio, hanno lasciato cadere alcune gocce per la strada da una bottiglia difettosa. E' stato perciò facile, per la polizia, scoprire la loro abitazione, dove sono stati trovati tanti altri effetti rubati. Al momento dell'arresto uno di loro è stato identificato per un personaggio che da anni si spacciava, mentendo, per pazzo, cosicché nessuno avrebbe mai sospettato di lui".
Ma quel numero del Giornale Dipartimentale era uscito con una grave premessa:
"Nella mancanza di notizie sicure non cessiamo d'informare il pubblico di quelle che si possono indirettamente ottenere e che si raccolgono dalle stampe fattesi in città circonvicine".
Riuscire ancora a pubblicare un giornale, in quelle condizioni, era certamente un miracolo. Le notizie che arrivavano dal fronte della guerra erano vecchie; le battaglie di cui si scriveva erano avvenute tra il 10 ed il 18 febbraio. Il cronista parlava di esito incerto ma, a quel tempo, già la situazione per i francesi era precipitata.
Per fortuna c'erano ancora in giro tante teste matte ed allora di qualcosa si poteva parlare.
Pompeo, tra il tragico ed il divertito, il giorno 4 di marzo annotò sul suo diario la vicenda di un nobil’ uomo che ancora non voleva rendersi conto della situazione:

Quattordici persone si erano recate stamane, per vari motivi, da Venezia fino a Trieste, Dio solo sa con quante difficoltà da superare. Tra costoro c'era anche il famosissimo Conte Girardini di Lendinara. Una volta giunti al porto, però, non vengono fatti scendere, perché chi governa Trieste (gli austriaci) ha l'ordine di non fare entrare in città passeggeri provenienti da una città occupata dai nemici francesi.”

Il tragico venne dopo. Al loro ritorno in laguna, infatti, il comandante militare del Lido non concesse loro il permesso di rientrare in città. Perciò, nonostante imperversasse una burrasca ed il freddo fosse insopportabile, i malcapitati viaggiatori se ne dovettero stare dentro la barca, ancorata al largo, coperti solo da alcune stuoie, in attesa del loro destino. Si sa che
Molti loro amici si mobilitarono al più presto per aiutarli",
cercando di salvare la loro vita in pericolo solo per motivi burocratico doganali.
E visto che la gente aveva ancora voglia di ridere, scherzare e divertirsi (e questo preoccupava l'odiato comandante Seras), il governo escogitò un espediente per far diventare tutti seri: una nuova tassa.
Seras, che, come ci tramanda Pompeo, “era un soldataccio senza cuore, senza alcuna pietà per i cittadini sottomessi”, impose un salasso di un milione e mezzo di franchi francesi, da pagarsi entro diciotto giorni dalla pubblicazione del bando. Ottenne un effetto prodigioso: non si ballò più e non si andò più in maschera.
Fu una estorsione vera e propria, ma egli colse due piccioni con una fava: ottenne lo scopo di calmare gli animi e rimpinguò le sue casse: Venezia diventò un deserto, mentre Seras divenne l’ incubo dei veneziani.
"La rigida stagione, poi - commentò nel suo scritto, Pompeo - aiutò il governatore".

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