Io ho una teoria.
La mia teoria riguarda i girasoli.
Seguitemi bene,perché è una teoria tutta mia.
I girasoli sono dei fiori particolari:
nascono, vivono e muoiono per il sole.
Così come alcune persone, che io chiamo "girasoli",
vivono per l'amore in tutte le sue forme.
Sono perfino un po' attratte dalla sofferenza,
come il fiore che vive di tristezza,
quando il sole va via!
Le persone girasole sono persone particolari,
le noti subito perché hanno una strana luce
dentro gli occhi, e sono belle da morire!
E lucenti come un fuoco che arde.
E' difficile spegnere certe persone:
a volte si spengono da sole, mai per altri,
e hanno questa capacità di illuminare
ogni cosa che hanno attorno.
Fateci caso.
A volte ci sono delle persone che incontrate e vi sentite migliori,
perché loro fanno questo
vi fanno sentire qualcos'altro:
qualcosa di buono,
qualcosa che brilla.
I girasoli illuminano ogni posto in cui mettono piede.
Sono fatte così loro:
non puoi non amarle, non puoi spegnerle,
non puoi non brillare accanto a loro.
Sono fiori
profumano di cielo.
giovedì 28 maggio 2020
La teoria dei girasoli
mercoledì 27 maggio 2020
" Venezia in catene" Capitolo XI
ULTIMO
CARNEVALE
Il
ventidue del mese di febbraio era de “marti grasso”,
ultimo
giorno di carnevale.
Un
vento fortissimo sferzava le calli e urlava lungo le rive mentre,
sopra l'acqua, le onde increspate si muovevano adagio, con lentezza
sempre maggiore, come se una forza terribile e sconosciuta imponesse
loro di fermarsi e di rimanere lì, come surreali e inquietanti
sculture di ghiaccio. Il termometro segnava ormai cinque gradi sotto
lo zero e la laguna, agli occhi di chi si azzardava ad osservarla da
vicino, andava trasformandosi, pian piano, in una lastra verde, quasi
trasparente.
Sembrava
di vivere in una città strana – e già per sé Venezia era strana
– che d’un tratto s’era venuta a trovare non più
nell’Adriatico, ma immersa nel mare polare, come se un’
incantesimo l’ avesse trasportata al Nord per punire ancor più i
suoi abitanti.
Secondo
le ultime notizie, il cappellano militare della fregata "La
Piave" ed un agente contabile, “sono
stati
arrestati
per aver tenuto discorsi "contrari alla pubblica tranquillità”.
Evidentemente
spie e orecchi indiscreti abbondavano in città, tra osterie e case
da gioco.
Al
famosissimo ballo della "Cavalchina", che avrebbe dovuto
chiudere i festeggiamenti del carnevale c'erano -qualcuno lamentava –
“solamente” trecento persone. Pompeo annotò nel suo diario che
alle cinque del pomeriggio già le porte del locale erano chiuse.
Tutti
se n'erano già tornati a casa: e pensare che di solito, negli anni
passati quel ballo tanto atteso durava l'intera notte e anche di più.
Ma
di motivi per divertirsi ce n'erano sempre meno: i bisati, cioè le
anguille, spesso l'unica fonte di sostentamento per i più poveri,
erano diventati introvabili. I canali erano ormai ghiacciati, perciò
impossibile diventava il rifornirsi direttamente, come i cittadini
avevano sempre fatto. Diminuivano anche le razioni fornite ai
militari, il vino iniziava a mancare sensibilmente.
Fu
così che il buon Stefano Monsignori, patriarca di Venezia in queste
ore tragiche, concesse magnanimamente l'indulto:
“la
popolazione della laguna – disse - potrà astenersi dal digiuno di
Quaresima, date le terribili condizioni in cui sta versando.” Dio
perdonerà loro se non osserveranno il digiuno perché lo vogliono,
ma perché non possono fare altrimenti.
Tra
le poche notizie che giungevano al giornale, non mancava mai quella
relativa a furti o ruberie. Il 27 febbraio, Sul giornale veneziano si
trovò a pubblicata questa notizia:
"Due
ladri, dopo aver rubato olio d'oliva in un negozio, hanno lasciato
cadere alcune gocce per la strada da una bottiglia difettosa. E'
stato perciò facile, per la polizia, scoprire la loro abitazione,
dove sono stati trovati tanti altri effetti rubati. Al momento
dell'arresto uno di loro è stato identificato per un personaggio che
da anni si spacciava, mentendo, per pazzo, cosicché nessuno avrebbe
mai sospettato di lui".
Ma
quel numero del Giornale Dipartimentale era uscito con una grave
premessa:
"Nella
mancanza di notizie sicure non cessiamo d'informare il pubblico di
quelle che si possono indirettamente ottenere e che si raccolgono
dalle stampe fattesi in città circonvicine".
Riuscire
ancora a pubblicare un giornale, in quelle condizioni, era certamente
un miracolo. Le notizie che arrivavano dal fronte della guerra erano
vecchie; le battaglie di cui si scriveva erano avvenute tra il 10 ed
il 18 febbraio. Il cronista parlava di esito incerto ma, a quel
tempo, già la situazione per i francesi era precipitata.
Per
fortuna c'erano ancora in giro tante teste matte ed allora di
qualcosa si poteva parlare.
Pompeo,
tra il tragico ed il divertito, il giorno 4 di marzo annotò sul suo
diario la vicenda di un nobil’ uomo che ancora non voleva rendersi
conto della situazione:
“Quattordici
persone si erano recate stamane, per vari motivi, da Venezia fino a
Trieste, Dio solo sa con quante difficoltà da superare. Tra costoro
c'era anche il famosissimo Conte Girardini di Lendinara. Una volta
giunti al porto, però, non vengono fatti scendere, perché chi
governa Trieste (gli austriaci) ha l'ordine di non fare entrare in
città passeggeri provenienti da una città occupata dai nemici
francesi.”
Il
tragico venne dopo. Al loro ritorno in laguna, infatti, il comandante
militare del Lido non concesse loro il permesso di rientrare in
città. Perciò, nonostante imperversasse una burrasca ed il freddo
fosse insopportabile, i malcapitati viaggiatori se ne dovettero stare
dentro la barca, ancorata al largo, coperti solo da alcune stuoie, in
attesa del loro destino. Si sa che
“Molti
loro amici si mobilitarono al più presto per aiutarli",
cercando
di salvare la loro vita in pericolo solo per motivi burocratico
doganali.
E
visto che la gente aveva ancora voglia di ridere, scherzare e
divertirsi (e questo preoccupava l'odiato comandante Seras), il
governo escogitò un espediente per far diventare tutti seri: una
nuova tassa.
Seras,
che, come ci tramanda Pompeo, “era
un
soldataccio
senza cuore, senza alcuna pietà per i cittadini sottomessi”,
impose un salasso di un milione e mezzo di franchi francesi, da
pagarsi entro diciotto giorni dalla pubblicazione del bando. Ottenne
un effetto prodigioso: non si ballò più e non si andò più in
maschera.
Fu
una estorsione vera e propria, ma egli colse due piccioni con una
fava: ottenne lo scopo di calmare gli animi e rimpinguò le sue
casse: Venezia diventò un deserto, mentre Seras divenne l’ incubo
dei veneziani.
"La
rigida stagione, poi
- commentò nel suo scritto, Pompeo - aiutò
il governatore".
venerdì 22 maggio 2020
"Venezia in catene" CAPITOLO X
PAPA'
Le
condizioni del tempo erano andate via via peggiorando durante tutta
la notte. Un freddo pungente tormentava e infastidiva arrivando fin
dentro le case, penetrando da ogni più piccola breccia e dai vetri
rotti. La neve aveva imbiancato le strade, coprendo le sozzure
pudicamente tanto che Venezia pareva, quasi, una città pulita.
Ben
poca gente si azzardava a girar per la strada e dentro i letti,
seppur gelati, ci si poteva stringere tutti sotto un’ unica
coperta. Intere famiglie passavano la giornata così, rannicchiate e
rassegnate, senza più la forza di muoversi per andare a cercare
qualcosa di cui nutrirsi.
Da
Padova, quel mattino, era giunto un burchiello carico di mele, pere
castagne. Ma mancavano i cereali, il pesce scarseggiava e solo il
forte vento impediva che si gelassero i canali.
L'osteria
“Luna”, un punto di ritrovo al solito affollatissimo, aveva
chiuso quel giorno, addirittura per mancanza di vino. Anche l'oste si
era ritirato in casa per cercare rifugio sotto il caldo di una
coltre. Il locale, da quella volta, non avrebbe mai più riaperto.
Pompeo
sentiva da la necessità di scrivere, per far conoscere ai posteri la
situazione in cui si trovavano i veneziani, però il direttore del
suo giornale non aveva il coraggio non solo di pubblicare i suoi
scritti, ma nemmeno di leggerli, temendo di compromettersi, a quel
gesto, col potere militare.
Fu
così che il giovane decise, da allora, di tenere costantemente
aggiornato il suo diario, cercando di raccogliere tutte le notizie
che la stampa ufficiale si sforzava di nascondere. Capì che avrebbe
dovuto scriverlo di nascosto da tutti e di pubblicarlo, semmai,
appena se ne fosse presentata l'occasione. Riportò accuratamente la
cronaca dettagliata di tutto il periodo in cui la città fu
sottoposta al blocco.
Ancora
non sapeva che quel diario sarebbe rimasta l'unica fonte storica di
quei gravi avvenimenti.
Pompeo
annotò, tra le sue pagine:
“15
febbraio, i quattordici marinai della fregata "Principessa di
Bologna", che si trovava in prossimità di Chioggia, dopo aver
accompagnato con uno stratagemma il loro capitano a riva sopra un
caiccio, una piccola barchetta, l'hanno abbandonato rubandogli
cappello e soprabito e se ne sono tornati alla nave. Dopodiché essi
han potuto disertare al nemico con estrema semplicità, poiché il
capo dei disertori aveva indossato gli abiti rubati facendosi passare
per il vero capitano: la nave aveva così potuto abbandonare il porto
di Chioggia saltando i controlli dei francesi e andando incontro agli
inglesi assedianti. Il gruppo si è consegnato a loro con tutto
l'armamentario.”
“22
febbraio, ultimo giorno di carnevale, infuria il vento e il freddo è
eccessivo. Il termometro segna 5 gradi sotto zero.”
“23
febbraio, tutti i canali sono ghiacciati. I bisati, le anguille,
ormai quasi l'unica fonte di sostentamento per i più poveri, sono
introvabili date le condizioni atmosferiche.
Le
trattorie sono ormai tutte chiuse, vista la mancanza di generi
alimentari; tutti i padroni dei negozi che ancora non hanno chiuso si
stanno approntando a farlo.
Qualcuno
si è lamentato che le puntate al casino del Ridotto sono molto
basse, non c'è più il gioco di una volta."
"Pompeo,
Pompeo,",
gemeva, con angoscia, Gregorio.
In
quel letto squallido d'un lurido ospedale, il vecchio cominciò a
rendersi conto con lucidità che la sua ultima ora stava giungendo.
Ed
il figlio, purtroppo, non aveva assolutamente un'idea di come
potergli essere utile.
I
medici erano quasi tutti ammalati; gli infermieri non erano veri e
propri infermieri, ma semplici e occasionali passanti che i francesi
avevano coartato fuori dall'ospedale. Quello che stava alla porta
della camera infatti, per quanta buona volontà ci mettesse, non
sapeva neppure come muoversi dentro un ospedale. Era uno squerarolo
dell'arsenale che non aveva fatto altro, nella sua vita, che lavorare
il legno e battere il ferro per le barche.
Possedeva
due manacce immense con dita grosse come salami. Tempo addietro,
mentre stava passando per caso davanti all'ospedale, un soldato lo
aveva tirato dentro per i capelli, promuovendolo all'istante
assistente caposala. Da quel giorno, era passato quasi un mese, lo
squerarolo non aveva più rivisto sua moglie. Sperava in cuor suo che
ancora lo stesse aspettando e che non avesse già incontrato un altro
uomo.
"Servirebbe
qualcossa par calmarghe i dolori",
affermò il buon uomo, pur sapendo che tutti i medicinali erano
finiti. Nello stesso tempo, pensava che la cosa migliore da fare
fosse quella di accelerare l'arrivo della morte, impedendo
pietosamente al vecchio di continuare a soffrire in quella orribile
maniera.
La
stessa cosa avrebbe voluto anche il figlio che, se ne avesse avuto il
coraggio, avrebbe iniettato egli stesso il veleno in quelle vene
stanche e sclerotizzate; ma si limitò a guardare l'infermiere e a
smuovere la testa con rassegnazione.
Poi
il viso del vecchio si illuminò…guardò stupito verso l’alto per
pochi istanti e cadde addormentato così come si addormentano i
bambini.
Tutti
si fecero il segno della croce di Cristo.
Gregorio
si presentò alle porte del paradiso che erano quasi le dodici e
mezzo. Un orario, ovviamente, valido solo dalle parti di Venezia e
dintorni, perché in altre zone del Mondo era diverso. In paradiso,
poi, non esistevano proprio gli orari ed il tempo era sempre uguale.
Questo, a Gregorio, parve bello.
Fu
l’angelo guardiano ad aprigli il portone con distratta benevolenza.
Il
vecchio, prima di entrare, mise dentro il naso e gli apparve un luogo
dominato da un azzurro verde intenso che inebriava, con una
luminosità destinata a durare nel tempo, come in quei giorni
d’estate in cui il Sole sembra non voler mai tramontare.
L’atmosfera era simile a quella che si respira, da noi, in un
giardino alla metà di maggio, quando i fiori fanno a gara a chi
sboccia prima ed i colori sembrano esplodere. Questo posto era
popolato allegramente da gente che aveva abitato la Terra e, poi,
l’aveva lasciata da molto tempo, da qualcuno morto recentemente e
da chi doveva ancora nascere. Gregorio si sarebbe aspettato di
incontrare all’ entrata, anziché quell’ angelo strano e
svogliato, la figura di san Pietro, come gli avevano insegnato fin da
bambino. Un signore distinto che lo avvicinò, e non si capiva se era
appena morto o se si apprestava a nascere, gli rivelò che il santo
guardiano, primo Papa della Storia, detentore delle chiavi eterne, si
era stancato di fare il portinaio da tutti quei secoli ed aveva
deciso, come era sua facoltà, di tornare sulla terra reincarnandosi
in un nuovo papa. Avrebbe preso il nome, quando sarebbe giunto il
momento, di Leone XIII.
Gregorio
si girò e rivide l’angelo cui toccava di fare il guardiano che si
muoveva con insofferenza e distacco dalla sua mansione.
“Adesso
dove devo andare?” gli chiese.
“E
dove ca...spita vuoi che ti mandi?” gli rispose piccato. Il vecchio
lo guardò sperduto.
“Arrivi
or ora da una città soffocata nella me...lma, dove regnano fame,
freddo, puzza e miseria; eri vecchio e malandato ed ora sei
fortissimo (Gregorio non aveva fatto caso a questo particolare), non
avrai più fame e non ti ricordi più cosa sia la paura, non ti
servon più denari né coltri…e mi chiedi dove devi andare? Ma vai
un po’ dove ca…spita vuoi.”
L’angelo
sembrava contrariato, ma non si capiva perché. Del resto, egli era
obbligato a fare la guardianìa senza che nessuno gli pagasse un
salario, anche perché comunque i soldi, in quel luogo, non gli
sarebbero serviti a nulla. E nessuno gli avrebbe detto: “bravo”
per quello che faceva e, sinceramente, non gli sarebbe neanche tanto
interessato che lo facessero.
Il
fatto era che, di gente, ne arrivava sempre meno, perché tutti
andavano da altre parti e la noia, purtroppo, non era stata debellata
neanche in quel posto meraviglioso.
Almeno
un piccolo sorriso, Santo Iddio, pensò Gregorio, avrebbe ben potuto
farlo.
Poi
si guardò attorno e pensò, colmo di gioia, che non si era mai
sentito così bene in tutta la sua esistenza.
domenica 17 maggio 2020
" Venezia in catene " CAPITOLO IX
CHIOGGIOTTI
Le
diserzioni in massa, tra i militari di presidio a Venezia,
aumentavano in maniera impressionante, tanto che, con l'inizio del
nuovo anno, si faticò a tenerne nota.
Pompeo
era avvisato costantemente: si aprivano in continuazione nuovi buchi
tra chi doveva controllare i confini della città. A volte erano le
stesse guardie a fuggire e a darsi al nemico. Ma, nel suo giornale,
certe notizie non si potevano di certo pubblicare. Il numero del 3
gennaio, uscito in ritardo, ne parlava appena, anche se la
pubblicazione di ordinanze severissime contro i disertori, faceva
capire chiaramente che il problema, per il governo francese della
città, era enorme.
Dall’altra
parte della laguna, verso Sud, nella città gemella di Venezia,
Chioggia, stava intanto succedendo un fatto che aveva
dell’incredibile.
In
quei giorni, infatti, gli abitanti di Chioggia erano soliti venire
fino a Venezia per vendere le loro derrate alimentari, perché ne
ricavavano assai maggior guadagno che se le avessero vendute nella
propria città, perché a Venezia erano sempre stati più ricchi e
anche perché a Chioggia erano tutti pescatori e con la storia del
blocco navale nessuno poteva più andare al lavoro nel mare, unico
sostentamento delle proprie famiglie.
Era
una speculazione dannosissima, perché, in poco tempo, avrebbe sì
riempito le tasche degli speculatori, ma avrebbe ridotto Chioggia
alla fame; brutto destino per quei poveri chioggioti: morir di fame
con le tasche piene di soldi.
Fu
così che il prefetto di Chioggia, il nobile signor Baldassaroni,
tentò in maniera intelligente di fermare questa scemenza con un
decreto in cui si vietava di vendere alcunché a Venezia.
Ma
tale gesto non piacque al governatore Seras tanto feroce quanto
ignorante, che non aveva autorizzato quella misura e che annullò il
decreto, affermando che il commercio tra le due città, entrambe
bloccate, doveva continuare.
Accadde
allora, inevitabilmente, che i clodiensi, o chioggiotti come li
chiamavano i veneziani, si trovarono, in brevissimo tempo, senza
generi di prima necessità. Questa incresciosa situazione scatenò un
tumulto di popolo ( proprio lo stesso popolo che aveva cercato di far
soldi speculando a Venezia), in cui non mancarono botte e violenze e
che venne bloccato soltanto dalla promessa di Seras, che non sapeva
più che pesci pigliare (e non c’erano più neanche pesci), che
sarebbe stata portata un pochina di farina da Venezia a Chioggia.
Ciò
bastò a calmare gli animi.
Era
soltanto il 6 gennaio e già Venezia pensava, nonostante tutto, al
carnevale. Il governo fece sapere che era permesso portare le
maschere, a meno che, i travestimenti, non fossero stati contrari
alla morale e irrispettosi dell'autorità costituita, della
religione, dei costumi.
In
tipografia il giornale era quasi pronto, Pompeo stava preparando
l'articolo riguardante il carnevale. In pratica, egli doveva
limitarsi a pubblicare l'ordinanza del governo così come gli veniva
passata: erano vietati gli spari e l'uso di rocchette e fuochi
artificiali (che tanto, per capodanno, ne erano stati utilizzati a
sufficienza), e per chi girava armato, creava tumulti o commetteva
atti indecenti in maschera (e gli atti indecenti non mancavano mai,
specie se si era in maschera), scattava l'arresto immediato e
l'obbligo di smascherarsi davanti al poliziotto (cosa che avrebbe
fatto accapponare la pelle ai Dogi della serenissima, nei tempi in
cui il diritto di maschera era considerato quasi una cosa sacra, come
il diritto di andare a messa).
Se
il reo poi, apparteneva ad una delle classi chiamate alla leva,
sarebbe incorso nelle pene stabilite per i renitenti.
Tutto
qui: il "giornalista" Pompeo non avrebbe dovuto aggiungere
altro a queste notizie-ordinanze che giungevano dal governo. E sì
che di cose da dire ne avrebbe avute molte.
"Xé
sciopà el tifo" annunciò una voce concitata alla porta della
tipografia.
"Qua
a Venexia?"
"Sì,
all'ospedal."
In
tutti gli ospedali cittadini, era scoppiato il terribile morbo.
Era
successo che alcuni giovani militari di presidio, non abituati alle
fatiche della guerra o alle notti di guardia, avevano iniziato ad
accusare un marasma alla pancia, che presto degenerò in una malattia
più terribile, il tifo, appunto. Gli ospedali che già erano infetti
e sozzi, erano carichi di ammalati ed il loro numero aumentava
costantemente. Il morbo sorprese anche medici ed infermieri. Venne
istituito un ospedale in sacca san Biagio allo scopo di isolare
quelli che erano stati infettati dalla malattia.
La
tragica lista dei morti, che il Giornale dipartimentale Adriatico
pubblicava costantemente, si stava gonfiando in modo spaventoso.
Pompeo
guardò fuori dalla finestra e vide che, lentamente, era iniziata a
cadere la prima neve.
Attraverso
il chiarore nitido che usciva dalla vetrata, gli parve di scorgere
movimenti di esseri umani, simili alle migrazioni degli animali, in
cerca di cibo e di acqua. Vide milioni di persone, in un futuro non
molto lontano, disperate e umiliate, anche se sotto la loro terra
nascondevano tesori. Come i chioggiotti anche i popoli di domani
dovranno svendere i loro patrimoni e le loro ricchezze senza
ricavarne di che vivere, trovandosi a morire di fame per far
arricchire i loro Napoleoni e i loro Seras.
Passò
di là una donna, la Guerrina, quella che vendeva la frutta a Rialto
assieme a sua sorella Lucia, che lo avvisò:
"Va
a casa, Pompeo, che tò papà sta tanto e tanto mal."
venerdì 15 maggio 2020
mercoledì 13 maggio 2020
" Venezia in catene" CAPITOLO VIII
Capodanno
da Buratti
Dopo
l’uscita dell’ultimo numero, la sede del giornale era stata
abbandonata: il direttore aveva chiuso tutto senza salutar nessuno e
senza avvisare quando si sarebbe stampato, sempre “se” si sarebbe
stampato, il numero successivo.
In
quei pochi fogli si potevano leggere le solite notizie palesemente
false – lo avrebbe capito anche un bambino - riguardanti vittorie
esaltanti quanto inesistenti dell’esercito francese, alcune di
addirittura trionfali, di città conquistate con valore e tenacia.
In
realtà si trattava di una guerra che Napoleone aveva ormai perduto,
lo sapevano già tutti nel resto del Mondo, ma a Venezia ancora non
lo sapeva nessuno.
Pompeo
non poteva più sopportare che venissero celati i terribili patimenti
cui ogni cittadino era costretto in maniera tanto infame.
Mentre
vagava per le calli senza una meta precisa, si stupì (ma lo stupore,
ormai, gli riusciva sempre difficile), vedendo la gioia con cui i
suoi concittadini si preparavano a festeggiare – alla grande, come
sempre - l'arrivo del nuovo anno.
Una
volta giunto a casa prese in mano il diario, che almeno quello lo
avrebbe potuto scrivere in libertà e, senza spogliarsi che tanto era
freddo anche lì dentro, scrisse una struggente preghiera al cielo:
"Compie
il 1813, anno veramente nefasto.
Nel
di lui corso fummo flagellati con guerre, tempeste, inondazioni,
terremoti, aggravj insopportabili, fallimenti, coscrizioni, ed in
fine col blocco.
Si
fanno voti al cielo, perché l'imminente 1814 ci sia più propizio.
Ma
pur troppo incomincia anch'egli con lo stesso o poco differente
apparato di disgrazie.
Il
blocco, che ci opprime già da due mesi, viene riguardato come la più
grande di ogni altra - speriamo che la mano dell'Onnipossente
affretterà la tanto da noi sospirata pace."
Tutte
le case erano pavesate a festa, quella sera. Gregorio aveva trovato
da qualche parte alcune ghiottonerie e non si capiva come avesse
fatto. Il vecchio, col solito sorriso sulle labbra, stava già
rifocillandosi. Con la bocca piene disse, rivolto al figlio:
"Magna,
magna che el xé bon."
Nel
piatto campeggiava una specie di frittella che non dava ad intendere
cosa contenesse all'interno, tre uova basotte e alcuni fagioli
conditi con del liquido che, a ben sperare, pareva olio di oliva.
Intanto
i notabili della città erano tutti riuniti a casa del poeta Buratti.
Buratti
era un poeta satirico che componeva versi abbastanza "spinti",
dall’ intenso contenuto erotico, tanto da esser considerato un
sozzo da alcuni e da altri paragonato al celebre “Baffo”, poeta
non meno audace.
Egli
era stato invitato, poco tempo prima, ad una cena ufficiale in casa
del prefetto della città, anzi del “Prefetto del Dipartimento
dell’Adriatico”, cioè il nobile signor Francesco Galvagna, alla
presenza di ospiti illustri come il podestà di Venezia, Girolamo
Bartolomeo Gradenigo, il commissario generale di polizia Antonio
Mulazzani, ufficili del comando francese e varie personalità del
mondo letterario.
Non
curante della solennità del luogo, a mo' di ringraziamento per
quell'invito lesse, davanti a tutti gli invitati, nobiluomini e dame,
alcuni sonetti di satira da lui composti.
Dopo
un po’ il prefetto, imbarazzatissimo, cercò di dissuaderlo senza
riuscirci e lo invitò, perlomeno, a non pubblicare queste facezie
ma, pochi giorni dopo, le copie dei versetti avevano già invaso
Venezia.
Ma
più dell’erotismo faceva male, a chi deteneva il potere, la satira
politica. Questi versi risultarono particolarmente duri ai censori:
"Per
chi ha visto el rosto infame
della
fezza democratica
superar
l'ingorda fame
della
fezza aristocratica.
Da
l'inglese prepotente
xè
in caena messo el mar
da
la tera no vien zente
no
vien roba da magnar
Che
zà presto da stanote
un
bel zorno spuntarà
e
a le barbare so grote
i
nemici tornerà."
Buratti
se la prendeva sia con gli inglesi che con Napoleone e Francesco
d'Austria e poi con gli aristocratici e i municipalisti: odiava tutti
i potenti e gli invasori, li disprezzava e le cose, lui, non le
mandava di certo a dire.
Essi
erano, a suo modo di vedere, tutti barbari che venivano dalle grotte,
persone incivili, feccia, come feccia erano quei suoi concittadini
che andavano ad osannare ogni nuovo invasore, pronti a offrire i
propri servigi e la propria anima al potente di turno.
Il
giorno dopo Buratti venne denunciato dai filo francesi al terribile
generale Seras, che lesse i versetti: fu subito arrestato senza tanti
complimenti.
Non
gli fecero alcun processo, ma venne condannato a trenta sferzate
sulla schiena. I suoi aguzzini poi, non contenti, lo bastonarono per
molte ore e lo lasciarono alcuni giorni a pane ed acqua, dopo un po’
lo liberarono anche se gli imposero, a mo’ di sicurezza, un
poliziotto in casa .
Quel
giorno di capodanno quindi, nell’abitazione dell’esimio poeta si
riunirono gruppi di amici, di amanti della poesia ma anche del buon
vino, cercando di consolarlo e di farlo guarire dalle sue botte, un
po’ prendendolo in giro, un po’ facendosi raccontare quel che
Buratti sapeva raccontare meglio, perché ciò che amavano di più i
suoi ospiti erano le sue novelle erotiche che mai mancavano in quelle
riunioni.
Il
buon vino, la bella compagnia di dame fresche o meno giovani, ma
sempre affascinanti come lo sanno essere qui da noi, stimolarono la
memoria del poeta, che narrò una vicenda avvenuta qualche anno
prima:
Si
era nel tempo in cui a Venezia si viveva mille e una notte, e forse
anche di più: quando, cioè, le persone veramente importanti ed
anche quelle che lo erano meno, venivano qui a stimolare e a
soddisfare la loro libidine, senza guardare all’età o al sesso di
chi la soddisfaceva. I signori potevano trovare prostitute (ma non è
il termine appropriato per delle bambine), che avevano un età
compresa tra i dieci e i sedici anni senza che nessuno, nell’umanità
di quel tempo, avesse qualcosa da ridire.
In
quei giorni era impossibile muoversi per la zona di San Marco senza
incontrare uomini vestiti come donne o dame in età non più
adolescente pronte ad importunare giovanotti e gondolieri.
Se
le dame si concedevano a tutti, figurarsi se non lo avrebbero fatto
per un bell’uomo, per giunta ricco e letterato come Buratti.
Infatti
una bella signora, moglie di un ricco mercante della città, lo aveva
più volte fermato per la strada e lo aveva provocato con la sua
stupenda scollatura che evidenziava un seno prosperoso e
bianchissimo.
Un
bel giorno il poeta aveva finalmente accettato l’ennesimo invito a
seguirla nella di lei casa per “prendere un caffé”.
Dopo
di ciò, il racconto del poeta proseguì con particolari imbarazzanti
da riportare, quali alcuni tipi di posizioni e di movimenti di labbra
ed altre parti del corpo.
Ma
ciò che divertì tutti fu quello che successe dopo.
“Me
ne stavo ignudo sopra di lei – continuò a raccontare – quando
sentii chiudere il portone di casa. Fu un attimo, si aprì la porta
della camera che avevamo trasformato in alcova, girai il collo e
vidi, dietro di me, il marito della dama, che portava un vestito
elegantissimo, un cappello a tricorno e, nella mano destra, un grosso
bastone molto raffinato che terminava con un manico rotondo in bianco
e duro avorio.
Sentii
subito – dentro di me - un dolore acutissimo, come un colpo sul
dorso, ne provai già la sofferenza e mi mancò il fiato.
Ma
la realtà fu ben diversa: l’uomo non fece nulla di tutto ciò. Si
tolse galantemente il tricorno, appoggiò il bastone, si sedette lì
vicino e ci invitò continuare. Lui avrebbe guardato senza
disturbare. Il giorno dopo, vicino al caffé “Quadri”, lo
incrociai nuovamente, mentre stavo assieme ad alcuni amici.
Lui
si tolse il cappello, fece un inchino e mi disse: “Quando che el
vol, el vegna a casa mia, sior.” Tutti i miei amici, che già
sapevano la storia, risero assieme a me.”
Dopo
alcuni altri racconti, complice il vino buono ed alcune sostanze che
il signor Bianchi – farmacista – portava sempre con sé, le dame
presenti iniziarono a sbottonarsi i corsetti, i seni bianchi uscirono
e si sentì l’odore della loro pelle… e il tutto proseguì con la
solita immancabile orgia.
…O,
almeno, così andavano raccontando quelli che passavano sotto le
finestre di quei palazzi patrizi e che dentro non c’erano mai
stati…
Pompeo,
indifferente al brio che invasava i suoi concittadini, se ne andò
nella sua cameretta e si stese sul letto con le mani dietro alla
testa. Gli pareva di tenere su il mondo anziché la sua nuca.
Prese
sonno senza accorgersi e, almeno gli parve, venne subito svegliato.
"Pompeo,
Pompeo, alzati, ghe xé qua 'na bea fia." lo avvisò, con gioia,
Gregorio.
Il
giovane si stropicciò gli occhi, non si era accorto di aver dormito
tante ore e scorse, dietro al padre, il volto angelico della ragazza
ebrea.
"Mi
avevi promesso di portarmi a fare un giro" disse lei.
Se
ne andarono a camminare per la città, mentre sentivano uscire da
ogni casa rumori di festa, odori di buon cibo, ben cucinato, canzoni
e gridolini. Continuarono a passeggiare: a girare tutta la città
basterebbero due ore, ma se la si volesse conoscere in lungo e in
largo Venezia, potrebbe non bastare una vita intera.
"E'
una cosa da pazzi." Continuava a ripetere il giovane, non
rendendosi ancora conto di come l'assedio e la fame non riuscissero a
piegare il popolo veneziano: una forza sovrumana che arrivava da
chissà dove. Proveniva solo da una inspiegabile gioia di vivere e di
divertirsi. Pensò che, certamente, non potevano esistere altri
popoli uguali.
"Non
pensare troppo", disse la ragazza e Pompeo notò che le sue
labbra erano più rosse dell'ultima volta che le aveva viste.
Tra
un bacio e l’altro, si snocciolarono i problemi che sempre esistono
nel mondo tra chi si ama, ma appartiene a due diverse famiglie,
religioni, nazioni. Ma ogni bacio in più allontanava i problemi, e
faceva capire ai due che non esistono famiglie, religioni e nazioni,
e che un bacio è più importante di un Papa e di un Imperatore.
E,
fin ché i loro corpi si stringevano sempre di più, che pareva
diventassero un' unica creatura, si sentirono spari e grida in tutta
la città, mentre a tratti il cielo si illuminava, creando bagliori
surreali che poco avevano di questo mondo, di questa piccola porzione
di terra e acqua intristita, umiliata e assediata.
Era
scoccata la mezzanotte, iniziava il nuovo anno del Signore mille
ottocento e quattordici.
domenica 10 maggio 2020
Madre nel volo
Mi dispiace se non mi respiri nell'aria del tuo giardino
io, mi volteggio spesso qui...
Se non mi vedi tra le forme buffe di una piccola nube
io, mi disegno spesso così...
Mi dispiace se non mi odi tra il canto del silenzio,
mi intono ogni notte in questo eccentrico suono...
Se non cogli il mio rifinito abbraccio eppure,
ti stringo intensamente nel sole dell'anima
Come quando tu eri bambina
e andavamo a raccogliere le more
ti sollevavo per farti prendere i frutti del gelso
i più alti, i più maturi e dolci.
Quando scendevi dalle mie braccia
vedevo la meraviglia del tuo visino
macchiato dal succoso frutto,
ti rendeva allegra e oltre modo adorabile
Cerca cara
il vento di allora...
Se son volata via e, non mi trovi nei tuoi occhi
lancia nel vuoto il mio nome
Tornerà l'eco del mio amore
sboccerà un singolare fiore
avrà il colori tenui dell'alba,
insegui la fragranza di questa gradazione
sarà questa scia che ti condurrà alla distesa dello schermo
Sarò li, ti attendo da sempre.
Brunetta Sacchet
giovedì 7 maggio 2020
Alle dee che abitano la terra
Come fiera oggi cammino forte e sincera
non ho paura più,
dell'uomo e del male.
Vado lungo le strade dei sentieri che presi
inseguendo l'amore che diedi
Quello del cuore
e, si fece sorriso
e, si fece gioia
e, si fece estasi
e, si fece pianto
Come fiera oggi cammino audace e serena
non ho paura del solco che mi decifrò:
come codice d'evo per rammentare ogni vissuta emozione
Come fiera oggi cammino nell'energia
che mi dettò la nota stonata di una cattiva giornata
la volli salvare nel barcode di un capovolto pensiero
per migliore in futuro ogni evento privo d'incanto.
Nello spartito dell'anima, composi l'aria di questa esecuzione,
della donna che sono
Contiene l'eco dei miei passi e il fremito dei voli che feci
seppur con ali tarpate
Il mio canto oggi lo dedico alla donne che incontrai,
molte solari e di buon cuore,
altre austere e fredde, come le lezioni che mi impartirono.
Donne delicate e colte, nascoste tra le folle disordinate
sempre amiche, sorelle sincere.
A quelle dell'aspetto fragile, ma tenaci nell'anima
silenziose eroine che bandiere non videro mai.
Come fiera oggi cammino
su percorsi dettati dal tempo,
e ancora il cuore trova i passi di giumenta
A tutte le dee,
che abitano la terra, vada il cielo terso
con cento schizzi di petali di rosa
sia ancora per l'anima profumo di paradiso.
Brunetta Sacchet
non ho paura più,
dell'uomo e del male.
Vado lungo le strade dei sentieri che presi
inseguendo l'amore che diedi
Quello del cuore
e, si fece sorriso
e, si fece gioia
e, si fece estasi
e, si fece pianto
Come fiera oggi cammino audace e serena
non ho paura del solco che mi decifrò:
come codice d'evo per rammentare ogni vissuta emozione
Come fiera oggi cammino nell'energia
che mi dettò la nota stonata di una cattiva giornata
la volli salvare nel barcode di un capovolto pensiero
per migliore in futuro ogni evento privo d'incanto.
Nello spartito dell'anima, composi l'aria di questa esecuzione,
della donna che sono
Contiene l'eco dei miei passi e il fremito dei voli che feci
seppur con ali tarpate
Il mio canto oggi lo dedico alla donne che incontrai,
molte solari e di buon cuore,
altre austere e fredde, come le lezioni che mi impartirono.
Donne delicate e colte, nascoste tra le folle disordinate
sempre amiche, sorelle sincere.
A quelle dell'aspetto fragile, ma tenaci nell'anima
silenziose eroine che bandiere non videro mai.
Come fiera oggi cammino
su percorsi dettati dal tempo,
e ancora il cuore trova i passi di giumenta
A tutte le dee,
che abitano la terra, vada il cielo terso
con cento schizzi di petali di rosa
sia ancora per l'anima profumo di paradiso.
Brunetta Sacchet
martedì 5 maggio 2020
" Venezia in catene"
CAPITOLO
VII
I
DISERTORI
Ma
a questo punto, nonostante si cercasse di celare ogni paura
attraverso feste e divertimenti, spettacoli e risate, balli e riti
orgiastici uno spettro sinistro, quello che precede solo la morte,
era giunto a destinazione…
Fame
! Com'era brutto anche il solo pronunciarla, quella parola.
Aveva
iniziato, come sempre, a torturare i più disgraziati, gli umili,
quelli che a malapena erano riusciti a sopravvivere e che ricchi non
erano mai stati. Poi, pian piano, era arrivata a tormentare lo
stomaco di coloro i quali, a certe cose innominabili, non erano
avvezzi.
La
fame è come una malattia non solo fisica, che inizia a minare
l'animo, la sicurezza, la fiducia in sé stessi. Chi, prima, era
abituato a nuotare nell'oro, reagiva ora, a questa assurda situazione
che la città stava vivendo, con molta minor dignità.
Tanti
nobili decaduti, come i famosi barnaboti che nessuno ormai avrebbe
più potuto aiutare, furono costretti realmente a mangiare l’erba
che cresceva nei cortili o tra i masegni e non si vergognavano a
manifestare pubblicamente e indecorosamente la propria disperazione.
Ma i poveri, quelli della fame endemica dimostravano, quando fosse
possibile, maggior forza d’animo.
Chissà
qual’ è il vero significato della parola "nobiltà"? In
quei giorni, a Venezia, i veri nobili sembrava che fossero proprio
loro, gli ultimi, i poveri, i diseredati.
Ogni
casa, allora, si trasformò in un laboratorio da fornaio.
Pompeo,
che era tornato a lavorare nella tipografia del suo giornale,
correggeva bozze e "ispirava" articoli agli altri, visto
che di suoi non ne poteva ancora scrivere.
Per
quella sede, però, passavano tutte le informazioni che si riuscivano
ad ottenere, sia circa la situazione interna, sia di ciò che
succedeva fuori dalla laguna, ormai isolata dal resto del mondo.
Compilò
il solito conteggio, sempre disgraziatamente sbilanciato in favore di
nostra sorella morte.
"Dal
25 al 30 novembre 1813, a Venezia sono nati 56 individui e ne sono
morti 172."
Il
numero dei decessi dovrà superare, di molto, quello delle nascite,
per tutto il periodo del blocco.
Ma
ciò che stupiva Pompeo, in realtà, era il fatto, di per sé
miracoloso, che continuassero a nascere ancora bambini.
Il
numero del 5 dicembre, ormai pronto per la stampa, iniziava, nella
pagina della cronaca locale, con queste parole:
"Tutte
le famiglie veneziane sono impegnate a sfornare pane, di giorno e di
notte. Se ne producono incredibili quantità."
Questo
la dice lunga su quanto poco facilmente si abbattessero i veneziani
incarcerati in laguna: la voglia sopravvivere esortava tutti,
indistintamente a darsi da fare. E tutti i sistemi erano buoni, visto
che da quei forni uscirono pagnotte, biscotti pane dolce; tanti
alimenti nuovi furono inventati in quel periodo, dolci e salatini che
continueranno ad essere di moda anche tra i palati sofisticati di due
secoli dopo.
Ma
iniziava a mancare la materia prima, perché, nonostante le scorte,
la farina stava diventando introvabile.
Anche
stavolta, comunque, si riusciva a trovare dei colpevoli; nel numero
successivo, ecco la notizia:
"Da
oggi, gli abitanti della laguna potranno mangiare solo pane nero
(malsano e pesante), l'ingordigia dei fabbricanti fa temere che, in
seguito, la qualità sarà peggiore."
D'altronde
il governo, con un decreto a data dello stesso giorno, aveva vietato
la fabbricazione di pane bianco.
Al
mattino dell'8 dicembre, nella redazione del giornale, giunse la
notizia che la polizia aveva arrestato tre militari italiani -
arruolati nell'esercito francese - considerati disertori, assieme a
due battellanti che li avevano aiutati a fuggire.
Pompeo
storse la bocca in un sorriso sforzato. Gli faceva piacere sapere
che, a quel punto, le diserzioni si stavano moltiplicando. Sapeva
anche che molti uomini erano riusciti a fuggire, consegnandosi a
inglesi ed austriaci o, semplicemente, tornando alle loro case. la
maggior parte erano italiani che, di combattere per la Francia, ormai
ben poco gli interessava.
Però
il giornale era autorizzato a dare la notizia solo quando i disertori
venivano catturati. Non si doveva "minare" il morale della
truppa, se mai ce ne fosse stato bisogno, perciò il direttore aveva
avuto l'ordine di non menzionare mai le infinite fughe riuscite.
Ma,
nello stesso foglio, veniva riportata con enfasi la notizia che le
pene per i disertori erano durissime, che chi fosse stato trovato a
vendere vestiti borghesi ai militari l'avrebbe pagata cara, che i
battellieri trovati a trasportare disertori sarebbero stati messi a
morte.
E
la notizia che Pompeo dovette correggere e far pubblicare, quattro
giorni dopo, fu proprio quella che parlava della pena inflitta a chi
aiutava a scappare, prima ancora che ai disertori:
"Venezia
12 dicembre 1813, i due battellanti che hanno aiutato tre militari
dell'esercito francese a disertare, sono stati fucilati questa
mattina. Avevano 18 e 21 anni."
Ormai,
nonostante le reazioni terribili, le diserzioni erano divenute
inarrestabili.
Per
far fronte a tutte queste fughe, necessitavano sempre nuove leve. Il
giorno 15, giunse la notizia che venticinque detenuti per reati
comuni, vennero scarcerati dalla casa di correzione ed avviati a
servire, immaginiamo con quanto zelo, l'artiglieria di marina.
Uno
dei disertori catturati era un giovane di ventitre anni, figlio di un
noto avvocato bolognese. Forse per questo i due barcaroli che lo
avevano aiutato a fuggire (erano due gondolieri), erano già stati
giustiziati qualche giorno prima. Egli aveva creduto di servire
l’esercito della rivoluzione, che avrebbe portato la democrazia tra
i popoli, mentre gli altri due commilitoni erano stati coartati dalle
leggi di leva. Quando aveva capito che razza di rivoluzionario fosse
il signor Napoleone Bonaparte, imperatore più imperialista degli
imperatori dell’impero centrale, alla faccia di libertè egalitè e
fraternitè, peggiore degli zar e del crucco, aveva convinto anche
gli altri due ad andarsene…tanto ormai era tutto finito.
In
fin dei conti, qualche mese prima - anche se a Venezia ancora non era
arrivata la notizia - Napoleone era stato sconfitto a Lipsia dalle
potenze coalizzate ed ormai la sua fine era vicina.
Il
ragazzo avrebbe voluto raggiungere la sua famiglia a Bologna, e gli
sarebbe bastato uscire da Venezia per trovare la libertà: poche
vogate fino ai margini della laguna. Ma fu catturato dal suo stesso
esercito, e non c’è nulla di più spietato – lo insegnerà la
Storia più avanti – di un esercito in rotta, con generali falliti
e per questo più cattivi, con sergenti e marescialli che hanno sete
di sangue prima di terminare la loro guerra perduta. E venga la pena
di morte per i disertori, specialmente per chi fugge dalle guerre
sbagliate.
I
tre giovani vennero fucilati all’alba, in una città in cui si
stava morendo di freddo e di inedia, il giorno 17.
Pompeo
era
in tipografia, un piccolo locale dove si scriveva, si decideva, si
stampava, in campiello dei Meloni al numero civico 1373, dopo il
campo san Silvestro.
Il
signor Graziosi, direttore e padrone, visibilmente imbarazzato,
dovette avvisare i suoi collaboratori che, di lavoro, ce ne sarebbe
stato molto meno. Le poste si erano "arenate", e di notizie
ne giungevano sempre meno. Diede l'incarico di pubblicare, in testa
al numero del 22 dicembre, questo avvertimento:
"Gli
editori, visto l'arenamento delle poste, ritengono opportuno
pubblicare il giornale solo due volte alla
settimana,
in luogo delle tre uscite settimanali, almeno fino a che non si
riapra il libero corso dei corrieri."
Il
termine "corrieri" rievocò, al giovane, ricordi ch'egli
credeva caduti in un oblio definitivo. In quell'istante, gli vennero
in mente le gite compiute a piedi e, quando le cose andavano meglio,
in carrozza, nell'entroterra e nelle magnifiche cittadine venete,
Asolo, Castelfranco o in quelle lungo la costa d'Istria, come la
splendida Parenzo. Viaggiare, negli ultimi tempi, era diventato
sempre più difficile, ma qualche giro, assieme al padre e al
fratello Giovanni, lo aveva ancora potuto fare.
Adesso
che stava richiuso in laguna, gli sembrava di vivere in un carcere di
grandi dimensioni, assieme ad altre decine di migliaia di detenuti:
ancora di più, come è ovvio tra le persone normali, sognava di
potersi muovere liberamente, di andare lontano.
Uscì,
camminò sulla riva del vin, lungo il canal grande in vista del
ponte di Rialto.
Stette
a lungo ad osservare i gabbiani, liberi, che volavano un po' in acqua
e un po' nel cielo. Anche loro erano morti di fame ma, pensò, essi
non dovevano pagare le colpe, orrende, degli uomini.
Forse
per quel motivo Dio Misericordioso li aveva dotati di grandi ali.
Arrivò
la vigilia di Natale, la situazione s'era fatta, per tutti
indistintamente, disperata.
Almeno
così la pensava Pompeo ma, aggirandosi guardingo per la città,
dovette ben presto ricredersi. Tornò a casa e segnò, nel suo
diario:
"24
dicembre, Se fosse arrivato uno straniero non avrebbe creduto che la
città è in stato di blocco, il buon umore è impresso sulle facce
della gente, si è speso e mangiato secondo il costume degli altri
Natali. I negozi sono pieni di grascie e ghiottonerie e si è
gozzovigliato come se tutto stesse andando bene. I teatri hanno
registrato il pienone ogni sera. sono aperti il san Moisè ed il san
Benedetto."
"Mah...-
pensò sconsolato – forse è meglio così, agitarsi e piangere non
ha mai risolto nulla…però, un po’ di incoscienza in meno ci
farebbe bene.”
Il
28 uscì il giornale e, per l’anno 1813, sarebbe stata l’ultima
volta.
Mentre
se ne tornava a casa scorse, in lontananza, la figura piacevole di
Myriam, la ragazza del ghetto, che scherzava divertita con alcuni
soldati francesi. Ebbe un tuffo al cuore. Immaginò, forse
malignando, ciò che la ragazza avrebbe concesso loro. Forse,
sarebbero andati tutti in qualche posto nascosto ed avrebbero fatto
le porcherie.
Senza
averne diritto si sentì male, quasi da impazzire, e capì quanta
importanza potesse avere per lui quella ragazza figlia di un popolo
tanto differente…ma quanto grande fosse questa differenza non gli
riusciva ancora di calcolare.
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